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20.11.2015 - 00:210
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

I fischi di Istanbul sono più allarmanti dei guerriglieri dell'Isis. In Europa l'opinione pubblica non vuole la guerra. Dobbiamo essere pragmatici furbi e coraggiosi. E meno avidi

L'ANALISI - Se l'Isis dovesse riuscire a coalizzare i poveri delle società occidentali con quelli del resto del Mondo come sta provando a fare, siamo fottuti!

di Andrea Leoni

I fischi piovuti dagli spalti dello stadio di Istanbul durante il minuto di silenzio osservato per commemorare le vittime della strage di Parigi, sono la notizia più importante e più angosciante delle ultime ore.  Inutile minimizzare illudendosi che quella chiara presa di posizione dei tifosi turchi sia da iscrivere negli eccessi del tifo, magari di quello curvaiolo. Quanto accaduto in Turchia non ha nulla a che vedere con svastiche e croci celtiche esibite in mezza Europa dagli ultras del calcio e non solo. Lasciamo perdere – senza però sottovalutarli perché le curve pullulano di giovani e di cattivi maestri - i cori pro martirio e gli "Allahu Akbar" ritmati a squarciagola a quanto pare solo dalla parte più calda degli spalti. Concentriamoci soltanto fischi: quelli che la stragrande maggioranza dell'impianto di Istanbul ha fatto tuonare come un messaggio che solo i pavidi e gli stupidi possono ignorare senza volelo approfondire. 

C'è una parte del popolo della Turchia, rappresentato in quello stadio, che ha espresso un implicito sostegno, perché di questo si tratta, all'azione dello Stato Islamico. C'è chi lo avrà fatto perché sincero sostenitore del Califfato. Chi invece avrà voluto esprimere disappunto perché i silenzi si celebrano solo per alcuni morti e non per tutti. E chi, indignato per i bombardamenti francesi e occidentali di oggi e di ieri, avrà sentito prevalere questo sentimento alla solidarietà e alla pietà umana. Oppure ancora chi tutto sommato continua a pensare, e forse a intimamente a credere, che alla fine meglio loro che voi. E soprattutto meglio loro che i curdi. E ancora altri che avranno ripetuto nella loro testa e nel loro cuore: né con voi, né con loro. In quello stadio ci sarà stato anche chi avrà fischiato solo per provocazione, offesa, cinico sberleffo. E altro ancora. 

Ma questi fischi, e le loro svariate ispirazioni che abbiamo sommariamente riassunto, devono allarmare i paesi e i cittadini dell'Occidente più dei guerriglieri dell'Isis e dei loro progetti politici, economici e militari. L'estensione del consenso, implicito o esplicito che sia, è l'arma più pericolosa in mano agli jihadisti. E il fatto che questo fattore si sia manifestato con quel vigore e quella chiarezza in una delle culle della civiltà del Mondo, deve essere fonte di ansia ribollente e di seria inquietudine. In questa guerra non possiamo permetterci di perdere la Turchia: potenza nucleare e secondo esercito all'interno della NATO dopo gli Stati Uniti, così tanto per capirci. E non possiamo permetterci di perdere Istanbul, che fu Bisanzio e Costantinopoli e che conobbe all'inizio del 900 la fine dell'ultimo Califfato, del suo Califfo e Imperatore Ottomano, cedendo il passo Ataturk che fondò quella repubblica laica che ora sembra destinata alla decadenza per scelta della maggioranza del suo popolo che  ormai da anni designa legittimamente alla guida del Paese l'islamista Erdogan. 

