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01.08.2017 - 14:240
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

1° Agosto, il 'sermone' di Sergio Morisoli: dalle domande di Trump alla rivoluzione valoriale, dall'Europa alla Svizzera "sonnambula, che cammina sui tetti di notte, ma al mattino non si ricorda di niente. E noi ticinesi facciamoci trovare pronti di front

Il deputato di AreaLiberale per Liberatv: "Siamo al primo d’agosto, e la Svizzera in tutto questo marasma di cambiamenti che ci fa? Al primo di agosto si parla sempre di patria, di confini, di identità, di valori; perciò possiamo tornare alle domande di Trump. Abbiamo abbastanza fiducia nei nostri valori per difenderli ad ogni costo? Abbiamo abbastanza rispetto per i nostri cittadini per difendere i nostri confini?"

di Sergio Morisoli *

Ringrazio sentitamente i responsabili di LiberaTV per offrirmi anche quest’anno l’opportunità di svolgere alcuni ragionamenti per il 1. Agosto sulla loro piazza virtuale; sta diventando una bella tradizione, una sorta di “speaker’s corner” dell’ Hyde Park di Londra. 

Mondo

Abbiamo abbastanza fiducia nei nostri valori per difenderli ad ogni costo? Abbiamo abbastanza rispetto per i nostri cittadini per difendere i nostri confini? Abbiamo il desiderio e il coraggio di preservare la nostra civilizzazione a dispetto di chi vuole sovvertirla e distruggerla? E che dire della strisciante burocrazia statale che prosciuga la vitalità e la ricchezza del popolo?

Care cittadine e cari cittadini queste domande non  le ha poste pubblicamente qualche filosofo conservatore o reazionario, ma il presidente degli Stati Uniti Donald Trump in occasione del discorso ufficiale tenuto lo scorso 6 luglio a Varsavia. Non le ha poste né a caso né in un luogo qualunque. I Presidenti degli USA non fanno mai e poi  mai nulla per caso. Il discorso è scelto, sviluppato e pronunciato con premeditazione impressionante; il luogo, la piazza Krasinski, simbolo della resistenza antinazista della Polonia; il miglior posto al mondo per tenerlo in questo momento storico. E non è nemmeno un caso che lo abbia tenuto in Polonia; il popolo polacco è l’ultimo popolo che abbia vissuto sulla propria  pelle il significato di libertà. Nessun altro popolo in occidente, nel dopo guerra, si è sacrificato come quello polacco con l’azione di Solidarnosc tra gli anni ’70 e ’80 per ottenere quello che oggi tutti noi sappiamo.

Trump ha scelto e ha parlato a un pubblico che ha ben presente le risposte alle sue domande. Come sempre la stragrande maggioranza dei media ha riportato e enfatizzato ciò che faceva comodo far passare:  Trump stuzzica Putin. Balle. Il discorso contiene passaggi profondissimi che forse difficilmente potranno essere superati in altri suoi interventi ufficiali. A noi però sono giunte a vagonate i soliti gossips su Melania e i suoi abiti, i suoi sguardi, le sue gambe e ben poco della struttura di ragionamento che sostiene le domande poste da Trump. E’ ovvio, sono domande che spiazzano; domande che noi occidentali evitiamo di porci da alcuni decenni. Ora uno come Trump, e solo uno come lui poteva farlo, le piazza ufficialmente e sulla tribuna mondiale come pilastri portanti di quello che lui chiama “make America great again”.

D’accordo, certamente l’impianto di pensiero, il linguaggio e la comunicazione non sono suoi, il cervello e la mano di Steve Bannon si intravvedono, ma non importa è Trump che ha il coraggio di chiederci senza fronzoli, all’americana, di riflettere su ciò che vogliamo essere e avere. Le domande sono troppo importanti e impegnative e come detto sono state messe in secondo e in terzo piano da quasi tutti, in primis dai politici che contano. E’ geniale averle formulate davanti al popolo polacco, carne e spirto massacrato dal nazismo prima e dal comunismo poi.

Trump o chi per esso, ha colto tutto del senso della storia: dove se non davanti a un popolo cattolico e orgogliosamente nazionalista poteva essere certo di essere compreso? Ha capito, lui che non ha la più pallida idea delle ideologie, che per rendere di nuovo grande l’America ha bisogno che l’occidente torni a essere ciò che è senza rinnegare il suo DNA. Ecco tutto questo infastidisce il pensiero debole, i relativisti e i nichilisti di ogni razza e specie.

Se il presidente dell’America si fa lui stesso e pone agli altri queste domande, stiamone certi che cercherà di produrre anche le risposte. Non è Trump ma è l’America ad essere così: cocciuta, testarda, libera, naif e creativa da rendere tutto possibile. Lo spazio l’hanno conquistato prima leggendo libri di fantascienza (sognando) e poi cercando di fare ciò che vi era scritto (provando): “dream and try”; per noi una pazzia per loro l’unico modo per essere realisti. Uno come lui viene a chiedere a noi europei, ormai in picchiata libera demografica, nonni del mondo, grassi, annoiati, delusi e impauriti se abbiamo ancora voglia di batterci per trasmettere alle prossime generazioni ciò che noi abbiamo ricevuto dalle precedenti. Trump sarà quel che sarà, e chissà quante cavolate farà, ma uno che ha chiesto quello che ha chiesto ai polacchi e indirettamente a tutti noi che stiamo da questa parte dell’atlantico, fa un grande piacere a noi. Non ci impone politiche economiche o militari, ci mette molto più in difficoltà: ci chiede chi vogliamo essere e di pensarci bene.

