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Analisi
08.05.2017 - 13:490

Il fuocherello che brucia in casa Lega. Mai nel Movimento c'è stato un clima così teso fra le due anime. Nella lezione subita dal PLR il metodo per evitare l'incendio

L'ANALISI - La Lega sta affrontando la maturità del potere e si trova confrontata con il bivio che tanti prima di lei hanno dovuto affrontare: quello di ricercare il giusto e complicatissimo equilibrio fra coerenza e contraddizione. In ogni caso una scelta che porta a un risultato bastardo, il cui obbiettivo non può essere “il meglio” ma il “più accettabile possibile”: è l’arte della politica, no? In concreto: dimostrare di saper amministrare governi e apparati, senza smarrire del tutto la propria identità

di Andrea Leoni

Da quando osserviamo la politica cantonale, mai ci è capitato di registrare all’interno della Lega - cioè parlando con i dirigenti del Movimento - un clima così teso, pesante, con accenti addirittura bellicosi.

 

Non stiamo parlando di normali fibrillazioni, ancor più abituali se consideriamo la genetica del partito di maggioranza relativa che da sempre, a scadenze più o meno regolari, è attraversato da scossoni tellurici di una certa intensità.

 

Qui parliamo di qualcosa che assomiglia molto a uno di quei fuocherelli che se alimentato o sottovalutato può tramutarsi in men che non si dica in un incendio da resa dei conti. Con le potenzialità quindi di creare ingenti danni all’intera struttura. Ed è per questo motivo che merita di essere analizzato.

 

Nell’avventura professionale di cronista politico solo una volta mi è capitato di percepire una situazione simile: era la vigilia di quando esplose il Fiscogate. Il PLR cominciò a scoppiettare sotto i carboni e le scintille non erano più quelle del dibattito interno, o delle antipatie ordinarie, ma schegge incandescenti animate da sentimenti irrazionali e autodistruttivi. Si cominciò a vedere il fumo e poi il fuocherello. E il partito si trasformò in un amen nella terra in cui si sarebbe consumata un’autentica e clamorosa guerra per bande. Fu l’inizio della loro fine.

 

Ebbene le parole che si ascoltano oggi nell’universo leghista, l’animosità che corre tra questo e quello, gli epiteti con cui si apostrofano alcuni fra i componenti delle due ali - due correnti che come nel PLR ci sono da sempre anche in Lega - sono sovrapponibili a quelle che si pronunciavano agli albori della battaglia fratricida che ha quasi raso al suolo i liberali radicali. La corda non è mai stata così tesa e i “tiratori” più scalmanati - che come sempre non sono i leader - mai così determinanti a piantare i piedi e a mostrare i muscoli.

Le fratture sono diverse, alcune micro e alcune scomposte. Anche molto poco evidenti all’apparenza, ma decisamente rilevanti nell’architettura del leghismo. Ci sono di mezzo rapporti personali molto più che logori. Rapporti che se fatti sconfinare nella vita di un partito, come sta succedendo, sono sempre il peggiore dei virus possibili. Ormai non si contano più le forzature, gli sgambetti, le provocazioni, le battute a mezza bocca, all’interno del Movimento.

 

Non si può qui essere precisi spifferando le confidenze. Perché le confidenze devono restare tali, per una questione di lealtà e di fiducia e perché non è necessario svelarle nel dettaglio per raccontare le ragioni per le quali vengono fatte: inquadrare un contesto, che è la somma di tutti questi indizi sussurrarti in camera caritatis.

 

Ma perché la Lega è arrivata a questo punto? Se vogliamo restare sul piano strettamente politico vi sono due interpretazioni del leghismo, riassunte nelle correnti che si fronteggiano. Da una parte gli “istituzionali” che credono in una gestione del potere e della responsabilità che ne deriva, attraverso una politica conservatrice, pragmatica, centrista, che nell’operatività ordinaria ricalca grosso quella adottata negli scorsi decenni dai partiti storici. C’è poco da inventare, insomma, quando bisogna sporcarsi le mani con il Governo. Dall’altra c’è una Lega garibaldina, che si richiama allo spirito e in parte alle ricette del Fondatore, e che crede che le responsabilità governative non possano - meglio: non debbano - stravolgere i fondamentali delle origini su cui è stato edificato il Movimento. Non si può governare dimenticandosi della propria storia o facendo l’opposto di quanto scritto nei programmi.

