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11.01.2015 - 13:360
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

“Ricordate la Curiera di Van de Sfroos? Ecco, spostarsi in bus in Nepal è analogamente pittoresco, solo molto peggio”

Samuele Poletti, giovane ticinese dottorando in antropologia all'Università di Edimburgo, racconta il suo impatto con uno dei luoghi più remoti della terra: la valle di Sinja, dove i suoi studi lo porteranno a vivere per i prossimi anni

Partire, lasciare tutto e trasferire la propria vita lontano. È il sogno ‘chiacchierato’ di molti: se ne parla, ci si prende una pausa fantastica e poi si torna alla realtà del tran tran quotidiano. Ma c’è anche chi lo fa, in questo caso per lavoro e in uno dei luoghi più remoti della Terra, come Samuele Poletti, giovane ticinese dottorando in antropologia all’Università di Edimburgo. I suoi studi lo porteranno a vivere i prossimi anni nella valle di Sinja, nel Nepal nord-occidentale. Noi lo abbiamo incontrato mentre era di ritorno dopo una prima ‘missione di avanscoperta’ e gli abbiamo chiesto di raccontarci del primo impatto con un mondo tanto diverso dal nostro da sembrare, ai nostri occhi occidentali, appartenente ad un’altra epoca. E lui, con una vena di ironia che non guasta mai, ha deciso di accettare la proposta, inviandoci anche alcune delle foto scattate durante il viaggio. (vedi gallery, più foto cliccando qui)

C’era una volta il West

di Samuele Poletti*

È stato dal tetto di un minibus che ho gettato per la prima volta lo sguardo sulle dolci curve della valle di Sinja – situata nel Nepal nord-occidentale e antico centro di quello che fu uno dei più importanti regni dell’Himalaya, la cui influenza ha contribuito massicciamente a plasmare la cultura nepalese contemporanea. Ciò che mi aveva spinto a recarmi in questi luoghi remoti e raramente visitati dai turisti stranieri, non è stato solo il puro amore per il viaggio al di là degli itinerari più battuti, bensì il desiderio di fare una prima visita esplorativa in vista di un ben più lungo soggiorno nell’ambito del mio dottorato di ricerca in antropologia sociale presso l’Università di Edimburgo. Così, come ogni antropologo che si rispetti, mi accingevo a fare la prima esperienza diretta di vita vissuta in quello che sarebbe diventato poi il “mio” terreno di campo.

Ma torniamo al minibus. Sinja dista una cinquantina di chilometri dall’aeroporto più vicino – quello di Jumla Bazar –, di solito percorsi con ritmi e modi tipicamente nepalesi nel tempo (record…!) di una decina di ore. La sistemazione sul tetto era stata una scelta obbligata, dettata dal sovraffollamento del veicolo, una situazione più che comune in questa parte del mondo, ma che offre per lo meno il vantaggio di approfittare di una panoramica sopraelevata a 360 gradi sul territorio circostante. Tuttavia, come spesso accade, c’è un prezzo da pagare per ogni cosa e in questo caso consisteva nel doversi accontentare del portapacchi di metallo come sistemazione su cui sedersi al posto dei sedili regolari del bussino: soluzione che fatico ad immaginarne una più scomoda e dolorosa. Infatti, ad ogni brusco sobbalzo dovuto alle condizioni del manto stradale sterrato e tutto a buche, l’assetto delle persone e delle merci che si trovano sul tetto viene ridefinito. Di conseguenza, queste si incastrano di volta in volta in maniera differente, un po’ come capita in una partita a Tetris, con conseguente trauma costante per le natiche del passeggero.

