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18.10.2013 - 09:260
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

Barra, la malattia, il pubblico e la privacy in una società in cui "un ammalato è uno sconfitto"

Il presidente dell'Ordine dei medici Franco Denti riflette sulla dimensione pubblica della vicenda personale del ministro: "La solidarietà umana è l’atteggiamento più utile"

BELLINZONA - L'aggravarsi della malattia di Michele Barra ha costretto il ministro a congedarsi dai suoi impegni lavorativi ed istituzionali e, di conseguenza, a rendere pubblica la sua condizione. Una condizione che Barra ha tenuto per sé, continuando a lavorare, finché gli è stato possibile. 

Di solito la malattia, è un fattore che riguarda la sfera più intima della vita privata. Ma quando tocca a un personaggio pubblico, soprattutto se politico, la malattia diventa notizia e l'interessato deve in parte rinunciare alla propria privacy e confrontarsi con l'opinione pubblica. È su questa constatazione, su questo pensiero, che comincia il nostro dialogo con Franco Denti, presidente dell’Ordine dei medici.

“Questo è sbagliato. Anche se in qualche modo il tentativo di voler dare informazioni dei media può essere giustificato, se si trasforma in curiosità morbosa o se il malato decide di trincerarsi nella sua sfera privata, la ricerca della notizia va fermata. Non devono essere i media a dettare cosa e come sia giusto fare o dire, ma deve essere prima di tutto il rispetto per l’essere umano che è un malato e quindi è in difficoltà. Dobbiamo quindi distinguere l’informazione legittima dalla curiosità morbosa, quasi perversa, di un certo tipo di stampa che fortunatamente qui non è presente. Io credo che il malato, che sia cittadino pubblico o meno, debba avere il rispetto della sua persona. Anche perché in un momento di difficoltà ognuno di noi si augura che ci sia sempre qualcuno solidale con quello che stiamo passando e questa solidarietà passa anche dal rispetto della sfera privata. Se fossi ammalato la prima cosa di cui mi preoccuperei non è come dire della mia malattia al mondo intero, ma investirei tutto quello che posso nel cercare di guarire mettendomi nelle condizioni di potermi curare nel migliore dei modi. Non credo che il problema per l’uomo politico o pubblico ammalato sia chiedersi come deve comunicare con le persone. La malattia purtroppo è uguale per tutti, è sempre un momento di grossa difficoltà dell’essere umano. E credo che la cosa cui più aspiri è di poter fare tutto quanto gli permetta di superare questo momento. Il fatto di non sentirsi costretto a dover rendere pubblico più di quel tanto il suo stato di malattia, può aiutarlo a investire ulteriori risorse nel processo di cura. Che i media non siano così morbosamente curiosi è senz’altro una nota di merito, in altri paesi purtroppo non sarebbe così, fortunatamente questo costume da noi non c’è.”

Come viene vissuto e percepito dal cittadino il caso di un politico importante confrontato con la malattia e come se ne parla?
“Il primo sentimento che una notizia del genere fa nascere in tutti noi, che siamo prima di tutto cittadini, è quello di profondo rincrescimento, rammarico e solidarietà per una persona che comunque si è messa al servizio del proprio paese. Poi sicuramente, ed è una cosa estremamente pericolosa anche se umana, la curiosità. Curiosità che, come dicevo, dobbiamo subito in qualche modo bloccare mettendo davanti l’essere umano prima che il personaggio pubblico. Essere umano che merita il rispetto della sua privacy per se stesso e per la sua famiglia. Quello che osserviamo è che ci sono personaggi pubblici che apertamente parlano della propria malattia, questo comunque sempre in una fase dove la malattia è stata in qualche modo metabolizzata. Ci sono altri personaggi che invece chiedono il riserbo più assoluto e credo sia giusto venga rispettato sempre prima il desiderio del paziente. Perciò è lui che decide quale, che tipo e come dare l’informazione a media e popolazione. Questo secondo me è il rispetto e l’atteggiamento che bisognerebbe tenere. Al cittadino poi credo interessi sapere solo che il tal personaggio è malato e in questo momento non è più in grado di adempiere alla sua funzione. Il cittadino conosce così le ragioni per cui un suo governante non è in grado di svolgere il suo lavoro e de facto soddisfa la prima curiosità legittima, comprende e tutto quello che vuole sapere è questo. Capisco il desiderio di voler conoscere, ma questo non cambia assolutamente la vita di chi vuole sapere e non sa, ma soprattutto non cambia di un centesimo i problemi di chi è malato.”

