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Analisi
16.06.2017 - 14:210

Non chiamiamolo Gigio, chiamiamolo Giuda Donnarumma. Ecco perché da tifoso sono incazzato. Ve lo dico con Pasolini e Nick Hornby: “Chiunque desideri capire il calcio deve rendersi conto che i giocatori sono semplicemente i nostri rappresentanti". Vaja con

La decisione di Donnarumma è stata uno schiaffo ai tifosi e uno sputo sulla maglia che nel marzo scorso, durante la sfida con la Juve, aveva platealmente baciato fissando la telecamera. Quel bacio era parso una promessa d’amore, magari non eterno, ma comunque il suggello di un patto di vita in comune. Almeno per un po’, per dare il tempo alla sua squadra di rialzare la testa dopo tanti anni di purgatorio

di Marco Bazzi

E adesso non chiamiamolo più Gigio. Chiamiamolo Giuda. Giuda Donnarumma. Per almeno due motivi: per quel bacio alla maglia del Milan, che risale a soli tre mesi fa, e per quel che diceva quando, a 16 anni, fu promosso titolare tra i pali: "Sono nato milanista, tifo Milan fin da piccolo. Sogno di vincere lo scudetto e magari alzare anche la Champions League, visto che da tifoso l'ho vista alzare a grandi campioni”.

È per questo che sono incazzato. E profondamente deluso. Non posso negarlo e non voglio nasconderlo. Sono incazzato e deluso da tifoso, perché il ragazzo, a 18 anni appena compiuti, ha deciso di voltare le spalle alla squadra che lo ha lanciato e che ha creduto in lui facendolo diventare un campione, il portiere che oggi i più grandi club d’Europa vorrebbero avere tra i pali. Anche in virtù della carriera che ha davanti: almeno 20 anni, trattandosi di un portiere. E pure per questo motivo il tradimento di Donnarumma è inaccettabile per chi ha il cuore rossonero.

Gianluigi Donnarumma è stato l’unico grande talento che il Milan ha prodotto negli ultimi anni. E la sua decisione di andarsene per denaro (rifiutando comunque un contratto da leccarsi i baffi, da 4,5 milioni di euro all’anno) ha scatenato l’ira funesta dei tifosi, la giusta e sacrosanta ira funesta di omerica memoria. Donnarumma è così diventato in poche ore da idolo di San Siro a icona del calciatore mercenario e traditore. Donnarumma è diventato l’anti-Totti per eccellenza.

La sua decisione è stata uno schiaffo ai tifosi e uno sputo sulla maglia che nel marzo scorso, durante la sfida con la Juve, aveva platealmente baciato fissando con sguardo estatico la telecamera. Quel bacio era parso una promessa d’amore, magari non eterno, ma comunque il suggello di un patto di vita in comune. Almeno per un po’, per dare il tempo alla sua squadra di rialzare la testa dopo tanti anni di purgatorio. Invece oggi ci sembra un bacio di Giuda.

I commentatori si sono divisi. C’è chi, come  Antonio Carioti sul Corriere della Sera ha criticato la scelta di Donnarumma: “Campioni come Franco Baresi e Gigi Buffon sono stati ricompensati dalla sorte per la scelta di rimanere dov’erano anche in Serie B. Non è detto che chi è più forte oggi lo rimanga in eterno. E la nuova proprietà rossonera ha dato chiari segnali di voler rilanciare le sorti del Diavolo con investimenti notevoli. Se è davvero tanto legato ai nostri colori come ha sempre detto, Gigio avrebbe potuto accettare questa difficile scommessa. La carriera di un portiere è lunga e lui ha tanto tempo davanti a sé per gestirla al meglio”.

E c’è chi, come Gianluca Mercuri, sempre sul Corriere, l’ha assolto: “La scelta di Donnarumma non è contestabile, per un motivo molto semplice: è la sua vita. Dobbiamo cominciare ad applicare il principio dell’autodeterminazione anche ai calciatori. Smettere di giudicarli bandiere o traditori. Hanno il diritto di andare a giocare dove vogliono, quando vogliono, per qualunque motivo sembri loro giusto”.