Pochi giorni prima, era il 3 luglio, un altro politico “strano”, il presidente francese Macron, tiene per i francesi ma indirettamente per gli europei un discorso fondamentale in pompa magna  a Versailles davanti a tutti i parlamentari riuniti. Sono le linee direttrici per il suo quinquennio. Anche qui testo e luogo non sono casuali, fanno parte di quel massimo, quasi metafisico, che la liturgia laica francese sa produrre senza rischiare di essere copiata da nessuno. Lui, un mix tra Napoleone e De Gaulle, non ha il linguaggio e lo stile diretto dell’americano, ma alla francese annuncia che la Francia deve diventare di nuovo grande e altre cosucce del tipo “ non saranno cinque anni di aggiustamenti e mezze misure” oppure “organizzeremo un referendum sulle riforme se non dovessero passare in parlamento”.

Sarà un caso che in questo luglio 2017, due neo presidenti quello Americano e quello Francese abbiano come obiettivo di far tornare grandi i loro Paesi? Può darsi, ma forse anche no. Entrambi hanno capito una cosa: devono fare memoria di cosa sono espressione i loro due Paesi e riportare questa origine alla luce del giorno. Sono i due presidenti che stanno impiegando come mai prima d’ora il termine “rivoluzione” per far capire la serietà della situazione in cui ci troviamo. Lo possono fare perché sanno che i loro popoli si ricordano cosa significano le rivoluzioni, non è un caso se nessun altro capo di Stato, a parte loro,  possa impiegare questa parola senza rendersi ridicolo.

Era luglio anche allora. Il 4 luglio 1776 l’indipendenza degli Stati Uniti e il 14 luglio 1789 la rivoluzione francese.  In quel decennio, sotto due bandiere diverse di qua e di là dell’atlantico veniva data una svolta alla storia, la libertà diventava lo scopo e la misura di tutto. Per la verità la declinazione filosofica, politica e operativa da parte di Filadelfia e di Parigi furono poi molto in fretta diverse, e tuttora sono diverse. Trump e Macron mettono al centro la libertà ma ben diverse sono le aspettative, i mezzi e i fini intesi nei ragionamenti.

Ma tant’è. L’America vuole essere di nuovo grande e si vuol staccare dalla globalizzazione, la Francia vuole essere di nuovo grande ma vuole pilotare la globalizzazione. Uno fa un passo indietro in politica estera per irrobustirsi, l’altro fa un passo in vanti per legittimarsi. Non è un caso che entrambi abbiano celebrato il 14 juillet a Nizza assieme, come non fu un caso che la statua della libertà fu donata dai francesi agli americani e che il Concorde fu un aereo per avvicinare in spazio e tempo Parigi con New York ( più che Londra).

E’ ovvio a tutti che la cartina del potere politico mondiale si sta ridisegnando. L’asse USA-Francia è ricostituito, e da un paio d’anni il commercio tra paesi a sud dell’equatore ha superato il commercio tra paesi al nord e al sud dello stesso, il dollaro americano non è più la maggior valuta di scambio in quell’area del mondo, e i miliardari capitalisti sono più numerosi nel sud del mondo che nel nord, nel 1950 l’80% del PIL mondiale era prodotto nei paesi occidentali, oggi la quota è scesa al 50%. Le alleanze ci possono ancora stare ma prima, i diversi stati, vogliono ridiventare forti per conto loro. Basta guardare. L’America l’ha detto e ha votato. La Francia l’ha detto e l’ha votato. L’Inghilterra l’ha detto e l’ha votato. La Russia l’ha detto e l’ha votato.

La Francia ha capito che il modello UE è fallimentare, ma soprattutto è stufa di fare da cameriera alla Merkel. L’Inghilterra che non è seconda a nessuno in quanto a orgoglio e prestigio, si è stufata e ha votato la Brexit. Non è un semplicistico anti UE, è un piano serio per tornare all’impero britannico. Si scrive Brexit ma si pronuncia Common Wealth (benessere comune), il concetto fu di Oliver Cromwell e ancora oggi sono 53 gli stati che ruotano attorno alla Corona britannica e sui quali l’ex impero ha ancora qualcosa da dire ma soprattutto da commerciare. L’Inghilterra esce dall’Europa perché il mondo è più grande e ha  più promesse dell’UE, il Common Wealth le permette di essere presente ovunque e con una rete e un’organizzazione intatta, essere già presente soprattutto dove conta per il futuro (Canada, Australia, India, Sud Africa per fare qualche nome) senza doversi smazzare i vari consigli d’Europa, la burocrazia di Bruxelles.

Non occorre dire molto per capire che Putin in forma “democratica” vuol far tornare la Russia quello che era sotto gli zar. La Germania rimarrà certamente ancora un po’ una potenza economica, ma la sua influenza politica nella nuova scacchiera tenderà verso il nulla. Nessuno osa e può dire “make the Germany great gain”, per ovvie ragioni. America, Francia, Inghilterra e Russia sanno benissimo cosa vogliono e chi vogliono essere. Sanno però che necessitano anche di doverlo ricordare al loro popolo, se vogliono realizzare quello che hanno in mente.

Di fronte a potenze che stanno cambiando le dinamiche globali le domande di Trump: abbiamo abbastanza fiducia nei nostri valori per difenderli ad ogni costo? Abbiamo abbastanza rispetto per i nostri cittadini per difendere i nostri confini? Abbiamo il desiderio e il coraggio di preservare la nostra civilizzazione a dispetto di chi vuole sovvertirla e distruggerla? E che dire della strisciante burocrazia statale che prosciuga la vitalità e la ricchezza del popolo?

Stanno già ricevendo risposte politiche in questi grandi Paesi. Per la verità non tutto è limpido. Pronunciare parole e concordare significati non è la cosa più semplice. Fiducia, valori, confini, cittadini, desiderio, coraggio, civilizzazione, stato, ricchezza che sono sostantivi cardini del discorso trumpiano; come i verbi difendere, preservare, sovvertire, distruggere non sono certamente intesi nello stesso modo da Trump, Macron, May e Putin, ma certamente diversamente dagli altri Paesi, in USA, in Francia, in Inghilterra e in Russia sono materia  prima  non solo del dibattito celebrativo politico ma sono semilavorati su cui la cultura inizia a lavorarci.

