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Quarto Potere
04.04.2017 - 09:470
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

Dario Campione: "Nello spazio unico della regione transfrontaliera la residenza di un primario non ha alcun peso. Qualcuno vorrebbe un 'muro' di mattoni, altri si accontentano del filo spinato o delle dogane chiuse di notte. Ma la sostanza è identica. I f

Il giornalista comasco: "I frontalieri lavorano in Ticino, i ticinesi fanno la spesa nei supermercati italiani e riempiono i ristoranti d’oltrefrontiera. Traggono cioè, tutti quanti i vantaggi della globalizzazione senza farsi troppe domande. Sebbene continuino a incontrare, sulla strada del consenso, chi fomenta odio e rancore"

Dario Campione, collega del Corriere di Como, mi ha inviato ieri alcune riflessioni dopo il mio articolo (leggi qui) in risposta a quello che ha pubblicato sul suo giornale domenica in merito al caso del primario frontaliere che lavora all’EOC (leggi qui). Le nostre opinioni sul caso divergono, ma le riflessioni di Campione contengono interessanti spunti di riflessione e di dibattito. Per questo gli ho chiesto il permesso di pubblicarle.

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di Dario Campione

Gentilissimo Marco Bazzi,

ho letto oggi un articolo sul suo portale in cui vengo chiamato in causa direttamente e mi permetto quindi di replicare in forma breve.
Una sola premessa: ribadisco in toto quanto ho scritto sul Corriere di Como domenica scorsa. E lo faccio alla luce delle sue obiezioni che non riescono a rispondere in modo coerente alla critica principale da me formulata, vale a dire l’uso strumentale che una certa politica e una certa informazione fanno della questione frontalieri.
Credo che lei abbia volutamente scavalcato il punto principale della mia analisi, vale a dire il fatto che viviamo uno spazio unico in cui la frontiera non è una barriera ma un punto di allaccio. Il “muro” non è retorica né ideologia. È un’idea fissa di alcuni (basti vedere alcune prime pagine, anche recenti, dei domenicali politici) e un’ipotesi di lavoro per altri. Qualcuno lo vorrebbe di mattoni, qualcun altro si accontenta del filo spinato o delle dogane chiuse di notte. Ma la sostanza è identica.
Le due realtà - quella italiana e quella ticinese - restano divise e non sono capaci di dialogare, soprattutto sul piano politico. Al contrario i cittadini normali vivono molto più serenamente questa situazione. I frontalieri lavorano in Ticino, i ticinesi fanno la spesa nei supermercati italiani e riempiono i ristoranti d’oltrefrontiera. Traggono cioè, tutti quanti i vantaggi della globalizzazione senza farsi troppe domande. Sebbene continuino a incontrare, sulla strada del consenso, chi fomenta odio e rancore.
Il vero problema è l’assenza di uno spazio pubblico transfrontaliero in cui si possano discutere le questioni nei loro termini reali e non a partire dalle fantasiose elucubrazioni di chi, oltre il proprio naso, distingue soltanto il volto del nemico. Come insegna Marc Augé, nel mondo della globalizzazione il problema principale è la mancanza di uno spazio pubblico, «quello in cui si forma l’opinione pubblica. Nella Grecia della polis c’era una coincidenza tra lo spazio materiale dell’agorà e il luogo di espressione di formazione dell’opinione pubblica». Questo ruolo, oggi, dovrebbe essere svolto dai media che invece, purtroppo, spesso vi rinunciano.

Nello spazio unico della regione transfrontaliera la residenza di un primario non ha alcun peso. Non è, io credo, né una notizia né tantomeno un argomento su cui polemizzare. Penso che siano invece un pesante fardello ideologico e culturale - su cui sarebbe bene ragionare insieme - tutte le richieste “primanostriste”. La visione della destra ticinese, così come quella di ogni altra destra nel mondo, è protezionistica, non inclusiva, xenofoba (e non assegno a questi aggettivi, che comunque non fanno parte del mio orizzonte ideale, un valore negativo in assoluto). Contro i cambiamenti che non si condividono - ad esempio, gli effetti della globalizzazione - è lecito e giusto lottare. Ma la coerenza impone di chiamare le cose con il loro nome.
I frontalieri sono un bersaglio facile. Anche perché inerme. Forse è ora di smetterla.

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