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Cronaca
05.12.2017 - 16:240
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

Stefano Piazza: "I miei dubbi sul Piano d’azione nazionale contro la radicalizzazione islamica. Che non affronta il tema dei finanziamenti. Fondamentali... perché i pesci nuotano solo c’è acqua. Il tempo è scaduto anche per noi"

Stefano Piazza: "È vero che “la partecipazione e la codecisione rafforzano il senso di appartenenza alla società e mitigano o eliminano le paure, le incertezze e le tendenze discriminatorie”. A patto che non si nasconda ancora una volta la polvere sotto il tappeto sperando che arrivino tempi migliori. Il tempo è scaduto anche per la Svizzera"

di Stefano Piazza *

C’era molta attesa per la presentazione del piano “Piano d’azione nazionale per prevenire e combattere la radicalizzazione e l’estremismo violento”. Un documento di 44 pagine che arriva dopo che i Servizi Segreti della Confederazione (SIC) hanno reso noti alcuni dati che non certo rassicuranti.

Secondo il rapporto del SIC almeno 100 persone sono monitorate sul territorio nazionale perché ritenute pericolose, e sono 93 coloro che sono partiti dalla Svizzera con finalità terroristiche (erano 89 ad agosto 2017). Di questi 93 casi, quelli con il passaporto rossocrociato sono 33.

I quattro casi venuti alla luce nell’ultima pubblicazione si riferiscono a soggetti dei quali non si avevano notizie da anni e che sono stati individuati recentemente nei vari teatri di guerra.

Nel dettaglio si legge che 78 persone si sono recate in Siria e in Iraq, 15 in Somalia, Afghanistan, Pakistan e Yemen. I “soldati di Allah” partiti dalla Svizzera che hanno incontrato la morte sono 27, dei quali 21 casi sono confermati. Alcuni combattono ancora la loro “guerra santa” sparsi nei paesi dove permangono i conflitti, altri hanno scelto la via del ritorno in Svizzera con evidenti rischi per la sicurezza nazionale.

I casi di “foreign fighters” di ritorno confermati sono 14, mentre su 3 di loro sono in corso approfondimenti che rischiano di essere lunghi e senza esiti certi.

Chi sperava che il piano contenesse misure per impedire ad alcune organizzazioni salafite di fare proselitismo per le strade della Svizzera è rimasto deluso ma non è il solo punto che lascia perplessi. Era lecito aspettarsi ad esempio delle rigide misure che potessero fermare o limitare, l’invio di fondi a moschee e associazioni islamiche in continua crescita da parte di cittadini del Golfo Persico, o dagli enti governativi della Turchia, paese che agisce anche in Svizzera con il Ministero del culto “Dyanet”.

Nel piano d’azione “che è stato elaborato di comune intesa da Confederazione, Cantoni, città e Comuni, sotto la direzione del Delegato della Rete integrata Svizzera per la sicurezza (RSS)” non si è voluto affrontare il tema più delicato, quello più spinoso, quello dei finanziamenti che sono fondamentali perché i pesci nuotano solo c’è acqua.

A riprova di questo a pagina 7 si legge, “Tenendo conto delle valutazioni degli esperti e degli altri lavori in corso, si è per esempio rinunciato a elaborare misure relative all’introduzione di un registro nazionale dei detenuti e al disciplinamento della trasparenza finanziaria delle comunità religiose.

Difficile comprendere il perché dell’esclusione del tema dei finanziamenti ma di certo tale scelta denota la mancanza di quel coraggio che serve quando si affrontano temi drammatici come il terrorismo di matrice religiosa islamica. Perché si preferisce non entrare manifestamente in contrasto con le molte e potenti associazioni islamiche vedi i Fratelli Musulmani, l’Unione degli imam albanesi della Svizzera (UIAS) o la Muslim World League (MWL) oppure l’Association des Savants Musulmans (ASM)? 

Perché prima di discutere di discriminazioni e di tutto il resto non si approfondiscono quei i rapporti opachi che intercorrono tra le associazioni musulmane, le loro moschee, gli imam, i predicatori itineranti e le ONG islamiche che operano in Svizzera anche dal Kuwait e dal Qatar?

Niente da fare, allora meglio puntare più “politicamente corretto” su “una collaborazione interdisciplinare istituzionalizzata, per esempio mediante l’organizzazione periodica di tavole rotonde”.

Peccato che a queste, molto spesso partecipino i “lupi vestiti con il velo d’agnello” che adorano portare a spasso conduttori televisivi, politici e chiunque sia ancora disposto ad ascoltarli. E oltre alle 44 pagine del “Piano d’azione nazionale per prevenire e combattere la radicalizzazione e l’estremismo violento”, c’è l’inchiesta di Kurt Pelda giornalista del “Tages Anzeiger”, che racconta che sette membri del “Consiglio centrale islamico svizzero” di Nicolas Blancho e Qaasim Illi, sarebbero partiti alla volta del “Siraq” a combattere sotto le bandiere nere del Califfato.

Ma c’è di più, nell’articolo del quotidiano si parla di una mappa delle complicità con alcune ONG e un’agghiacciante audio del 2015, dove lo stesso Blancho dice; “C’è una chiarezza indiscutibile e immutabile nella legge islamica e anche un consenso tra gli studiosi musulmani secondo cui è dovere legittimo dei musulmani combattere e difendersi contro le forze interventiste. È, aderire a questa lotta una delle forme più nobili della jihad”.

Per tornare al piano nazionale, sono numerosi i riferimenti “alla partecipazione attiva”, ai “progetti della società civile fondamentali ai fini del lavoro di prevenzione”.
È vero come scritto dagli esperti che hanno redatto il piano che “la partecipazione e la codecisione favoriscono le decisioni positive, rafforzano il senso di appartenenza alla società e mitigano o eliminano le paure, le incertezze e le tendenze discriminatorie”.

Tutto questo a patto che non si nasconda ancora una volta la polvere sotto il tappeto sperando che arrivino tempi migliori. Il tempo è scaduto anche per la Svizzera.

* presidente Centro Studi Space


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