Galileo Galilei direbbe, eppur si muove ! Che si muova è un fatto, in che direzione non è evidente… Il rischio è grossissimo per tutte queste potenze e per noi: confondere mezzi e fini. Non sarebbe la prima volta che da ottime intenzioni nascano disastri.

L’identità non può essere solo un valore materiale così come richiamato dai grandi della terra e dai provinciali che li vogliono imitare. Fosse un valore da difendere, manipolare, trasformare, allora lo sappiamo già il valore muta a furia di usarlo e di lavorarci su. L’identità è un valore reale solo se colta nella sua espressione anche spirituale immutevole e eterna. Non basta, in altre parole, chiedere in piazza e al mondo chi e cosa vorrà essere l’America, la Francia, l’Inghilterra e la Russia senza chiedere in contemporanea chi vuole e cosa vuole essere l’uomo occidentale.

Non sarà mai la risposta collettiva, impossibile, alle domande di Trump che permetterà all’occidente di continuare ad essere grande; né nuovi sistemi, ma dovrà essere una risposta individuale di cambiamento spirituale. Se la rivoluzione lanciata da Trump e da Macron dovrà essere valoriale, allora non si può fare a meno di individuare l’origine di questi valori, e quindi non si potrà fare ameno di dover riscoprire l’origine religiosa di questi valori. Religiosa, non confessionale. Si potrà, anzi si deve tenere separati Stato e Chiesa, ma non si può dividere nel cervello, nel cuore e nella pancia dell’uomo politica e religione. Negare questa verità sarebbe il primo passo per minare sul nascere, come un atto terroristico farebbe, la rivoluzione valoriale occidentale.

Lo sviluppo dell’occidente e la sua supremazia valoriale, che si vorrebbe ricuperare, non risiede nei valori stessi. Essi discendono dal fatto che per quasi cinque millenni, grazie alla cultura giudaico-cristiana (vecchio e nuovo testamento), si è riusciti a far capire all’uomo che non può farcela da solo; egli ha  capito che ha bisogno di alzare lo sguardo al cielo (notturno e stellato) per non sentirsi abbandonato e per chiedere il senso di tutto; questa cultura gli ha insegnato a porre domande su sé stesso e tra lui e gli altri; domande che vengono prima di quelle di Trump e che hanno ricevuto nei secoli delle risposte definitive.

L’occidente è quello che è, perché ad un certo punto ha capito che dividere la realtà soltanto in: giusta e sbagliata, buona e cattiva, utile e inutile con criteri, misure e pesi umani non si andava da nessuna parte. Ci voleva una leva esterna per sollevare il mondo (come in un altro campo intuiva Archimede), il pensiero è riuscito a intuire che era necessaria un’altra categoria, quella di bene e di male. Una categoria non cartesiana e fuori dal mondo sebbene sperimentabile, una categoria che l’uomo ha iscritto con la legge naturale nel proprio cuore da sempre e per sempre.

A un certo punto del tempo, dello spazio e della storia Dio ha deciso di aiutarci, di rivelarsi in carne ed ossa attraverso Cristo per indicarci ciò che è bene ciò che è male. Ha scelto di liberarci dalle domande e dalle risposte limitate e legate al moto perpetuo della causa-effetto, ha tolto le catene millenarie alla nostra ragione permettendole la ricerca del senso.

Da quel momento bene e male, come da lui spiegato e dimostrato, non saranno più categorie relative, arbitrarie, mutevoli e indefinibili per l’uomo, ma assolute, cioè verità. Da quel momento sappiamo che: “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv. 8,32).

Da quel momento l’occidente cristiano ha pensato, agito, operato, esplorato, scoperto, costruito, distrutto per secoli e secoli in funzione di questa certezza. Tutti i valori che conosciamo, anche quelli che Trump e Macron vorrebbero rinverdire, hanno origine dal fatto che bene e male non sono più relativi, significa che la nostra civiltà si è buttata a capofitto nel raggiungere quella verità che ci fa liberi: perseguire il bene e evitare il male in tutti i campi e nelle circostanze in cui siamo immersi.

Ovviamente i limiti e l’imperfezione della nostra categoria umana ci hanno fatto sbagliare e cadere innumerevoli volte.  Abbiamo commesso a volte cose terribili; ma proprio perché abbiamo conosciuto la categoria di bene e di male e la differenza non relativa tra l’uno e l’altro, siamo in grado anche di riconoscere gli inciampi e i disastri provocati sulla strada della verità e della libertà. Come affermava S. Paolo l’uomo è un mistero perché vuole il bene ma commette il male, pur sapendo cosa è bene e cosa è male.  Questa è l’autocoscienza che l’occidente deve riprendersi, se vogliamo che le risposte date a Trump siano costruite sulla roccia e non sulla sabbia.
Ci potrà essere e ben venga una rivoluzione valoriale di stampo Liberale 4.0, come sembrano anticiparci  le 4 potenze della terra, ma bisognerà vigilare che non si trasformi in una dittatura dei valori laicisti: relativismo morale e nichilismo esistenziale; che sarebbe l’opposto della tensione alla verità.

Dopo  le dittature del XX secolo, quella del proletariato, quella della razza superiore; non abbiamo bisogno nel XXI secolo della dittatura dei valori non valori.  Se non si accetta che i valori discendono (originano) da verità  oggettive (non nostre) e non negoziabili, che vengono prima di qualsiasi legge elaborata dagli uomini; allora il rischio di ripetere i disastri ideologici passati sono enormi.

La rivoluzione valoriale può essere buona solo se vengono riconosciute due cose: l’uomo non è solo individuo ma è persona (unico e irripetibile), e la vita non è solo utile ma è sacra (intoccabile). Se i valori in cui l’occidente dovrebbe tornare a credere non discendono direttamente da questa doppia origine, allora ogni valore è mutevole a seconda di chi detiene il potere, e chi detiene tutti i mezzi, come diceva von Hayek, poi decide anche tutti i fini.