Il minibus, oltre a un carico sproporzionato di persone costantemente intente a sgomitare le une contro le altre con l’unico scopo di assicurarsi un’apertura sufficiente a consentirne l’adeguata respirazione, trasporta ogni tipo di merce: sacchi di riso, legname, bestiame di piccolo calibro, ... Sul tetto assieme a me c’è una decina di persone, tra cui un giovane docente con cui chiacchiero amabilmente durante le interminabili ore di tragitto che ci separano dalla nostra destinazione. Accanto a noi una capra sta docilmente distesa, ma richiede la mia costante attenzione per mantenere le sue bramosie alimentari a distanza di sicurezza dal mio sacco. Dopo qualche ora, la bramosia alimentare del quadrupede si rivolge verso il bagaglio di un altro passeggero, apparentemente indifferente alle copiose quantità di bava con cui l’animale velocemente ricopre lo zaino. Così, tra gente che vomita e sputacchia un po’ dappertutto dentro e fuori il veicolo (un ulteriore incentivo che mi ha spinto a scegliere di buon grado una sistemazione all’aperto, in quanto all’interno del bus la situazione dopo qualche ora si fa critica), lentamente e continuamente sballottati in ogni direzione, procediamo sulla strada tutta curve, avvolti in una nube di polvere di terra finissima tipica di un po’ tutto il Nepal nord-occidentale. Questo spettacolo dà all’autobus, quando da spettatori lo si osserva da lontano avvicinarsi da una località, la parvenza quasi surreale di una creatura mostruosa intenta a divorare tutto quanto gli si para dinnanzi. Avete presente la canzone “la curiera” di Davide Van de Sfroos? Ecco, spostarsi in bus in Nepal è un’esperienza analogamente pittoresca, solo molto peggio.

Ariete della modernità, l’autobus, ancor più dell’aereo, (in quanto ha costi più contenuti e alla portata di quasi tutte le tasche, per cui ne circolano un numero maggiore e trasporta più prodotti di consumo) è un simbolo di questo mondo che cambia, in particolar modo nelle zone rurali. E, come tutti i cambiamenti, i risvolti sono sia positivi sia negativi. Esso ha da un lato reso delle zone, che fino a non molti anni fa vivevano in uno stato di quasi totale isolamento, un po’ più soggette a un certo grado di mobilità, seppur ancora piuttosto limitato dalle oggettive difficoltà dettate da un ambiente montano aspro ed estremamente corrugato. Ciò ha consentito una maggiore apertura verso l’esterno, nei termini sia della possibilità per le persone di visitare altre realtà locali, sia di una più estesa circolazione di beni e merci, il che ha fatto sì che anche in queste aree remote siano arrivati prodotti volti ad agevolare un’esistenza che è ancor oggi tutt’altro che facile (come, ad esempio, una versione rudimentale di wc “alla turca” di plastica, che una volta interrato offre un leggero miglioramento nelle condizioni igienico-sanitarie dei villaggi di montagna).

Però, per accorgersi del lato oscuro della faccenda basta semplicemente fermarsi un momento ad osservare i beni esposti nelle piccole baracche di legno che fungono da “chioschi” nei vari villaggi, presi disperatamente d’assalto dal viaggiatore nella speranza vana di trovare il mezzo per interrompere la monotonia alimentare impostagli dall’ambiente in cui si trova a vivere. Gomme da masticare indiane che offrono un’esperienza sensoriale simile a ciccare un tendine bovino o un pezzo di copertone; biscotti di bassa qualità di produzione nepalese, che quando arrivano quassù sono il più delle volte quasi completamente ridotti in polvere a causa delle condizioni di trasporto; e polverine commestibili contenute in bizzarri involucri colorati che non ho mai trovato il coraggio necessario di assaggiare, nonostante gli incoraggiamenti della popolazione locale. Quello che colpisce è la quantità delle mercanzie superflue e in gran parte completamente inutili (se non per il fatto puramente simbolico di offrire un futile status symbol economicamente accessibile, relativo ad una percezione un po’ distorta di concetti quali “modernità” o “sviluppo”) che si possono acquistare in queste zone rurali ed impervie, a fronte di quei beni che l’osservatore occidentale percepisce come essenziali che invece mancano. Infatti, può essere spesso difficile trovare una barretta di cioccolato tipo Snickers – che sebbene non proprio essenziale ha per lo meno ha il pregio di offrire un’esperienza gustativa con un senso, oltre che una certa dose di calorie, benvenuta specialmente durante i trekking –, ma i prodotti sopra menzionati non mancano mai, e sembrano di gran lunga più apprezzati.