Al netto delle evidenti e fondamentali responsabilità dell'Occidente nella nascita dell'Isis (basti pensare che gli attuali gerarchi sono gli ex quadri dell'esercito di Saddam), la Turchia ha avuto un ruolo che definire ambiguo è un eufemismo rispetto alla nascita e alla crescita del Califfato. Dai confini con la Siria sono transitati, e ritransitati, e ritransitati ancora, i pendolari dell'Isis che fanno spola dall'Europa ai territori dello Stato Islamico, o che lì si sono fermati a vivere o a combattere. Non parliamo delle armi e dei più svariati sostegni economici che Ankara ha garantito agli uomini di Al Baghdadi, fronteggiati da quei valorosi soldati curdi con le pezze al culo che combattono sul campo al posto nostro, nemici storici e giurati della Turchia. Erdogan è di certo fra quegli apprendisti stregoni, citati da Massimo Fini nella recente intervista rilasciata a Liberatv, a cui l'Isis è scappata di mano. E non sappiamo se e quanto ne sia dispiaciuto. Di certo una parte del suo popolo non lo è.  

Quando leggiamo, o osserviamo, o ascoltiamo, l'efficacissima propaganda dell'Isis (via web, via video, attraverso giornali e riviste patinate di ottima fattura)  tutta l'attenzione occidentale si focalizza sull'immagine simbolica della bandiera nera issata sulla cupola di San Pietro. E sulla minaccia di voler conquistare Roma come obbiettivo definito. Ma in quelle stesse rivendicazioni si ribadisce a ripetizione l'intenzione di far sventolare quel vessillo anche su Istanbul, vendicando e ripristinando il Califfato che fu, in quella sua ultima e prestigiosa capitale. 

Nel maggio di quest'anno la televisione Al Jazeera (che ha base in Qatar, uno dei Paesi che di certo ha finanziato l'Isis, in cui tra l'altro si disputeranno i Mondiali di calcio e intanto sono i padroni del Psg e il principale sponsor del Barcellona…) ha posto una domanda ai suoi telespettatori: "Sostieni le vittorie dello Stato islamico in Iraq e Siria? ".  In oltre 38'000 hanno risposto affermativamente, facendo schizzare i favorevoli al sondaggio all'80%. Naturalmente non c'è alcuna base scientifica in questa inchiesta e la maggioranza del pubblico di Al Jazeera, riferiscono gli esperti, è sunnita come gli uomini del Califfato. Ma detto questo non possiamo in coscienza sottovalutare questi segnali, come i fischi di Istanbul, o la mancanza di evidenti testimonianze contro gli attacchi di Parigi nelle banlieu della capitale francese, limitandoci a sperare che non sia poi così vero e a strillare "vergogna-vergogna-vergogna!". 

Dobbiamo occuparci di questo consenso. Dobbiamo analizzarlo, comprenderne le radici e gli sviluppi, limitarlo e prosciugarlo il più possibile. Ha ragione Dick Marty quando afferma che è prioritario occuparsi del mercato delle armi, degli affari con gli alleati che coltivano i nemici e che senza un'alleanza di rispetto e di interessi, non certo di tipo culturale, con una parte del Mondo musulmano questa guerra (anche se l'ex senatore non la chiama così, e invece io sì) è impossibile da vincere. E senza azioni e comportamenti coerenti ed adeguati in ambito militare, economico, geopolitico, di giustizia e di più di giustizia sociale, di diritti e di doveri, di sicurezza interna e dei confini, di intelligence, non avremo alcuna possibilità di arginare quel consenso popolare, e sottolineiamolo, popolare, che si sta espandendo a macchia d'olio in ogni Continente.

Dobbiamo essere più pragmatici, più furbi, più coraggiosi, meno naïf e meno avidi.  Se l'Isis dovesse riuscire a coalizzare i poveri delle società occidentali con quelli del resto del Mondo come sta provando a fare (guardarsi il video di rivendicazione degli attentati in Francia), fornendo loro una speranza e una prospettiva di vita dignitosa, siamo fottuti!