Se i valori discendono da una tendenza neopagana cioè relativista e nichilista, allora la rivoluzione invocata da Trump, Macron, May e Putin è meglio che non ci sia mai. Don Giussani, metteva in guardia dal “potere, che attraverso il richiamo ai valori, stabilisce, pretende dalla gente ubbidienza secondo il proprio disegno” (L’io, il potere e le opere, ed. Marietti).

Il coraggio di chi vuol fare la rivoluzione valoriale dovrebbe essere quello di ammettere prima ai propri popoli e poi al mondo, che perpetuare il modello occidentale ormai artefatto in cui “la verità diventa opinione e il bene diventa benessere” (Mgr. Giacomo Biffi già arcivescovo di Bologna ) è fallimentare e suicidale per l’occidente. 

Nessuno di loro lo può ammettere e nemmeno dire, ma se la rivoluzione non sarà cristiana rischia di essere solo un altro modo elegante e di grandeur per ridistribuire la sottomissione dopo che quella attuale non rende più. In questo inizio di secolo il bivio rivoluzionario stringente, o di qua o di là, non sarà tanto uno scontro ideologico con i dogmi del passato modernizzati, certamente no. Siamo al punto che ci si dovrà confrontare con chi è l’uomo e cosa è la sua vita.

Intravvediamo a sprazzi già oggi quale potrebbe essere lo scontro valoriale su temi che spaccano: aborto, eutanasia, suicidio assistito, pedofilia, gender artificiale, gravidanze a noleggio, accanimento terapeutico, fecondazione in vitro, uteri in affitto, commercio di organi e di esseri umani, manipolazione e selezione genetica, sperimentazione umana, intelligenza artificiale, macchine androidi, nucleare bellico, distruzione di massa, schiavitù psicologiche.

Non sono più temi marginali, anche perché le minoranze a cui appartengono li hanno fatti diventare temi capitali, mentre la politica e l’economia (assolutamente impreparate e impacciate) li maneggiano senza forse sapere che si tratta di nitroglicerina per l’umanità. Le domande di Trump e le relative risposte sono assolutamente dipendenti dai criteri, dai giudizi e dal ragionamento che saranno fatti su questi temi cardini. Se in ballo c’è la sopravvivenza della nostra civiltà occidentale non si potrà non incrociare culturalmente e politicamente le lame delle “dispute” tra la visione di chi vede l’uomo un semplice strumento e mezzo per il potere temporale e la sua vita un percorso limitato in balia del caos (disordine), e quella di chi  vede l’uomo il fine di tutte le cose e la sua vita un percorso  eterno al centro del cosmos (ordine).

Il bivio “rivoluzionario valoriale” occidentale non sarà economico, politico, ideologico, scientifico; sarà molto probabilmente umanistico, cioè la scelta tra:  un’accelerazione verso un umanesimo ateo o un rallentamento per ricuperare un umanesimo cristiano.

Sarà difficile ma non impossibile dialogare a questi livelli in cui fisica e metafisica non possono fare altro che mescolarsi, fede e ragione tornare a parlarsi. Per ora è positivo che le grandi potenze si siano accorte, almeno sul piano materialista e secolare, che così non va e che occorre trovare nuovo slancio per l’occidente, USA, Francia, Inghilterra e Russia si sono stufate di fare i vagoni di un treno senza locomotiva e che è fermo sui binari. Hanno rotto gli indugi e ognuna cerca di mettersi in moto. La rivoluzione valoriale occidentale sembra essere un percorso gradito e adatto per mettersi in moto, occorrerà vedere cosa faranno per evitare eventuali collisioni. 

L’occidente ha una grande fortuna e una grande memoria se vuole lanciarsi nella rivoluzione valoriale, sarebbe meglio dire riconquista valoriale. Tutti possono pescare a larghe manate nel patrimonio di saggezza cumulato dalla Chiesa in duemila anni. La Chiesa non è esperta di nulla, salvo di umanità (Enciclica Populorum progressio, Paolo VI 26 marzo 1967), proprio per questo esprimendo giudizi non sui sistemi o sui metodi di governo secolari, ma ricordando nel trascorrere nei secoli chi è l’uomo e cosa desidera; offre giudizi  atemporali, quindi sempre validi.

Paradossalmente, la Chiesa nel suo essere dimenticata dal mondo che conta, nel suo svuotarsi fisicamente di fedeli, in questa spogliazione francescana è forse più utile oggi che mai. Proprio oggi che  c’è un risveglio del bisogno di identità, mai come oggi si sente la necessità di ritracciare alcune rotte comuni, come il cristianesimo da sempre ha fatto, tra materialità e spiritualità.

Alle domande di Trump e ai piani dei poteri forti del mondo potrebbe far molto comodo ciò che la chiesa cattolica chiama “dottrina sociale” . Per chi ha fretta e vuole capire, basta che legga o sfogli il “Compendio della dottrina sociale della chiesa, libreria editrice vaticana 2005, pp. 520”. Un patrimonio di scienza e coscienza costruito negli ultimi 150 anni. E’ lì tutto da scoprire, e nemmeno farlo apposta sembra essere stato pensato per dare le risposte a Trump, Macron, May e Putin; oltre che, ovviamente, a noi stessi nella nostra quotidianità.

Forse il documento era solo li che aspettava da decenni che le domande di Trump fossero formulate e portate all’attenzione mondiale. Forse le risposte furono già  scritte prima delle domande, perché le domande che riguardano l’uomo erano, sono e saranno sempre le stesse dal cielo delle grotte di Lascaux (ca. 17'500 a. C.) al cielo di Star Wars ( ca. 3'000 d. C.). 

