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16.08.2017 - 12:200

Il Monte Analogo... Diario 'simbolicamente autentico' di un'ascesa al Gridone. Ci sono montagne che sono diverse dalle altre. Non migliori. Forse nemmeno più belle. Di sicuro non le distingue l’altezza. La loro diversità non sta nelle difficoltà o nelle a

Un’ascesa, anche se dura solo poche ore, può diventare una metafora sulla quale declinare il nostro modo di esistere, e di rapportarci con ciò che, di umano, di naturale e di soprannaturale, ci circonda e definisce ‘il nostro mondo’. Metafora di un luogo sacro che esiste dentro di noi, dentro ogni uomo che sappia, o voglia, raggiungerlo e scoprirlo

di Marco Bazzi

Non esiste un solo modo di salire in cima a una montagna. Ce ne sono tanti. Raggiungere una vetta, qualsiasi siano la sua quota, la distanza da percorrere, il dislivello da superare, la fatica che occorre per farlo, è comunque una sfida con se stessi.

Piccola o grande che sia, è comunque una sfida. Quello che non dovrebbe mai mancare, però, quando ci si mette in cammino, oltre alla prudenza, è la consapevolezza di ciò che si sta facendo. Il senso del gesto, insomma. Con il rispetto che si deve alle cose importanti della vita.

“Al momento della partenza non dimenticare gli auspici uditi. Voltati e contempla il luogo della fenice sulla Montagna dell’Anima”.
È una frase del premio Nobel cinese Gao Xingjan, autore di un bellissimo romanzo che si intitola ‘La Montagna dell’Anima’.

Così, un’ascesa, anche se dura solo poche ore, può diventare una metafora sulla quale declinare il nostro modo di essere, e di esistere, e di rapportarci con ciò che, di umano, di naturale e di soprannaturale, ci circonda e definisce ‘il nostro mondo’. Metafora di un luogo sacro che esiste dentro di noi, dentro ogni uomo che sappia, o voglia, raggiungerlo e scoprirlo. È una piccola lezione di vita che la montagna ci aiuta a impartire a noi stessi.

A chi si mette in cammino con il cronometro in mano, a chi usa i sentieri come terreno di gara, preferisco dunque di gran lunga l’approccio di chi lo fa per avvicinarsi al cielo, meglio se lentamente, coltivando una sorta di parallela ascesa interiore, dove il sudore e la fatica diventano elementi o spunti di meditazione.

Se presti attenzione, ti accorgi che ad ogni passo cambiano i colori della luce, la vegetazione del bosco, la struttura e la pendenza del sentiero, il panorama che si intravede tra i rami. Incontri piccole forme di vita, senti rumori di animali, il canto degli uccelli o il frinire dei grilli… O, semplicemente, ascolti il silenzio. E ogni tanto, quando il bosco si fa più rado, guardi in basso e misuri la distanza che hai percorso. E guardi in alto, cercando la tua vetta.

Ci sono montagne che sono diverse dalle altre. Non migliori. Forse nemmeno più belle. Di sicuro non le distingue l’altezza. La loro diversità non sta nella difficoltà del percorso o nelle asperità da superare. La loro diversità sta in noi, che le abbiamo elette ‘Montagne dell’Anima’.

Il poeta Dino Campana, seguendo le orme di San Francesco sull’appennino toscano, in quello che oggi è il Parco nazionale della Falterona, guardando la montagna nei pressi del santuario della Verna, scrisse: “Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura, prima, che le aveva coperte di verdi selve, purificate, poi, da uno spirito d’amore infinito”.

Qualche giorno fa, il Gridone è stato per me la Montagna dell’Anima. Una volta la neve, un’altra un violento temporale, mi avevano finora impedito di raggiungere la vetta, dove una grande croce - sulla quale sventolano le ‘lung-ta’, le multicolori bandierine di preghiera tibetane - si staglia su un immenso anello di catene montuose e sul lago Maggiore. Guardi giù e vedi le creste rocciose che salgono verso la vetta, quasi volessero abbracciarla, o innalzarla, come mani tese verso il cielo. Vedi falesie che precipitano a picco nel vuoto, e sotto il verde dei boschi interrotto soltanto da qualche remota traccia di sentiero.

Del Gridone sentivo parlare fin da bambino come di un luogo impervio, minaccioso, con la sua cresta di roccia frastagliata che disegna nel cielo figure simili al dorso di un preistorico stegosauro. Dal giardino di casa mia la si vede bene, quella cresta, alta, lontana, quasi irraggiungibile. Mi dicevano che lassù si scatenano i temporali più violenti, quelli che illuminano la notte di lampi, e quando accade, le valli sottostanti amplificano il rombo dei tuoni fino a far tremare la montagna. Come è successo una sera della scorsa settimana.

Salire su quella vetta è stata, per me che non sono alpinista, un’impresa impegnativa. Andarci da solo potrà essere stato al limite dell’imprudenza, ma ogni tanto dobbiamo lasciarci alle spalle il timore e la riverenza verso una vita priva di rischi. Alla fine, è stato un cammino, un percorso, che pur essendo durato poche ore, ha dato vita a un’intensa esperienza interiore. E a questa breve storia che ho deciso di scrivere.

La Montagna dell’Anima, per concludere, è quella che il filosofo e scrittore francese René Daumal chiamò ‘il Monte Analogo’, titolo della sua opera più celebre, “romanzo di avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche”.

“Nella tradizione fiabesca – scriveva negli anni Quaranta - la Montagna è il legame fra la Terra e il Cielo. La sua cima unica tocca il mondo dell’eternità e la sua base si ramifica in molteplici contrafforti nel mondo dei mortali. È la via per la quale l’uomo può elevarsi alla divinità e la divinità rivelarsi all’uomo”.

E a chi volesse tentare di raggiungere il proprio Monte Analogo, consigliava: “Tieni l’occhio fisso sulla via della cima, ma non dimenticare di guardare ai tuoi piedi. L’ultimo passo dipende dal primo. Non credere d’essere arrivato solo perché scorgi la cima. Sorveglia i tuoi piedi, assicura il tuo prossimo passo, ma che questo non ti distragga dal fine più alto. Il primo passo dipende dall’ultimo”.


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