E il problema non finisce certo qui. Per molta della gente locale, che fino ad oggi ha esperito solo una vita di villaggio che da molto tempo si dipana grossomodo sempre uguale a se stessa, la preparazione concettuale riguardante il corretto smaltimento dei rifiuti inorganici è del tutto assente. Perciò, finita una lattina o una bottiglietta di pet, o ingerita una bustina dell’oltremodo inquietante polverina, il contenitore viene semplicemente gettato fuori dal finestrino dall’autobus in corsa, al pari di una buccia di arancia. Contrariamente all’arancia però, il risultato di un tal comportamento, abbondantemente diffuso in tutto il Paese, è ben visibile nella quantità di rifiuti che iniziano ad accumularsi ai bordi delle piste maggiormente battute dal traffico motorizzato rurale. Purtroppo, a causa della così bruscamente massiccia disponibilità di questo tipo di prodotti – accompagnata invece da un’educazione alla sensibilità ambientale notevolmente più lenta, che richiede i suoi tempi per essere assimilata – il rischio è che quando la sensibilità ecologica fosse sviluppata il danno avrà già raggiunto proporzioni irreversibili. Questo fatto lascia in qualche modo l’amaro in bocca all’osservatore consapevole, che non può fare a meno di incupirsi al pensiero di ciò che il futuro potrebbe riservare alle popolazioni che vivono questi luoghi di meravigliosa, seppur dura bellezza.

Per non chiudere però su una nota così scura, il cuore si riscalda quando il bussino giunge infine a destinazione, sebbene dopo un tempo che pare infinito e assolutamente ingiustificato, che portano a chiedersi se quella che si è appena vissuta non si stata una palese alterazione dello spazio-tempo. Al mio arrivo sono accolto da quella che sarà destinata a diventare in seguito la mia famiglia ospitante, con la quale sto ora trascorrendo i diciotto mesi di ricerca sul campo volti al reperimento del materiale empirico che costituirà il fondamento della mia tesi di dottorato, e che costituiscono un po’ l’iniziazione preprofessionale di ogni giovane antropologo. La loro genuina semplicità e la premura riservatami nel tentativo di attenuare il più possibile l’impatto dato dalle marcate differenze nelle condizioni di vita del contesto in cui mi trovo catapultato – di cui sono ben coscienti, sebbene un evidente storpiamento nella rappresentazione immaginativa di quello che è, o che credono essere, il “mio mondo” – sono commoventi, e hanno un sapore di altri tempi.

Questa sensazione diviene ancora più pregnante quando, al termine della mia prima visita di ricognizione sul campo, mi appresto a fare ritorno in Europa. Il giorno della mia partenza tutti gli abitanti del villaggio con i quali ho avuto modo di entrare maggiormente in contatto durante questa prima visita si raccolgono di fronte alla casa dove risiedo e, come vuole il costume locale quando uno del villaggio se ne va per un lungo periodo, mi viene donato un po’ di cibo per il viaggio, dopo di che percorriamo tutti insieme il chilometro che separa il villaggio dal punto in cui l’unico minibus della valle raccoglie una volta al giorno i propri passeggeri. Questo episodio mi ha accompagnato durante l’anno di preparazione “a tavolino” del mio progetto di ricerca, e ora che ci sono tornato non posso far altro che augurarmi che questa alterità continui ad esistere. Sì, perché l’effetto trasformativo che essa esercita sul soggetto che la esperisce contribuisce notevolmente al miglioramento della sua sensibilità umana, e possiede qualcosa di magico cui le parole difficilmente riescono a rendere giustizia.

*dottorando in antropologia sociale all'Università di Edimburgo (s.f.poletti@sms.ed.ac.uk)

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