O la rivoluzione valoriale invocata dai grandi prenderà l’ispirazione cristiana, oppure assisteremo a un rimodellarsi del mondo occidentale non in una forma socialista X.0 e non in una forma liberale 4.0, ma neomarxista. In fondo Trump e Macron hanno una cultura mercantilista hard ma politicamente sono softmarxisti (è il trend del mondo degli affari di oggi, vedi Cina), nei loro discorsi non si staccano dal materialismo dialettico marxista (tesi, antitesi e sintesi) non si staccano dalla centralità dell’economia (socialismo scientifico), non si staccano dalla lotta tra buoni e cattivi (liberazione degli oppressi), elevano le loro idee a dogmi filosofico religiosi (superuomo), e hanno entrambi una visione profetica (il senso della vita è la storia), sono sufficientemente agnostici da essere equidistanti da ogni religiosità (oppio dei popoli), sono adeguatamente rivoluzionari per stravolgere il presente per un bene futuro (uso della violenza).

Non è un caso se nelle elezioni americane e francesi gli unici loro sostanziali avversari, e che hanno fatto molti voti, siano stati due marxisti ortodossi: Sanders e Mélenchon. Avevano capito perfettamente che il popolo, ormai inserito in un clima di post truth e di fake news, staccata la spina cristiana e tradito da un certo capitalismo, è pronto a seguire una rinnovata e moderna ideologia neomarxista.

L’antidoto a questa pericolosa e perfida deriva e il supporto alla vera rivoluzione valoriale liberale può essere solo la riscoperta dell’umanesimo integrale (Jacques Maritain, Umanesimo integrale, ed. Borla), cioè cristiano. E forse in questo senso ci vorrebbero più buoni cristiani, più buoni preti, più buoni vescovi e più buoni movimenti monastici e laici che si mescolano con la vita attiva reale, e meno  politici neoilluminati. Più uomini di buona volontà pronti a testimoniare con la loro vita quotidiana la bellezza del cristianesimo. Chesterton diceva che le eresie religiose non erano bugie, ma verità impazzite; vale anche per la politica, le rivoluzioni valoriali possono diventare in fretta verità impazzite cavalcate ad arte da chi non dovrebbe mai salire su un cavallo.

Svizzera

Siamo al primo d’agosto, e la Svizzera in tutto questo marasma di cambiamenti che ci fa? Al primo di agosto si parla sempre di patria, di confini, di identità, di valori; perciò possiamo tornare alle domande di Trump.

Abbiamo abbastanza fiducia nei nostri valori per difenderli ad ogni costo? Abbiamo abbastanza rispetto per i nostri cittadini per difendere i nostri confini? Abbiamo il desiderio e il coraggio di preservare la nostra civilizzazione a dispetto di chi vuole sovvertirla e distruggerla? E che dire della strisciante burocrazia statale che prosciuga la vitalità e la ricchezza del popolo?

Di fronte a quanto sta accadendo attorno a noi, non possiamo evitare le domande e sottovalutare i piani di Trump e Co.  o far finta che non ci riguardano. La Svizzera in questo momento è un po’ come una sonnambula, cammina sui tetti e apre il frigo di notte, ma al mattino non si ricorda di niente. Le potenze straniere si sono accorte, ma se ne guardano bene dal svegliarla in pieno trans; se potessero la farebbero sonnambulare anche di giorno.

Questo per dire che non abbiamo una politica estera adatta alle circostanze. Continuiamo a perseguire l’obiettivo UE senza voler ammettere o senza accorgerci che l’UE stessa si sta disfacendo. Americani, francesi, inglesi e russi lo stanno a dimostrare. Continuiamo ottusamente con lo strumento bilaterale CH-UE mentre sarebbe forse più interessante per noi iniziare dei negoziati bilaterali veri e singoli con USA, Francia, Inghilterra e Russia senza il tramite UE; del resto questi Paesi hanno detto e in parte lo stanno già facendo in questo modo con il resto del mondo non UE.

Potremmo essere un vagone privilegiato attaccato a queste locomotive e scendere nelle stazioni nelle quali ci trasportano con loro. Purtroppo invece sembra che la strategia sia rimasta quella dello spazio economico del 1992 o giù di lì.

Si sogna di poter negoziare con un colosso unico europeo che invece da tempo perde pezzi e si sta piegando su sé stesso. Gli inglesi l’hanno capita, il mondo è più grande dell’Europa e gli affari si fanno nel mondo. Nella migliore delle ipotesi ci troveremo con degli accordi che valgono la metà, chi può se ne sta andando dall’UE e chi resta tira il freno a mano. Nella peggiore delle ipotesi, con i bilaterali resteremo una sorta di Land privilegiato della Germania, visto che la nostra politica estera è germanocentrica; con una Germania sola e isolata a tenere in piedi un’abitazione semidisabitata (il fallimentare G20 di Amburgo è solo la punta dell’iceberg).

Per azzeccare una politica estera adatta ai tempi e vincente, dobbiamo però mettere a fuoco le nostre ambizioni e aspettative in politica interna. E se in politica estera siamo sonnambuli, in quella interna siamo in letargo come un orso (bernese), speculando che tanto, sia la primavera che il disgelo arriveranno anche senza il nostro impegno.

Che l’America e la Francia declamino di voler diventare di nuovo grandi, non è supponenza ma è la loro vocazione naturale; che l’Inghilterra faccia valere i privilegi e i possedimenti della monarchia su scala mondiale è solo logica di “common sense” e sano “conservatorismo british”; che la Russia torni a voler essere una potenza come lo fu prima dell’incubo sovietico durato 70 anni, fa solo parte del prosieguo naturale di quel paese continente.

La Svizzera che dalla sua fondazione nel 1291 ha sempre saputo leggere i segni dei tempi con anticipo e ha sempre giocato un ruolo determinante in tutte le circostanze che vedevano l’occidente in crisi, sembra invece aver dimenticato o addirittura vorrebbe negare il suo DNA.

Si nasconde, o sembrerebbe avere sempre altro di meglio da fare che pensare a come agganciarsi ai treni che le stanno passando sotto al naso.
Quest’anno ricorre il 600mo anno dalla nascita di san Nicolao della Flüe, basterebbe prendere in mano una cartina geopolitica del XV secolo per capire che quella rappresentazione degli stati e regni è più vicina alla realtà che si sta formando oggi attorno a noi, che la mappa usata e appesa alle pareti nelle scuole medie.

