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08.06.2017 - 16:580
Aggiornamento: 13.07.2018 - 15:11

Un conto è essere vincenti, un altro essere vincitori. Il triste e fumoso addio di Paolo Tramezzani: l'ex mister del Lugano è ancora un praticante di talento della panchina

L'ANALISI - Non si possono portare i giocatori in fabbrica dopo una sconfitta, in una sorta di apologia del moralismo pallonaro, e poi piagnucolare per non aver fatto altro che svolgere le mansioni per cui si è pagati. Un atteggiamento in questo caso offensivo, verso chi le piaghe le ha davvero, e spesso sul sedere, perché ogni giorno se lo fa per quattro soldi

di Andrea Leoni

C’è una bella differenza tra andarsene da vincitori e andarsene da vincenti. Il vincitore è colui che si è guadagnato un obbiettivo, il vincente è quello che trasforma il successo in un tratto carismatico, da lasciare in eredità all’ambiente che saluta e da portare in dote alla prossima destinazione.

 

Il vincitore, nel momento dell’addio, si lagna, si toglie i sassolini dalla scarpa, sottolinea quel che si è guadagnato mettendolo in contrapposizione al contesto: il suo merito dunque non è tanto nel risultato (che spesso non coincide con un trofeo ma con un traguardo), quanto nell’averlo raggiunto attraversando un terreno ostile. Il vincente, al contrario, non lo fa mai. Non è ha necessità: perché ciò che ha fatto basta e avanza a se stesso e agli altri, senza bisogno di nuovi addendi e senza la necessità di sottolinearsi. Il risultato lo fa al posto suo. Il vincitore se ne va immusonito e lasciando strascichi, il vincente con il sorriso e in armonia.

 

Paolo Tramezzani lascia la panchina del Lugano da vincitore ma non da vincente. Il suo epilogo è stato triste come l’avvio. Due scivoloni da apprendista del mestiere con in mezzo un lavoro sul campo eccellente, griffato con il terzo posto in classifica e l'accesso diretto all'Europa League: cappello. Crediamo che le sue migliori qualità siano state il pragmatismo, la scaltrezza tattica e motivazionale, la capacità di tapparsi le orecchie concentrandosi solo sul suo mestiere (con una pignoleria quasi ossessiva) dopo un passaggio oggettivamente difficile per qualunque professionista: quando il tuo datore di lavoro minaccia di lasciarti a casa (e nel suo caso a reti unificate). Sono qualità importanti, non banali, per un allenatore alla prima esperienza come capo tecnico. In molti avrebbero perso il filo e sarebbero crollati.

 

Il limite più grande di questo allenatore è invece l’ego, sommato a un pizzico di vittimismo e di ipocrisia. Gli toccherà lavorarci per forza se vorrà progredire nella sua professione.

 

Alcune parole pronunciate ieri durante la conferenza stampa di addio, dimostrano infatti che Paolo Tramezzani è ancora un apprendista di talento della panchina. Lamentarsi, con toni da tragedia, per le ore passate al campo, tanto da fargli venire le “piaghe sotto i piedi”, certificano questo giudizio. In tutti i campi della vita, occorre avere sempre un po’ di sana diffidenza verso chi si lagna troppo...per il troppo lavoro. In particolare se chi si duole fa il mestiere dei suoi sogni, ed è profumatamente pagato per svolgerlo. Insomma, nel pacchetto dei compiti del mister quando sottoscrive un contratto, c’è tanto lavoro sul campo e in ufficio, il confronto critico con stampa e tifosi (che Tramezzani ha negato per molto tempo con il suo silenzio, non proprio il massimo della professionalità...), la gestione intelligente di situazioni difficili con lo spogliatoio e con la dirigenza. Se a uno non piace, può sempre cambiare lavoro.

 

E poi c'è una questione di coerenza minima: non si possono portare i giocatori in fabbrica dopo una sconfitta, in una sorta di apologia del moralismo pallonaro, e poi piagnucolare per non aver fatto altro che svolgere le mansioni per cui si è pagati. Un atteggiamento in questo caso offensivo, verso chi le piaghe le ha davvero, e spesso sul sedere, perché ogni giorno se lo fa e per quattro soldi.

 

Quanto alle bordate contro la stampa ticinese, bah, anche in questo caso sembra emergere più l’inesperienza verso il ruolo, condita da una sicumera ingiustificata, che questioni di sostanza. Un allenatore vincente si accapiglia con i giornalisti quando deve proteggere la squadra durante un momento delicato della stagione. Utilizza questo espediente come un’arma di distrazione di massa. Ma quando se ne va non ha bisogno di fare i capricci, se è un vincente. E poi, se proprio lo vuol fare, dice nomi e cognomi e spiega il perché, senza trincerarsi dietro l’ipocrisia “di una parte della stampa ma non dico chi”. Troppo facile, amico.

 

Da appassionati studiosi del gioco ormai da qualche anno, non vorremmo che poi alla fine dietro a tutto questo triste e fumoso spettacolo di addio non si celino le due solite e banalissime figure: l’ambizione di allenare uno squadra più forte e i schei. E allora gli accenti da martirio utilizzati dall’ormai ex mister bianconero diventerebbero soltanto virgole grottesche di un legittimo discorso di carriera.

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