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Cronaca
09.02.2017 - 09:210
Aggiornamento: 03.10.2018 - 16:25

Udine, un trentenne si uccide dopo aver invano cercato un lavoro e scrive il suo atto d'accusa contro il mondo: "Sono stufo di colloqui inutili, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere. Di no si muore...". E Maurizio Canetta gli dedica parole da brivid

Il direttore della RSI: "Ho detto anch'io molti no. Ognuno di questi no ha lasciato un piccolo seme di dubbio, questa lettera lo fa crescere con prepotenza. Ogni giorno decine di persone pronunciano dei no motivati dalla necessità di selezione, dalle condizioni dell'azienda, dalle difficoltà del mercato. Tutto nell'ordine delle cose, ma messi in fila con altre decine di no diventano un muro invalicabile"

Una lettera d’addio, un violento atto d’accusa contro la società, contro un mondo che è cambiato, dove non c’è più spazio per le aspirazioni, per una vita normale e felice, per un lavoro senza pretese di grandi guadagni o di fantastiche carriera. Per un semplice lavoro! Michele, un trentenne che abitava in un paesino in provincia di Udine, nel Nord Est italiano del boom economico, che ora si ritrova impoverito dalle spietate logiche dell’economia, si è tolto la vita il 31 gennaio, impiccandosi. E ha lasciato il suo atto d’accusa, la sua lettera d’addio.

“Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere... Di no come risposta non si vive, di no si muore. Ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse... Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di colloqui di lavoro inutili, stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, stufo di fare buon viso a pessima sorte e di essere messo da parte...”.

“Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti”. Poi ha chiesto perdono ai genitori: “Io lo so che questa cosa vi sembra una follia ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì”.

Il direttore della RSI, Maurizio Canetta, ha pubblicato questa notte su Facebook un bellissimo post su questo dramma esistenziale, che riportiamo integralmente. Parole da brivido, che ti entrano nell’anima, come quelle del trentenne che ha scelto la morte di fronte a quel muro di “no”. E oggi, per noi, è anche un giorno simbolico, che tocca il tema del lavoro: è il 9 febbraio.

di Maurizio Canetta *

“È tardi e la lettera del ragazzo di Udine che si è suicidato di fronte al muro di no tormenta e mi tormenta. Viene pubblicata nei giorni del Festival di Sanremo che ammalia milioni di persone. Ne ho guardato un po' anch'io. Non è una colpa. Mi viene in mente il ritornello di una canzone di Gaber (La presa del potere): "e l'Italia giocava alle carte e parlava di calcio nei bar".

L'Italia e Sanremo, ma potrebbe essere qualunque altro paese alle prese con il proprio evento ammaliante, non è una questione di nazione. Non possiamo farci carico delle tragedie del mondo, nemmeno di quello attorno a noi. Immagino che la sera dell'11 settembre 2001 qualcuno ha guardato un film divertente.
In questa vicenda di Udine c'è il coraggio dei genitori, che vogliono rendere pubblico un dolore che possiamo solo immaginare tanto è grande e profondo. Non è una questione privata, ci gridano.
In questa vicenda di Udine ci sono le parole del ragazzo che diventano pietre scagliate addosso a me, a te, a voi tutti, perché sono semplici, pure e dure come la realtà. "Di no non si può vivere, di no si muore." Un muro che gli si è parato davanti, giorno dopo giorno.

Ho detto molti no nella mia vita. Tutti motivati, tutti corretti, tutti appropriati. Ognuno di questi no ha lasciato un piccolo seme di dubbio, questa lettera lo fa crescere con prepotenza. Ogni giorno decine di persone pronunciano dei no motivati dalla necessità di selezione, dalle condizioni dell'azienda, dalle difficoltà del mercato. Tutto nell'ordine delle cose, ma messi in fila con altre decine di no diventano un muro invalicabile.

Questo ragazzo è come i nostri ragazzi, i nostri vicini, è dentro di noi. Dice che è stufo di invidiare, di non sapere che cosa si prova a vincere. Scrive con la semplicità della disperazione, sono parole che potrebbero stare in un film come "Io, Daniel Blake" di Ken Loach, che ti fa penetrare nella realtà delle cose in maniera chirurgica, potrebbero stare - esagero? - ne "Il diario di Anna Frank".

Siamo abituati a considerare l'invidia un sentimento abietto, legato al desiderio di emulazione, di potere, di superfluo. Stiamo trasformando l'aspirazione a un diritto in un sentimento abietto. Questo ragazzo non voleva un trionfo, chiedeva solo di godere una piccola porzione di vittoria, un torneo minore, che gli permettesse di avere una misera prospettiva di scavalcare il muro dei no. Non l'ha avuta e con la sua lettera, lui ci entra sotto la pelle.

Spero che resti a lungo sotto la mia pelle con lo stesso turbamento che provo adesso. Perché dovrò dire altri no, ne sono certo, ma dobbiamo tutti provare a togliere qualche pietra da quel muro invalicabile. Ne va del futuro dei nostri ragazzi, dei nostri vicini, che devono poter pensare che un giorno conosceranno il sapore di una vittoria”.

* direttore della RSI


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