La storia non torna indietro, ma gli avvenimenti ci mettono in una posizione di riprendere a capire come la Svizzera fu grande nel tardo medioevo, e come in quei tempi gettammo le basi per una prosperità e un prestigio invidiato da tutti fino ad oggi. La vita e la storia  del santo patrono della Svizzera, Bruder  Klaus (San Nicolao della Flüe, Biografia storica dell’eremita svizzero in un Paese in subbuglio, Kathrin Benz Morisoli, ed. Ticino Management  2017; come altri autori e opere a tema), ci trasmettono il clima, l’ambiente, la cultura non solo dell’Europa di quei secoli, ma anche della proattività della Svizzera sia in politica interna che esterna. Era, checché ne dicano i detrattori del Medio Evo, un’epoca in cui contavamo molto, eravamo temuti e seppur piccoli eravamo grandi. Guarda caso fede e ragione; cristianesimo e affari non erano disgiunti. Erano assolutamente le due facce della stessa medaglia politica, quella medaglia che tra il XIII e il XVI secolo fece grandi le città stato toscane, lombarde, fiamminghe, provenzali e britanniche; la cultura e l’arte fiorirono, i maggiori pensatori dell’occidente erano dei maestri per i secoli successivi, gli affari crearono benessere per tutti.

Senza questo retroterra cristiano non si sarebbe prodotta la rivoluzione protestante e la contro riforma, non si sarebbe andati a scoprire l’America e non ci sarebbero stati né l’illuminismo né la rivoluzione industriale poi, non ci sarebbero state le sommità del pensiero di speranza di Ratzinger ma nemmeno quelle di disperazione di Nietszche.

La Svizzera di quei tempi, lo indicano le frequentazioni presso l’eremita del Ranft, era indipendente, libera, temuta, rispettata e nei secoli successivi, fino a l’altro ieri, il prestigio svizzero diventava sempre maggiore. Ora invece siamo, come direbbe Papa Francesco periferia del mondo (sebbene periferia ricca); grassi e viziati da rinnegare origini, storia, cultura, da appartarci da cariche e vocazioni di mediazioni politiche internazionali, e reazionari a qualsiasi nuova forma di alleanza mobile.

Errori che nel medio evo la Svizzera non avrebbe mai commesso. Stiamo a vedere. Certo è che da noi il lavoro per rispondere alle domande di Trump è lungi da essere iniziato, mentre quello per la rivoluzione valoriale riscoprendo la cristianità è addirittura tabù. Sembra quasi che alla Svizzera non interessi quasi più né occuparsi del corpo e men che meno dell’anima.

Eppure come ovunque, i cambiamenti avverranno perché sollecitati da mega trend irreversibili, saremo costretti se non a pensare proattivamente a reagire in qualche modo. I macro fenomeni ai quali non sfuggiremo dal 2020 al 2040: invecchiamento della popolazione; denatalità, immigrazione – emigrazione; trasformazione- mobilità -precarietà del lavoro; meticciato culturale e valoriale; nomadismo dei grossi contribuenti, solo per citarne alcuni sono forieri di sfide assolutamente nuove.

Tre in particolare: quella socio demografica: scontri intra generazionale (individualismo) e inter generazionale (classismo); quella socio-democratica: crisi di legittimità e di rappresentanza con lo sgretolamento dell’unità “trinitaria” tra contribuenti, elettori e beneficiari; e quella socio economico: l’incertezza dovuto al processo creativo-distruttivo del progresso tecnologico, la disequazione tra importazione di lavoratori e esportazione di posti di lavoro. La grossa questione che si pone a noi svizzeri, proprio perché come ci definirono già nel XVI secolo la nostra forza è che: “siamo retti dalla confusione di popoli e dalla provvidenza divina”, è quella se da questa definizione sapremo trarre il senso per il futuro; proprio quando la realtà e le sfide, ovviamente in contenuti e modi diversi, assomigliano molto a quella di quei tempi.

Forse nel progressismo laicista e liberale di Stato, sognato e prospettatoci in modo diverso da Trump e Macron, possiamo inserirci con tradizione e sano conservatorismo. Non sarebbe male, per capire chi siamo e cosa saremo, aprire un dibattito nazionale sulla frase del Faust di Goethe: “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”; sarebbe un bell’esercizio di politica interna. Se un paese oltre all’America e alla Francia potrebbe dire di voler essere di nuovo grande, senza arrossire, questo è la Svizzera: “make Switzerland great again”.

Ticino

E il Ticino?
La vera rivoluzione valoriale che nascerà dando le risposte alle domande di Trump, non può avvenire dall’alto ma dal basso. Cioè in primis dal cambiamento di ciò che è percepito nel cuore e nel cervello di ogni singola persona in termini di: bene e male, giusto e sbagliato; il cambiamento non potrà essere umano se frutto di nuove ingegnerie sociali o di costruttivismi burocratici promossi dallo Stato.

Per questa profonda ragione, noi piccoli ticinesi non possiamo certo determinare o opporci ai trend mondiali, non possiamo certo produrre noi la politica estera della Svizzera e forse non possiamo nemmeno modellare quella interna. Una cosa però la possiamo fare. Invece di speculare in modo superstizioso che la salvezza ci giungerà da chi sarà eletto in Consiglio Federale, faremmo bene a prepararci al meglio e farci trovare pronti di fronte alla bionda aurora delle rivoluzioni mondiali che si profilano all’orizzonte. La nostra piccola dimensione ci avvantaggia parecchio, nel nostro orto possiamo iniziare a seminare quelle due o tre cose che ci saranno molto utili domani. Quando i grandi della terra presenteranno le risposte alle domande di Trump e i piani per attuarle. Di che si tratta? Dobbiamo occuparci e concentrare le nostre energie e i nostri mezzi in  3 cose, in apparenza semplici. Ricuperare l’essenzialità e le fondamenta di ciò che favorisce la vita di un popolo e preserva la dignità dell’uomo: educazione, famiglia e azienda.

