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25.10.2014 - 16:240
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

STILE OTTICA - Come ti fotografo, per capire come ti guardo il mondo: la macchina fotografica, la copia del nostro occhio

“E sono gli elementi in comune che ci permettono di conoscere meglio come funziona la nostra vista”, spiega l’ottico Nicolas Augsburger Rossi, di Stile Ottica, con cui abbiamo realizzato il primo di una serie di articoli sul tema

MENDRISIO – Gli occhi sono lo specchio dell’anima: con loro parliamo, sorridiamo, piangiamo, sbuffiamo. Ma soprattutto con loro osserviamo il mondo che ci circonda e, in un certo senso, lo fotografiamo. Non a caso, sono molte le similitudini fra i nostri occhi e le macchine fotografiche, da quella tradizionale a quella integrata sui nostri cellulari.

E proprio su questa similitudine si concentra il primo di una serie di articoli sulla vista, nati in collaborazione con l’ottico Nicolas Augsburger Rossi, di Stile Ottica.

“Il principio della fotocamera – spiega – è stato copiato dall’occhio. E sono gli elementi in comune che ci permettono di capire meglio come funziona la nostra vista”.

Le analogie si concentrano su tre parti: il diaframma, che corrisponde alla nostra iride; la lente dell’obiettivo, ossia il nostro cristallino e il sensore, corrispettivo meccanico della retina.

Cominciamo dal primo, il diaframma che, come la nostra iride (la parte colorata dell’occhio, al cui centro c’è la pupilla) serve a regolare la quantità di luce che entra ma non solo. Un altro aspetto è quello della profondità di campo, cioè, se metto a fuoco un oggetto, quanto vedo netto, chiaramente, davanti e dietro ad esso, spiega Augsburger. “Se il diaframma è molto aperto (ossia se le pupille sono molto dilatate), vedrò l'oggetto inquadrato in modo chiaro, ma quello che si trova prima e dopo sarà molto sfocato. Al contrario, se il diaframma è poco aperto (pupille piccole), vedrò netto anche quello che si trova un po' avanti e un po' dietro all'oggetto”.

Luce, profondità di campo e ‘grandezza’ della nostra pupilla, sono quindi intimamente legate.

Ma per vedere bene abbiamo bisogno di tanta luce, e l’esempio più lampante è nella lettura. “In pratica per noi, leggere in un ambiente molto luminoso ci permette di sforzare meno la vista, questo perché mettere a fuoco a una distanza maggiore rispetto al testo stanca meno l'occhio”.

In un ambiente molto luminoso perciò, la luce da ‘far entrare’ per mettere a fuoco è minore e la pupilla è quindi più chiusa. Ma a volte ciò non avviene alla perfezione, come è il caso dei miopi. “Se la luce non basta a fare ridurre la pupilla, il miope non abbastanza corretto, ossia senza al giusta gradazione di occhiali, cercherà automaticamente di strizzare le palpebre per tentare di far entrare ancora meno luce”. E non a caso, aggiunge, la parola miope proviene da un termine greco che sta proprio a significare "colui che socchiude gli occhi".

Il cristallino invece “è responsabile della messa a fuoco sugli oggetti ravvicinati”. Un po’ come la funzione ‘macro’ sulle macchine fotografiche. Ma il parallelo ha qui bisogno di qualche distinguo. La fotocamera infatti riesce a cambiare la sua capacità di mettere a fuoco oggetti più o meno vicini, modificando la sua distanza rispetto al sensore, questo perché la bombatura della lente è fissa. Il cristallino ha invece una distanza immutabile rispetto agli altri elementi dell’occhio, ma è in grado di cambiare forma, diventando più convesso, più bombato, quando guardiamo un oggetto ravvicinato.

“Quando l'occhio è ben corretto – racconta –, cominciamo a utilizzare lo sforzo accomodativo, ossia questa capacità di modificare la forma del cristallino, attorno ai 5 metri. Più l'oggetto è vicino e più lo sforzo, la bombatura è intensa”.

Il sensore infine, come la retina, è la ‘tenda’ su cui si apre l’obiettivo, o la pupilla, lasciando entrare l’immagine che vogliamo catturare. “Riceve la luce e la trasforma in impulsi elettrici che verranno interpretati dal microprocessore per il primo e dal cervello per la seconda”.

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