Ma come viviamo in generale la malattia e come ci rapportiamo a essa?
“Credo che ognuno di noi di fronte alla malattia abbia un pensiero comune: rabbia. Un'umana arrabbiatura nel sentire di avere ancora molto da fare e non poterlo realizzare. Ricordo in tal senso la lettera d’addio ai propri fedeli che il vescovo Corecco scrisse quando era chiaro che il suo male l’avrebbe portato alla morte. Pur essendo un grande uomo di fede, inizialmente aveva vissuto la sua malattia proprio con quel sentimento di ingiustizia e incapacità di comprendere. In generale poi, tendiamo a volerlo dimenticare, ma dobbiamo ricordarci che la malattia è una parte purtroppo per noi insostituibile del nostro percorso terreno, e al malato dobbiamo solidarietà e rispetto. Spesso però tendiamo a delegare agli altri, ai medici, agli infermieri, alle medicine. Ma quello che fa il valore aggiunto di un percorso di guarigione è proprio sapere che non si è abbandonati. E invece, nella nostra società il paziente si sente spesso solo e inerme contro la malattia. Magari ci interessiamo sì a lui nel momento in cui si ammala, ma oggi come oggi viviamo anni e anni anche con delle malattie importanti e passato il momento di sensibilità umana poi si dimentica mentre il malato va avanti, è sempre più in difficoltà e spesso e volentieri poi si trova solo a combattere o a vivere con la sua malattia. Ecco, in una società come la nostra dove tutti comunicano per Facebook, mail piuttosto che chat, quello che si perde è proprio la conoscenza personale, il contatto fisico, la stretta di mano, il sorriso. Perché un ammalato per noi è uno sconfitto.”

Infine, a proposito di Corecco, forse è proprio uno dei pensieri espressi dal vescovo durante la sua malattia che meglio spiega il ruolo di quest’ultima nella nostra società.  In un discorso tenuto qualche mese prima della sua morte, diceva che pur essendo la malattia parte integrante della vita umana, la nostra società tende invece a estrapolarla, a isolarla. Si fa sì moltissimo per aiutare a vincere la malattia, ma allo stesso tempo la si censura.
“Giusto, ma la si censura proprio perché un ammalato è un uomo debole in una società edonistica dove siamo spinti tutti a essere sempre giovani, sempre belli, sempre in forma. I messaggi che passano oggi sono quasi dell’immortalità, del possiamo riparare tutto. Cercano di convincerci che siamo immortali quando sappiamo che purtroppo questo non è vero. Questo è sicuramente un aspetto molto importante perché la malattia dev’essere riconosciuta come parte integrante, purtroppo, del nostro percorso di vita. Però, detto questo, quando ci tocca da vicino ecco che dobbiamo essere liberi, uomini pubblici o meno, di poter vivere la malattia nella nostra sfera privata e intimistica. La cosa peggiore per un ammalato è sentirsi solo di fronte alla malattia. Ecco quello che io credo sia importante, per un uomo pubblico penso ancora di più, è sentire che la sua popolazione gli è vicina in questo momento difficile. Questo è sicuramente un valore aggiunto nel processo di cura, non il sapere cosa ha o cosa non ha. La solidarietà umana è l’atteggiamento più utile ed è quello che i malati cercano: a volte oltre a pastiglie e cure è proprio questo che fa la differenza. È capitato a tutti, se abbiamo un periodo negativo vediamo che improvvisamente la gente scompare. Perché “ho già i miei problemi e non ho voglia di parlare dei suoi”. È questo che succede oggi e che deve essere corretto. Recuperare quella capacità di ascolto e sostegno a chi ha difficoltà. A queste cose bisognerebbe portare un’attenzione particolare senza confonderle con la curiosità fine a se stessa. Infine, come ha cercato di fare anche il vescovo Corecco parlando più volte della sua esperienza, quello che la malattia di un personaggio pubblico può dare alla collettività è forse proprio la possibilità di poter avere l’occasione di parlare di questi concetti di solidarietà e vicinanza e combattere un po’ questa cultura del siamo eterni, giovani, belli e sani.”

 

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