Educare alla crescita. Il progetto della “Scuola che verrà” è un tentativo, come ce ne potrebbero essere altri per definire nuovamente: il cosa, il come, il chi e il quando della scuola ticinese. E’ e sarà un insieme di misure puntuali che andranno a definire: organizzazione, ruoli, potere, materie, metodi pedagogici e risorse dell’impianto educativo statale ticinese. La domanda primaria, che non è il cosa, il come, il chi e il quando la scuola farà, ma sarebbe  il “perché educare”; sembra però rimanere nascosta e ai margini di questo immenso cantiere. Cercare di rispondere al “perché” la scuola va riformata, implica andare oltre alle questioni pragmatiche organizzative e contenutistiche. Significa che il “perché” va relazionato con la realtà che circonda e che influenza la scuola. Non nel presente, la conosciamo, ma nella prospettiva della prossima generazione. I macro fenomeni ai quali non sfuggiremo dal 2020 al 2040.

Proviamo a spingerci nell’individuare quale sarebbe la rotta che la scuola e il sistema educativo ticinese dovrebbe intraprendere per affrontarli. Se da un lato la documentazione del progetto “La scuola che verrà” mette direttamente in luce tutta una serie di nuovi interventi; dall’altra anche se velatamente nascosti, si riesce già a intravvedere i principi (difetti) culturali, che sarà poi la rotta  sulla quale è impostato tale progetto: monopolio statale della scuola e dell’educazione; egualitarismo: parità di arrivo anziché parità di partenza; relativismo: indifferenza dei percorsi e dei contenuti conta l’arrivo; costruttivismo: prevalenza di competenze sociali rispetto a quelle istruttive; Centralismo: è solo il Dipartimento  che recinta, regola, gestisce l’educazione. Questa impostazione va all’opposto della rotta   che ci auspicheremmo cioè: estendere il concetto educativo oltre la scuola; educare a competere; educare alla solidarietà; educare all’eccellenza e alla bellezza; educare all’identità.

Siamo certi che la differenza tra vincere e perdere la sfida non la faranno né le materie, né i programmi, né i metodi didattici della “Scuola che verrà” bensì l’impostazione valoriale (la rotta) sui quali il nuovo impianto poggerà. E quella della scuola che verrà ci sembra obsoleta, inadeguata e arrendevole. Siccome non saranno però né i nuovi o vecchi sistemi scolastici a toglierci dai problemi, ma la centralità della persona con il suo desiderio di imparare e rispettivamente di insegnare, ci vogliono due condizioni ultime e assolute per funzionare: chi insegna non sarà solo “docente” ma dovrà essere “maestro” e la relazione “allievo – maestro” va rimessa al centro.

La famiglia è un motore economico

In questi tempi cupi, molti, di coloro che sono sempre alla ricerca di soluzioni stataliste miracolose alla crisi, dimenticano che i veri due motori dell’economia e del nostro modello sociale sono la famiglia e l’impresa. Dimenticano quindi che la soluzione potrebbe essere più a portata di mano di quello che credono, se solo tornassero a valorizzare questi due nuclei essenziali della nostra civiltà.

L’economia occidentale piaccia o no, sta in piedi grazie all’anonimità di decine di milioni di famiglie e a decine di milioni di piccole medie imprese. L’economia che ci dà redditi, benessere e prosperità diffusa, anche in tempo di crisi, non è la risultante di politiche statali geniali o di sistemi sovranazionali talmente perfetti come spesso ci viene fatto credere.

Anche la miglior politica economica pensata dalle migliori menti e imposta da governi potentissimi non potrebbe fare assolutamente nulla se non ci fossero più, famiglie e imprese libere di svolgere il loro ruolo fondamentale: quello di tenere assieme il mondo grazie ad una fitta rete di scambi sociali ed economici pacifici spontanei 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Che l’impresa privata sia un motore economico è abbastanza accettato, ma che pure la famiglia lo sia altrettanto, invece ancora troppo pochi lo riconoscono.

Qui si intende la famiglia come nucleo portante ed insostituibile che forma e che crea, sviluppa, coregge e alimenta il nostro sistema economico. Intendiamoci subito, non mi interessa far risaltare la funzione di consumo di beni e servizi della famiglia, è ovvio che le famiglie sono delle attrici importanti nel ciclo domanda – offerta. No, intendo la famiglia per le sue peculiarità che la fa essere un cardine che preserva e sviluppa nel tempo quei valori e comportamenti di cui l’economia di libero mercato (il vivere civile) non può fare a meno.

La famiglia è quella palestra in cui si imparano e si rafforzano quei principi e quei comportamenti di cui ogni libero mercato sano e prospero non può fare a meno. Guarda caso è proprio l’annullamento di questi principi e di questi comportamenti che hanno mandato in tilt prima il mondo finanziario, poi l’economia reale e poi i governi di certi Stati.

Quali sono: la fiducia, la propensione al rischio calcolato, la speranza, il rispetto dell’altro, l’accettare le correzioni, il perseguire uno scopo senza marciare sugli altri e altro ancora. In famiglia, giorno dopo giorno, gratuitamente e con naturalezza si impara: a condividere le circostanze, a litigare costruttivamente, a fare qualche passo indietro, ad ammettere gli errori, a chiedere aiuto spontaneo, a stare assieme per uno scopo, a capire che esiste la gratuità e che serve moltissimo, a perdere la faccia ma a sentirsi voluti bene lo stesso, a rimanere uniti nella difficoltà, a gioire per la felicità dell’altro, a mantenere la parola data, a non fare all’altro ciò che non vorremmo fosse fatto a noi, a provare sulla pelle che le risorse sono limitate, a scambiarsi consigli, a trovare soluzioni, compromessi. Tutte esperienze ed allenamenti impagabili per lo Stato e utili ai mercati.

