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11.05.2017 - 10:050

Crisi, lavoro e assistenza: alcune parole che la politica non può pronunciare. Siamo un Cantone sempre più povero: dobbiamo dircelo e adeguarci alla nostra nuova realtà

L'ANALISI - Il Ticino continua a ragionare e a progettarsi come se fosse un ristorante stellato. Ma sempre più cittadini non hanno i soldi neanche per andare a mangiare la pizza. E questa dicotomia, questa illusione, che è innanzitutto di pensiero, è alla base dell’equivoco di fondo che genera smarrimento nella popolazione e alimenta la rabbia sociale. Dovremmo quindi innanzitutto cominciare a dirci la verità e capire come adeguare i nostri standard alla condizione reale che stiamo vivendo

di Andrea Leoni

Stiamo diventando poveri. Sempre più poveri. E per molti di noi è una condizione assolutamente inedita, sconosciuta: non ci siamo abituati, ci spaventa e non sappiamo da che verso prenderla. Vale a dire che, a parte gli attuali 70enni, non abbiamo la mentalità, la cultura, l’attitudine a questa sofferenza. Tutti elementi necessari per far ciò che non abbiamo mai fatto e che ora ci tocca: provare a campare attraverso l’arte di arrangiarsi.

 

Questo smarrimento non è una colpa (fintanto almeno che non diventa una scusa) ma una conseguenza dei tempi e del modo con cui siamo cresciuti. Il nostro Cantone è diventato ricco improvvisamente, senza particolari meriti. I soldi, tantissimi soldi, ci sono piovuti addosso dal cielo. Siamo passati, senza neanche rendercene conto, dall’aver le pezze al culo, ad avere il culo sulla Ferrari, intesa come società. Ma come ogni ricchezza effimera, quando l’incantesimo si interrompe, e dalla sorgente di palanche non sgorga più nulla o quasi, la caduta è rovinosa, tragica, deprimente: soprattutto per i più deboli. E così ci ritroviamo ad avere un'impalcatura statale, sociale ed economica che, semplicemente, è al di sopra delle nostre possibilità. Non ce la possiamo permettere.

 

Il Ticino continua a ragionare e a progettarsi come se fosse un ristorante stellato. Ma sempre più cittadini non hanno i soldi neanche per andare a mangiare la pizza. E questa dicotomia, questa illusione, che è innanzitutto di pensiero, è alla base dell’equivoco di fondo che genera smarrimento nella popolazione e alimenta la rabbia sociale. Dovremmo quindi cominciare a dirci la verità e capire come adeguare i nostri standard alla condizione reale che stiamo vivendo.

 

I dati diffusi dal DSS sull’assistenza, 900 persone in più in un anno, +12%, ovvero il 2,2% della popolazione residente (ed è ecco ancora una volta evidenziato il perché la disoccupazione resta stabile o non cresce…) sono la bomba sociale su cui siamo seduti. Può esplodere da un momento all’altro e può farlo in modi diversi: più o meno problematici. Il collega Romano Bianchi, facendo un lavoro come si deve, l’altro giorno su Teleticino ha spiegato come le principali associazioni che si occupano di accogliere i ticinesi che cadono nella morsa della povertà, registrino un vero e proprio boom negli ultimi 8-10 mesi: una crescita del 30-40%. E già nel 2015 il Ticino segnava a statistica il doppio della media Svizzera. Tutto torna, purtroppo.

 

Le scelte politiche interne, ma anche le contingenze internazionali, hanno contribuito in modo determinante a produrre questo disastro. Che tuttavia è stato possibile, in queste proporzioni, perché abbiamo capito troppo tardi che i cancelli del Bengodi stavano per chiudersi per sempre. Che la festa era finita. E va detto con schiettezza alle persone: la quarta rivoluzione industriale - con i suoi robot, i suoi software, la sua intelligenza artificiale - sarà il carico da 90 su questa crisi sistemica legata all’idea stessa di lavoro remunerato. Spariranno una moltitudine di posti e l’asticella per poter solo accedere allo stipendio si alzerà ulteriormente. Succederà prestissimo, sta già succedendo, in realtà. E presto o tardi (speriamo più presto che tardi), ma sono discorsi che volano molto più in alto del Canton Ticino, il tema di una qualche forma di reddito garantito sarà ineludibile.

