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29.10.2016 - 09:410
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

"Requiem per il gusto, 
trionfo della parolaccia". Armando Dadò prende a schiaffi il trionfo della volgarità nella società contemporanea e i suoi attori: "Dagli scrittori ambiziosi, ai giornalisti, fino a politici e docenti"

Ecco l'editoriale del numero di ottobre della rivista Il Ceresio: "A un certo momento, la parolaccia diventa conformismo, si espande come un’epidemia, un contagio. Se nel passato la parolaccia era usata per lo più per scaricare la rabbia, adesso fa oramai parte del linguaggio corrente"

di Armando Dadò*

 

La nostra casa editrice riceve ogni settimana tre o quattro dattiloscritti da pubblicare. Alcuni testi vengono subito scartati giacché non sussistono le premesse minime per essere considerati, vuoi per l’assenza di contenuto, vuoi perché scritti in un modo che ha solo un vago rapporto di parentela con la lingua italiana. Poi occorre naturalmente valutare anche altri aspetti, in particolare bisogna esaminare le possibilità di riuscire, in un modo o nell’altro, a coprire i costi di pubblicazione e di promozione. 
 

Da qualche tempo, con un crescendo costante, arrivano in gran quantità proposte che contengono parolacce, espressioni grezze, rozze, termini scurrili, escrementizi e peggio. Recentemente, un racconto di duecento pagine, scritto da una giovane donna fresca di studi universitari, ne conteneva tre o quattro per pagina: da non credere.
 

Come mai questo trionfo della parolaccia, della volgarità, della spazzatura?
 

A suo tempo, chi ne faceva uso, era cosciente che la trasgressione avrebbe suscitato più attenzione della normalità, così come il vetro di una finestra con una macchia nera o rossa attira lo sguardo e provoca più curiosità rispetto a un vetro pulito. E, siccome molti ambiscono al successo a ogni costo, pur di farsi notare e di richiamare l’attenzione sulle loro «opere», usano qualsiasi mezzo. Non sono ovviamente solo gli scrittori gonfi di ambizione e bramosi di visibilità a comportarsi in questo modo. Lo sono attori, giornalisti, presentatori, uomini della radio, della televisione e della pubblicità, politici poco sorvegliati, docenti «aperti», allievi che copiano i «maestri» e altri che vogliono apparire e far sapere al mondo che ci sono pure loro.
 

A un certo momento, la parolaccia diventa conformismo, si espande come un’epidemia, un contagio.
 

Quando sono carenti di altri strumenti più nobili, ne fanno ampio uso anche le élite, gli uomini di potere, le classi aristocratiche dominate dal desiderio di apparire. La parolaccia impostasi con prepotenza, oramai schiava del conformismo, dilaga e si espande e trova nel cinema terreno fertile e così nei festival, i cui dirigenti si reggono sul successo apparente, sul clamore dei numeri e sugli scandali. Intanto, sempre più spesso salgono sul pulpito televisivo gli Sgarbi di turno e più ne dicono, più vengono chiamati a sproloquiare sul vuoto.
 

Di fronte a trasmissioni dominate da ardenti dispensatori di chiacchiere, i meno provveduti diventano prede inconsapevoli e finiscono con l’essere vittime anche loro di questo linguaggio.
 

Quando il vetro è tutto coperto di macchie, l’attenzione tende a scemare, a confluire nel gran mare della normalità e dell’ovvietà. 
 

Se nel passato la parolaccia era usata per lo più per scaricare la rabbia, adesso fa oramai parte del linguaggio corrente. Stando a quanto riferiscono le cronache recenti, alcuni ragazzi, oltre all’uso e all’abuso del turpiloquio, alzano ancora l’asticella della trasgressione e inseriscono nelle loro parlate la bestemmia. 
 

Oggi che bere e fumare non è più un tabù e che le parolacce oscene sembrano perdere la loro potenzialità, si impreca in altro modo, suscitando, per tanto ardire, risate e battimani dai compagni di cordata.
 

In questo contesto, chi è ancora in grado di resistere?
 

Scrive il Saggio: «Al di fuori dei potenti, dei partiti e dei letterati, al di fuori della folla indifferente, ignorante o corrotta, si trova quasi sempre in un popolo un certo numero di spiriti che – per la loro stessa condizione – sfuggono alla corruzione e all’orgoglio dei ricchi, ai vizi della moltitudine, e anche ai pregiudizi che sotto il nome di cultura, di arte e di modernità, traviano spesso, impoveriscono e inceppano lo spirito dei letterati. Vivono senza rumore e senza splendore, compiono senza ostentazione il loro dovere, sono semplici e retti. Non avendo né ricchezze né ambizioni smodate, si contentano di quello che hanno e sopportano senza mormorare le prove della vita. Hanno pietà di coloro che soffrono, amano la pace e si guardano dal male. Semplice è il loro occhio e buono il cuore; onde essi vedono giusto, perché vogliono il bene, invocano le sagge innovazioni, hanno fame e sete di giustizia e sono il sale della terra che impedisce la corruzione totale».

 

Non è forse così?
 

Il modo per essere intelligentemente presenti nel proprio tempo è quello di subire la moda nei suoi aspetti meno nobili e più gridati, oppure quello di guardare verso cime irraggiungibili che possono però diventare guida e orientamento?
 

Marcel Proust ha scritto Alla ricerca del tempo perduto con All’ombra delle fanciulle in fiore: tremila pagine che scorrono articolate sulle vette dell’eleganza e della raffinatezza. Chauteaubriand, con le Memorie d’oltre tomba, Sainte-Beuve, con Port-Royal, Madame de Staël con i suoi Dieci anni di esilio o la Yourcenar con le Memorie di Adriano: che viaggi affascinanti e felicemente contagiosi!
 

Per venire all’oggi, La civiltà della conversazione di Benedetta Craveri è lo straordinario affresco di una società che solo una grande scrittrice è in grado di rievocare con tanta efficacia e ricchezza di espressione. Se poi si vuole ricevere qualche grammo di saggezza, perché non rivolgersi all’immenso Montaigne? 
 

Goffredo Fofi su Lo Straniero ci ricorda che «i giovani che oggi scrivono si fanno una cultura leggendo i propri scritti». Non è una constatazione esaltante. Ma quanti sono i giovani scrittori capaci di muoversi sganciati dalla mediocrità imperante e volgere lo sguardo verso orizzonti più alti, in una società dominata dal frastuono e dalla confusione, nel mare magnum della letteratura e dello spettacolo?
 

Il Nobel Octavio Paz ha scritto che la corruzione del linguaggio è l’anticamera di una società che si sta corrompendo. Qualcuno dei nostri lettori è di diverso avviso?
 

Nel gran mare di chiacchiere, schiamazzi e bassezze che si sentono ogni giorno, non sarebbe auspicabile che si ambisse a proporre la raffinatezza, il buon gusto, le espressioni nobili ed elevate: qualcosa che innalzi l’animo in un mondo già così confuso, gravido e tormentato?


*Editore - Articolo pubblicato sul numero di ottobre della rivista Il Ceresio

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