Un grande dell’economia e premio Nobel, Milton Friedman, non si affaticava mai di dire che le decisioni più importanti per l’umanità in campo economico, sono quelle prese liberamente quotidianamente da milioni di famiglie al tavolo di cucina.

Per questo alle nostre piccole latitudini mi pare strano e perverso che si continuino a promuovere false politiche pro famiglia ma che hanno l’effetto contrario: cioè lo sfaldamento della famiglia, la sua atomizzazione, la sua relativizzazione sociale e fino a trasformare i figli in una scelta mercantile come un’altra.

Vista la denatalità galoppante e l’invecchiamento irreversibile, una politica famigliare fatta di sgravi fiscali marcati e di promozione della natalità anziché di sussidi a pioggia e uffici ad hoc, sembrerebbe la soluzione più efficace ed efficiente per sostenere davvero uno dei due motori fondamentali dell’economia.

L’azienda è un motore sociale.

L’impresa, la ditta, l’azienda, il commercio, più in generale quelle attività umane che concorrono a produrre e a soddisfare il bisogno materiale di altri esseri umani devono essere rispiegate, messe sotto un’altra luce quanto alla loro vera missione, al loro grande valore e alla loro indispensabilità.
A monte, una certa cultura, diciamo  di sinistra ma non solo, vede nel lavoro  un male necessario e le aziende come il luogo in cui le persone sono costrette a trascorre il tempo in malo modo loro malgrado.
A valle si genera la cultura che la vera vita sia il tempo libero, le vacanze, il week end, via dal lavoro e fuori dalle aziende il più possibile.

Ma le aziende non sono quel mondo in cui i padroni e i dirigenti sono gli schiavisti e i collaboratori gli sfruttati, non son quel mondo perverso in cui sono necessarie regole stile  un salario minimo per tutti, meno lavoro per lavorare tutti e via dicendo.

Purtroppo ci siamo abituati, o ci siamo fatti convincere facilmente, a che gli abusi e le mascalzonerie di pochi siano la regola anziché le eccezioni grame. No, l’azienda con la famiglia sono ciò che abbiamo di più solido per produrre benessere e prosperità per tutti. Da decenni e decenni le aziende sono viste con sospetto e per questo da decenni viene invocato un Stato che oltrepassi le mura dell’azienda, tramite leggi, ingorghi giuridici e procedure burocratiche sterminate per mettere ordine e fine allo sfruttamento. Ma non è così. Nell’azienda c’è un’umanità enorme e un moralità eccelsa. E’ il luogo unico in cui una persona che si alza al mattino va a produrre qualcosa per un’altra persone che nemmeno conosce. Non solo, cerca di produrla e offrirla nel migliore dei modi per soddisfare l’altro (fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te). Nelle aziende c’è abbondanza di aiuto reciproco, di intesa, di resistenza, di sacrificio affinché l’azienda continui a vivere e mantenere e generare posti di lavoro.

La miglior socialità la forniscono direttamente le aziende creando opportunità di lavoro e indipendenza finanziaria per chi ci lavora dentro, non i budget assistenziali o di disoccupazione statali.

Se le imprese fossero viste come elementi essenziali per il bene della comunità e non come male necessario, molte leggi sarebbero fatte diversamente, il sistema educativo impostato diversamente e la politica le tratterebbe meglio. Oggi ci sono imprese, imprenditori, dirigenti e lavoratori eccezionali e la loro esistenza permette a noi tutti senza nemmeno accorgercene di vivere meglio.

Non solo, le aziende permettono a noi tutti di mettere a disposizione i nostri talenti, ci permettono di essere utili, ovvio purtroppo questa condizione non è data a tutti. Lo scandalo però non sono gli imprenditori, caso mai lo scandalo è che non ci sono imprese e lavoro a sufficienza o migliori. Lo scandalo è che chi vuol fare gli viene impedito di fare, o chi già fa viene ostacolato in tutti i modi.

L’azienda è un microcosmo da tutelare per la libertà non solo economica, ma anche per la libertà in generale. La politica, spesso senza accorgersene ma a volte anche con intenzionalità, produce decisioni e leggi che soffocano il nascere o distruggono l’esistenza di un’azienda. Dimentica che la ricchezza per distribuirla occorre prima produrla. Dimentica che anche nel nostro Cantone in moltissime piccole e medie imprese il padrone è il primo a tirare la cinghia, che molti operai si mettono d’accordo di fare dei sacrifici per salvare ditta e posti di lavoro, che molti hanno intaccato anche la propria sostanza privata per non chiudere, che padroni, dirigenti e lavoratori si parlano e si intendono prima e meglio che con l’intervento burocratico o sindacale di terzi. Per questi ed ancora altri motivi, è autolesionismo puro propagare l’idea che le aziende sono un male necessario e se possibile da mungere se allo Stato mancano i soldi.

Per finire.

Dobbiamo assolutamente tornare a lavorare sul verbo “educare” e sui due sostantivi “famiglia e azienda” che sono l’energia e  il nucleo della nostra civiltà occidentale, il nostro patrimonio genetico.
Che, in altri termini sono: identità, carità e lavoro. Se riusciamo a crescere culturalmente in questi campi, stiamone certi, saremo in grado di approfittare di qualsiasi rivoluzione valoriale fatta dagli altri, ma anche in caso avverso, di avere gli elementi e l’allenamento per minimizzarne i danni. In fondo la nostra rivoluzione locale è intuitiva, elementare, ma non banale; è un ritorno a ciò che conoscevamo bene.
Le domande di Trump in fondo non provocano la ricerca di  modelli di pensiero di progressismo sperimentale e non necessitano nemmeno di schemi sociali artificiali in cui applicarli, anzi, se colte per il verso giusto ci costringono a fare i conti con ciò che conosciamo già, appunto come diceva Goethe:
“Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo “.

* deputato e presidente di AreaLiberale 1. Agosto 2017


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