 

Purtroppo non esistono ricette facili per venirne fuori. Il nostro Governo e il nostro Parlamento fanno quel che possono, a volte bene e a volte meno (e non sono ciechi, né menefreghisti, né irresponsabili: tutti, da destra a sinistra, lavorano secondo le loro idee e le loro possibilità con il fine del bene di questo paese e dei suoi cittadini). Sbagliano anche: sono uomini e donne come noi. Ma c’è poco da inventare senza i soldi in saccoccia e con esigenze così divergenti tra loro. I posti di lavoro, nel pubblico e nel privato, erano pressoché garantiti per tutti e ben pagati: c’era equilibrio tra portafoglio e potere d’acquisto, dedotte le spese fisse. Un equilibrio che è andato a farsi benedire, che ha spappolato il ceto medio e che per essere ricostruito avrebbe bisogno delle condizioni quadro di allora, impossibili nel mondo di oggi e di domani da riprodurre.

 

I nostri Consiglieri di Stato e i nostri deputati mettono pezze, svuotano il mare con il secchiello, costruiscono anche progetti interessanti che contengono il respiro lungo di uno sviluppo possibile, ma neppure se nell’Esecutivo e nel Legislativo cantonale sedessero 5 Cristi e 90 discepoli, riusciremmo senza soldi a modificare sostanzialmente dinamiche innescate troppo lontano da noi.

 

E anche nell’ipotesi di trovare buone soluzioni bisogna ficcarsi nella zucca che non torneremo più benestanti e protetti come lo siamo stati. Spiace dirlo, perché personalmente ci credo, ma non saranno risolutive neppure misure come i salari minimi o la disdetta dell’accordo di Libera circolazione (che possono avere una loro forza solo se combinati). Siamo ormai troppo oltre.

 

Lo Stato avrà sempre meno risorse per finanziare i servizi alla popolazione, di anno in anno più pesanti. E nell’economia, quella vera, produttiva, fatta dalle PMI, con imprenditori in trincea a far la guerra giorno dopo giorno, 15 ore al giorno, per sopravvivere e mantenere i posti di lavoro, non ne girano abbastanza. E la concorrenza interna e sull’estero è sempre più spietata e non si può scansarla o far finta che non esista.

 

A questo va aggiunto che il consumismo, motore della società liberista che si sta divorando come un cancro l’Occidente, ha sfasciato il tessuto comunitario promuovendo e premiando l’individualismo più estremo e suicida. La società del “fatti i cazzi tuoi e non sono cazzi miei” che ci rende tutti più soli e indifesi nell’affrontare la tempesta.

 

Allora c’è bisogno di dire qualche parola di verità. Parole che i politici non possono pronunciare perché verrebbero linciati sulla pubblica piazza. Dobbiamo riformare tutto il nostro modello sul benessere reale e non su quello che non esiste più. È compito dello Stato ma è compito anche dell’economia (l’esempio più lampante sono gli affitti). Dobbiamo essere più umili, concreti e fare meno voli pindarici. Trascurare le apparenze e concentrarci sulla sostanza: imparare a scegliere se il pranzo o la cena, quando non possiamo averle entrambe. Toccherà fare altre rinunce dolorose affinché la barca non affondi. La priorità deve essere quella di aiutare i più deboli in ogni modo, lasciare indietro meno gente possibile, ma dir loro, e penso ai giovani, che non possiamo più mantenere una percentuale di fankazzisti (che ci sono e smettiamola di negarlo) come quella che potevamo permetterci prima. Meno bambagia e meno carezze per questi ragazzi (non per tutti i ragazzi in assitenza): siamo poveri.

 

Anche nella scuola dobbiamo dire la verità: la maggior parte dei bambini che oggi cominciano le elementari faranno un lavoro che ancora non esiste e per i quali, parecchi di loro, non avranno le competenze sufficienti. Diciamoglielo prima che questa maggioranza diventi altra disoccupazione.

 

Cerchiamo di riannodare in qualche modo i fili della comunità: diamoci una mano, anche nelle piccole cose, anche nell’ascolto. Riscopriamo la solidarietà come individui, smettendola di pensare per indicibile egoismo, che questo compito deve essere assolto esclusivamente dallo Stato o dalle associazioni che operano sul territorio.

 

Ecco: poi continuiamo tutti a fare le battaglie politiche in cui crediamo. Ma prima diciamoci per bene le cose come stanno.

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