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Analisi
23.10.2017 - 15:120

Ieri abbiamo raccontato il funerale dell'asilante ucciso da un poliziotto a Brissago. E tanto è bastato per scatenare la ciurma razzista in servizio permanente sui social... Vergogna, giornalisti, anzi giornalai da strapazzo!

ANALISI - Questa è censura, frutto del moralismo e dell’ignoranza di chi pensa che i giornalisti debbano raccontare solo ciò che ci piace e che ciò che ci piace debba essere imposto a tutti

di Andrea Leoni

Ieri abbiamo pubblicato una sintesi di un reportage, molto opportuno, realizzato dai colleghi del Caffè. Nel servizio veniva raccontato il funerale del richiedente asilo rimasto ucciso durante l’intervento della polizia in una casa di accoglienza a Brissago.

L’uomo, un tamil, è stato ferito a morte da un agente della Polizia cantonale, che gli ha sparato, perché avrebbe minacciato l’incolumità dei presenti sbucando d’improvviso da un appartamento armato di due coltelli. Questa è la prima versione fornita dall’autorità giudiziaria, che non ha disposto fermi dopo aver interrogato gli agenti, in attesa che l’inchiesta faccia il suo corso e chiarisca i fatti (anche grazie al supporto del lavoro della Scientifica di Zurigo, alla quale sono stati affidati i rilievi per garantire l’imparzialità dell’indagine).

Nell’articolo del domenicale diretto da Lillo Alaimo, veniva semplicemente narrata l’ovvia disperazione dei famigliari per la perdita del congiunto, l’altrettanto ovvia predica del parroco che si è augurato che fatti del genere non si ripetano (chi si augurerebbe un bis?), e la testimonianza di alcuni rappresentanti della comunità tamil che raccontavano come tutta la vicenda fosse scaturita da una banale lite e dallo stato di ebrietà del morto.

Tanto è bastato per scatenare la ciurma indignata e razzista in servizio permanente sui social. Omuncoli e donnuncole, decisamente più piccini del manganello lessicale con cui agitano l’aria, che hanno cominciato a triturare i santissimi con la solita retorica copia&incolla, buona per commentare tutto lo scibile umano: e i ticinesi disoccupati, sfruttati, umiliati? Sempre a reggere la coda agli asilanti! E quelli che si suicidano? E la Boldrini? Sono gli effetti del piano Kalergi, colui che sostenne l’esistenza di un ipotetico progetto per incentivare l'immigrazione africana e asiatica in Europa! Dovreste scrivere del povero poliziotto, non di quel morto che se l’è cercata! Vergogna, vergogna, tremenda vergogna, giornalisti, anzi giornalai da strapazzo!

Ora, siccome per alcuni commentatori dei social pare un esercizio di ginnastica mentale a rischio strappo per le sinapsi, comprendere che raccontare il dolore di una famiglia non è in contraddizione con le buone ragioni che per quanto se ne sa finora hanno indotto il poliziotto a sparare, gli evitiamo lo sforzo. E ci rivolgiamo agli altri, anche critici, ma che non hanno dismesso la facoltà di pensare con la propria testa a vantaggio dei “meme” di Facebook.

Da questo piccolo spaccato di realtà, benché virtuale, e quindi parziale, emergono ancora una volta due problemi. Il primo è l’incapacità di ascoltare l’insieme di una storia di cronaca, che è sempre fatta da chi si ritrova dalla parte giusta e da chi dalla parte sbagliata della vicenda.
C’è un attitudine ottusa in questo approccio, che fortifica il pregiudizio e impedisce la formazione di un giudizio compiuto, sulla base di tutti gli elementi.
Il secondo problema è la censura intellettuale e politica che, con tecniche squadriste, taluni pensano di imporre al racconto. In questo modo, se un giornalista, come nel caso, descrive la parte di una storia che una rumorosa pattuglia decide che non vuole ascoltare, ecco che diventa la “santificazione del criminale” o la “caccia al poliziotto”.  Come se descrivere un fatto significasse prendere una parte e dare addosso all’altra. Siamo davvero nel campo dell’analfabetismo, anzi, peggio, del suo sdoganamento in pensiero. 

Personalmente, qualcosa di simile, mi capitò anni fa quando intervistai il padre di uno degli assassini di Damiano Tamagni. Successe il finimondo, non per quel che disse, ma perché glielo facemmo dire al microfono. E allora non c’erano ancora i social, altrimenti saremmo stati linciati. Questa è censura, frutto del moralismo e dell’ignoranza di chi pensa che i giornalisti debbano raccontare solo ciò che ci piace e che ciò che ci piace debba essere imposto a tutti.

In tutto questo, infine, ancora una volta, si evidenzia un deficit di umanità e compassione - i cattolici direbbero pietà - di cui è ammalata la nostra convivenza civile. Un sentimento che sta evaporando giorno dopo giorno, ma che nella cultura occidentale è sempre stato un tarlo che ci ha resi migliori. Compassione che non vuol dire battere le mani al morto, ma neppure oltraggiarne il cadavere a parole. E mettere la museruola, e spegnere le luci, sulla testimonianza di amici e famigliari, che nulla hanno fatto di male, se non piangere il loro marito, il loro fratello o il loro padre. Ma questi, si sa, sono discorsi buonisti.

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