Vogliamo parlare, dunque, di libero arbitrio. Ma sul libero arbitrio si potrebbe discutere e riflettere, come fece Shopenhauer in ‘La libertà del volere umano’, riconducendolo in ogni caso nel campo dei valori individuali: “L’impresa di cancellare le magagne nel carattere di un uomo mediante discorsi moraleggianti e di voler rifare il suo carattere, la sua vera moralità, è perfettamente uguale all’impresa di trasformare il piombo in oro o di indurre una quercia a dare albicocche”.

Diciamo anche che Donnarumma non è un giocatore straniero arrivato, come tanti, alla corte di un club italiano. Non è Ibrahimovic e neppure Kaka, non è Lavezzi e neppure Higuaìn. È uno dei più grandi talenti espressi negli ultimi due anni dal calcio italiano. In più, dice di essere milanista fin da bambino, e anche questo avrebbe dovuto contare.

Ecco perché faccio fatica ad assolverlo. Perché ragiono da tifoso. Scriveva Pier Paolo Pasolini a proposito dell’essere tifosi: “Non ha importanza dove si è nati, quando come e dove si sono avuti i primi approcci con il calcio, per diventare un appassionato, un tifoso. Il tifo è una malattia giovanile che dura tutta la vita. Io abitavo a Bologna. Soffrivo allora per questa squadra del cuore, soffro atrocemente anche adesso, sempre”.

Ho visto le prime partite a San Siro da bambino. Erano i tempi in cui in porta c’erano Fabio Cudicini ed Enrico Albertosi, e in campo gente come Gianni Rivera, Pierino Prati e Luciano Chiarugi, che segnava tirando i calci d’angolo.

Ho visto tanti Milan… Quello che perse lo scudetto nel ’73 a Verona all’ultima giornata di campionato, con Trapattoni in panchina al posto dello squalificato Rocco - ricordo ancora la faccia affranta di Romeo Benetti che vidi dal finestrino del pullman al volante della sua auto poco dopo la partita -.
Ho visto il Milan stellare di Sacchi, con il trittico olandese, Rijkaard-Gullit-van Basten, quello di Hateley, di Massaro, di Virdis, quello di Kaka, di Shevchenko, di Inzaghi, di Ibrahimivic, ma anche quello di Calloni, ‘lo sciagurato Egidio’ come lo definì Gianni Brera. Ho vissuto l’inferno della B e il paradiso di Manchester e di Atene…

Ora a noi tifosi si chiede di comprendere le ragioni di Donnarumma. Ci si dice che questo è il calcio di oggi, tanto business e poco cuore, e nessuna fedeltà alla maglia. Ci si dice che Maldini, Baresi, Totti, Del Piero, Buffon, ma anche lo stesso Maradona, che pur essendo il più grande del mondo calcò per 9 anni consecutivi l’erba del San Paolo, sono fenomeni sempre più rari in un mondo del pallone dominato da mercenari, investitori stranieri, arabi, russi, cinesi, e super procuratori alla Mino Raiola…

Sarà così, ma ogni tifoso ha lo stemma della sua squadra cucito sul cuore. E il sentimento non cede alla ragione.

Mi appello a un grande romanziere che ha scritto molto di calcio, l’inglese Nick Hornby: “Chiunque desideri capire come si consuma il calcio deve rendersi conto prima di tutto di questo: i giocatori sono semplicemente i nostri rappresentanti, e certe volte, se guardi bene, riesci a vedere anche le barre metalliche su cui sono fissati, e le manopole alle estremità delle barre che ti permettono di muoverli. Io sono parte del club, come il club è parte di me”.

È quel sentimento di appartenenza, e di condivisione, e di interiorizzazione che ci fa dire ‘abbiamo vinto’ o ‘abbiamo perso’. Che ci fa usare il ‘noi’ al posto del ‘loro’. Quella fedeltà alla tribù che un altro scrittore inglese, John King, ha raccontato così: “Nessuna crepa nella corazza. Devi restare fermo e fedele, per sempre leale. Guardare il mondo da un fronte compatto”.

Vaja con Dios, Gigio. Evitaci solo l’umiliazione, di vederti in campo a settembre con una maglia zebrata…

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