Bisogna accettare e riconoscere che una parte dell'opinione pubblica all'interno del mondo islamico sostiene il Califfato, che l'Isis è uno Stato e non una semplice organizzazione terroristica e che coloro che ne fanno parte e lo appoggiano sono a tutti gli effetti musulmani autentici, anche se non ci piacciono e non li condividiamo in nulla (del resto non si è mai visto un nemico che piace). In futuro potrebbe essere necessario negoziare con loro. E ancora ribadiamo: se non la pace, almeno la stabilità, la si costruisce con i nemici  che non ci piacciono e non con gli amici che piacciono. A questo proposito: oggi trattiamo con i Talebani che nel 2001 venivano dipinti come più o meno quelli dell'Isis di questi tempi. E finalmente ora c'è un accordo con l'Iran, quello fino a ieri protagonista dell'asse del male, e che oggi applica la sharia, impicca la gente per strada, lapida le donne, eccetera. Come l'Isis e i nostri partner Sauditi. Tanto per dire… 

Detto questo non dimentichiamo mai che quelli dell'Isis sono una parte del mondo musulmano. Parlare genericamente di Islam significa parlare del nulla con profonda ignoranza. È come se riferendoci alla seconda guerra mondiale definissimo nazista tutto il mondo occidentale e i suoi abitanti, compresi quelli che Hitler l'hanno combattuto, perché in Europa c'era il nazismo.

Noi abbiamo un asso nella manica che non dobbiamo sprecare e che dobbiamo utilizzare tatticamente nel modo giusto. Un asso fondato su un elemento incontrovertibile: la stragrande maggioranza delle vittime del Califfato sono di fede islamica, le altre sono causate dalle politiche e dalle bombe occidentali. 

Il fatto che nessun Paese d'Europa abbia seguito la Francia nei bombardamenti seguiti alla strage di Parigi,  dimostra che l'opinione pubblica occidentale non vuole ad andare in guerra. Nessuno è disponibile a raccogliere le spoglie di un parente o di un amico, per dover pagare il prezzo di un attentato come rappresaglia di un impegno diretto sul campo. È quel che è accaduto a Parigi. È quel che è accaduto all'aereo russo. È quel che è sempre accaduto: causa-effetto. Questa è la logica cinica di qualunque conflitto e lo gente lo avverte e lo capisce.  

Siamo realisti o senza palle? Quel che è certo è che dopo 15 anni di politiche di guerra sconclusionate, di crescita delle diseguaglianze e di terrorismo, non ci sono risultati positivi né da una parte né dall'altra e la situazione è solo peggiorata. È cresciuto l'odio e la tensione. Per quanto ci riguarda siamo passati da Al Qaeda all'Isis, dalla Turchia filo europea ai fischi di Istanbul, dai terroristi egiziani e sauditi dell'11 settembre ai terroristi europei che uccidono altri cittadini europei nel cuore dell'Europa, alle leggi speciali da approvare in quattro e quattr'otto che modificheranno la Costituzione (!) della Patria della liberté, dell'égalité e della fraternité, a un'inarrestabile crisi di coscienza e di valori del Continente. Magari sarebbe andata così o peggio anche con politiche diverse – e come sostiene Oriana Fallaci questa è solo la conseguenza della debolezza dell'Occidente che tratta da amici i nemici e non combatte l'invasione – ma comunque la si pensi è indubbio: bisogna cambiare strategia.  

Arriverà il momento in cui ogni musulmano sarà chiamato a rispondere definitivamente alla Domanda. Dovrà scegliere se stare stare contro o con il Califfo, magari mettendo da parte le aspre e violente divisioni tra sciiti e sunniti (e tutte le altre decine e decine di correnti) nel nome di un'unità islamica più urgente e prioritaria. Senza rinunciare a noi stessi. Senza cedere di mezzo centimetro su quel che è la nostra storia, le nostre tradizioni, la nostra cultura e il nostro diritto a vivere come ci pare e piace senza che un mullah abbia alcunché  da dire, non distruggiamo ogni possibilità che quell'unione non si realizzi e che una parte scelga di stare dalla parte in cui ci siamo anche noi.   

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