 

La Lega sta affrontando la maturità del potere e si trova confrontata con il bivio che tanti prima di lei hanno dovuto affrontare: quello di ricercare il giusto e complicatissimo equilibrio fra coerenza e contraddizione. In ogni caso una scelta che porta a un risultato bastardo, il cui obbiettivo non può essere “il meglio” ma "il più accettabile possibile”: è l’arte della politica, no? In concreto: dimostrare di saper amministrare governi e apparati, senza smarrire del tutto la propria identità.

 

Finché c’è stato Giuliano Bignasca questo punto di equilibrio, talvolta anche con estrema fatica, è stato quasi sempre trovato (ma le responsabilità erano inferiori e anche i tempi erano altri). Ora sembra che questa capacità di sintesi sia andata in grande sofferenza. In mezzo, - tra la morte del Presidente a oggi - la Lega ha costruito delle vittori elettorali straordinarie. Incrementando e non diminuendo il proprio successo: questo dato va sempre tenuto ben presente nel ragionamento. E lo ha fatto anche attraverso un metodo di conduzione originale e che sembrava l’ennesimo coniglio estratto dal cilindro di via Monte Boglia.

 

Ma forse la progressiva uscita di scena di Attilio Bignasca sostituito nell’ombra dalla figlia Antonella (figura centrale del presente della Lega). Il peso e lo spazio politico ed elettorale conquistato da Boris Bignasca. La necessità di conseguenza di ridefinire il ruolo della famiglia nel Movimento. Le frizioni al tavolo dei Colonnelli e all’interno del Gruppo parlamentare. Il rapporto tra i due ministri (che si sono sempre rispettati ma mai amati, anche se si dice che negli ultimi tempi vada un po’ meglio…). Il semplice passare del tempo. Tutto questo sta cominciando a mostrare qualche limite nel modello di gestione della Lega. Si è passati da avere un capo a non averne nessuno. E chi comanda in Lega? Con chi devo parlare? Sono le domande più ricorrenti nell’ambiente degli addetti ai lavori.

 

A questo si somma anche una dinamica, tanto difficile da ammaestrare quanto ineludibile per nessun partito. È in atto un ricambio generazionale con la voglia, l'ambizione e talvolta l'arrivismo dei più giovani di scalare il partito e di ritagliarsi un posto al sole, a scapito inevitabilmente dei più navigati. E quando questo processo è in corso si crea sempre un certo trambusto: tra gelosie e invidie, cose così, cose normali.

Tutto quanto descritto fin qui significa che la Lega ha iniziato la sua parabola discendente? No, non per forza. Già solo la scaramanzia invita alla prudenza: la fine del Movimento è il pronostico più scommesso e più disatteso in Ticino negli ultimi vent’anni. Ma anche la sostanza di ciò che stiamo raccontando e la conoscenza del variegato mondo di via Monte Boglia, suggeriscono estrema cautela nel preannunciare funerali. Inoltre i leghisti mantengono fra le mani il più importante dei vantaggi: dipende ancora tutto da loro.

 

Il fuocherello, come detto, c’è, è serio, dura ormai da mesi, ma non è ancora un incendio. Sarebbe sufficiente, nell’immediato, che qualcuno provasse a giocare a fare il pompiere anziché il piromane. Soprattutto bisognerebbe tenere a mente la lezione che per qualche anno i liberali radicali hanno dimenticato demolendo cent’anni di dominio: le due ali di un partito possono combattersi, ma non devono mai provare a distruggersi.

 

La Lega, insomma, se desidera continuare ad avere questo grado di responsabilità e di potere (e non è obbligatorio, anche se una rinuncia sarebbe indubbiamente un passo indietro), ha bisogno di entrambe le sue componenti. Lo dicono i numeri elettorali, nudi e crudi: sono lì da vedere. Ma certo ha un gran bisogno anche di un chiarimento politico, proprio di tipo programmatico, sulle cose da fare e quelle da non fare, e probabilmente di un maggior equilibrio nella rappresentanza interna.

 

Il congresso mascherato attraverso il referendum sulla tassa sul sacco (e solo il voto di Lugano peserà), sarà un primo passaggio per pesare i rapporti di forza. Ma ne serviranno altri, più complessi e faticosi, anche sul piano umano, per trovare una quadra e spegnere il fuocherello.

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