MENDRISIO – Gli occhi sono lo specchio dell’anima: con loro parliamo, sorridiamo, piangiamo, sbuffiamo. Ma soprattutto con loro osserviamo il mondo che ci circonda e, in un certo senso, lo fotografiamo. Non a caso, sono molte le similitudini fra i nostri occhi e le macchine fotografiche, da quella tradizionale a quella integrata sui nostri cellulari.
E proprio su questa similitudine si concentra il primo di una serie di articoli sulla vista, nati in collaborazione con l’ottico Nicolas Augsburger Rossi, di Stile Ottica.
“Il principio della fotocamera – spiega – è stato copiato dall’occhio. E sono gli elementi in comune che ci permettono di capire meglio come funziona la nostra vista”.
Le analogie si concentrano su tre parti: il diaframma, che corrisponde alla nostra iride; la lente dell’obiettivo, ossia il nostro cristallino e il sensore, corrispettivo meccanico della retina.
Cominciamo dal primo, il diaframma che, come la nostra iride (la parte colorata dell’occhio, al cui centro c’è la pupilla) serve a regolare la quantità di luce che entra ma non solo. Un altro aspetto è quello della profondità di campo, cioè, se metto a fuoco un oggetto, quanto vedo netto, chiaramente, davanti e dietro ad esso, spiega Augsburger. “Se il diaframma è molto aperto (ossia se le pupille sono molto dilatate), vedrò l'oggetto inquadrato in modo chiaro, ma quello che si trova prima e dopo sarà molto sfocato. Al contrario, se il diaframma è poco aperto (pupille piccole), vedrò netto anche quello che si trova un po' avanti e un po' dietro all'oggetto”.
Luce, profondità di campo e ‘grandezza’ della nostra pupilla, sono quindi intimamente legate.
Ma per vedere bene abbiamo bisogno di tanta luce, e l’esempio più lampante è nella lettura. “In pratica per noi, leggere in un ambiente molto luminoso ci permette di sforzare meno la vista, questo perché mettere a fuoco a una distanza maggiore rispetto al testo stanca meno l'occhio”.
In un ambiente molto luminoso perciò, la luce da ‘far entrare’ per mettere a fuoco è minore e la pupilla è quindi più chiusa. Ma a volte ciò non avviene alla perfezione, come è il caso dei miopi. “Se la luce non basta a fare ridurre la pupilla, il miope non abbastanza corretto, ossia senza al giusta gradazione di occhiali, cercherà automaticamente di strizzare le palpebre per tentare di far entrare ancora meno luce”. E non a caso, aggiunge, la parola miope proviene da un termine greco che sta proprio a significare "colui che socchiude gli occhi".
Il cristallino invece “è responsabile della messa a fuoco sugli oggetti ravvicinati”. Un po’ come la funzione ‘macro’ sulle macchine fotografiche. Ma il parallelo ha qui bisogno di qualche distinguo. La fotocamera infatti riesce a cambiare la sua capacità di mettere a fuoco oggetti più o meno vicini, modificando la sua distanza rispetto al sensore, questo perché la bombatura della lente è fissa. Il cristallino ha invece una distanza immutabile rispetto agli altri elementi dell’occhio, ma è in grado di cambiare forma, diventando più convesso, più bombato, quando guardiamo un oggetto ravvicinato.
“Quando l'occhio è ben corretto – racconta –, cominciamo a utilizzare lo sforzo accomodativo, ossia questa capacità di modificare la forma del cristallino, attorno ai 5 metri. Più l'oggetto è vicino e più lo sforzo, la bombatura è intensa”.
Il sensore infine, come la retina, è la ‘tenda’ su cui si apre l’obiettivo, o la pupilla, lasciando entrare l’immagine che vogliamo catturare. “Riceve la luce e la trasforma in impulsi elettrici che verranno interpretati dal microprocessore per il primo e dal cervello per la seconda”.