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14.04.2013 - 10:040
Aggiornamento: 03.10.2018 - 16:25

Lavoro: cosa convince e cosa no del manifesto di Bazzi e Leoni

Non vi è dubbio che la situazione sia quella dipinta dal manifesto per il lavoro in Ticino. Ma quali sono le soluzioni migliori?

di Francesco Forti

Non vi è dubbio che la situazione sia quella dipinta dal manifesto per il lavoro in Ticino. Quelle che  metto in discussione sono le reazioni, le proposte. L'unica soluzione è "ribellarsi" e chiedere protezionismo o ce ne sono altre?  Dazi sulle merci o tasse sul lavoro come quella del 35% sono la stessa cosa: una protezione del mercato interno. Tuttavia dovremmo sapere che il protezionismo è un'arma a doppio taglio per un paese esportatore come il nostro. Attenzione quindi a non farci male da soli. Le soluzioni "a strappo" e d'impeto sono banali e facili da trovare, alla portata di un bambino, ma hanno tutte un rovescio della medaglia, come ogni cosa. 

Qui devo subito aggiungere che affrontare un tema come questo è una strada tutta in salita. In fondo a dire che bisogna ribellarsi e mettere un freno ci vuole poco. La proposta la si fa in poche righe e se se ne usano di più  è solo per ripetere lo stesso concetto in tutte le salse, per fare il tema più lungo, come a scuola. Affrontare invece le cause della situazione, con un approccio razionale, oggettivo e scientifico, abbandonando moralismi  e proclami al popolo è molto più difficile sia per chi scrive sia per chi legge. Avrò bisogno di molto spazio per cercare di farmi capire. A volte bastano poche righe per smontare una teoria popolare, a volte no e ci sono voluti millenni per dimostrare che la terra non era piatta. 

Premetto per prima cosa che chi vi scrive, è un microimprenditore di pensiero e cultura liberale. Va precisato che le imprese con meno di 10 addetti sono quelle che statisticamente impiegano meno manodopera straniera e che il sottoscritto non ne fa uso. D'altronde è anche ovvio: la microimpresa ticinese rappresenta l'86% del totale ed 1/3 degli addetti e una buona metà è costituita da ditte individuali senza dipendenti (svizzeri o stranieri che siano).  Subiamo anche noi la concorrenza di chi si propone con prezzi stracciati ma la chiamerei cosi': concorrenza, non dumping. La concorrenza fa bene o fa male? Questo è il problema. Ma prima di arrivarci partirei dall'unico concetto espresso nel manifesto che condivido: l'equivalenza tra chi assume manodopera straniera a basso costo e chi, da consumatore, fa la spesa oltre confine. Solo che considero l'argomento un clamoroso autogol, fatto da chi a mio vedere non ha grandi cognizioni di impresa e di economia. Ma è vero: le due cose sono equivalenti e quindi se una è una "colpa" lo è anche l'altra oppure sono entrambi comportamenti razionali sul piano economico, nel breve, medio ed anche lungo periodo. Cosa che un po' di pazienza si può dimostrare. Dalla dimostrazione poi emergeranno anche le soluzioni razionali. E ce ne sono. 

Egoismo dannoso o utile?
Iniziamo dal capire perché quello che viene definito nel manifesto "egoismo sociale, economico e politico" abbia una razionalità economica di fondo. Il concetto da cui partire si chiama "vincolo di bilancio" ed è una cosa che ogni famiglia conosce, quando deve far quadrare i conti. È un concetto che vale anche per le imprese di ogni dimensione, per gli enti pubblici e per le bilance dei pagamenti degli Stati, nel commercio internazionale. Vediamolo. Le nostre entrate sono limitate, le nostre spese quindi devono esserlo altrettanto. Il che significa fare una lista di priorità (non in ordine: vitto, affitto, vestiario, assicurazioni, tasse, salute, vacanze, figli) e significa anche che ogni singolo risparmio ci permette di usare l'importo risparmiato per altre spese. Se quindi una famiglia numerosa risparmia 700 franchi al mese facendo la spesa in Italia, quel risparmio rende possibile altre spese (in un anno per esempio le vacanze o quanto da mettere da parte per la casa o una macchina nuova). Non è affatto detto quindi che se risparmio 700 franchi facendo la spesa in Italia io danneggi sempre i commercianti ticinesi. Se i 700 franchi li spendo in Ticino il presunto danno è minore del previsto. 

Non c'è dubbio quindi che sia assolutamente razionale risparmiare. Vale per uno consumatore come per milioni. Anzi, la somma degli interessi di migliaia e milioni di consumatori nel Ticino e nel mondo costituisce sicuramente l'interesse della maggioranza, rispetto all'interesse di pochi. Il problema è vedere se in questo modo oltre ad avvantaggiare la maggioranza si danneggia qualcuno ed in particolar modo l'economia ticinese e/o svizzera. Qui viene il bello e la cosa si fa interessante. 

In fondo è perfettamente possibile che l'interesse egoistico di tutti (ad esempio disfarsi del pattume gettandolo nei boschi o nelle proprietà altrui) si trasformi in un danno alla collettività. È questo il caso di chi per risparmiare fa la spesa all'estero o assume manodopera straniera a basso costo? 

Chi danneggiamo?
Iniziando ad esaminare l'ipotesi che l'interesse "egoista" abbia risvolti negativi per qualcuno devo dire che a ben vedere ogni scelta di un consumatore nei confronti di un prodotto X offerto da un negoziante Y si trasforma in un effetto negativo per tutti gli "scartati". Prodotti o punti vendita che siano. Scegliere infatti significa anche forzatamente "scartare". Se i parrucchieri in Ticino fossero 421, la mia scelta di andare in uno particolare è anche la "non scelta" verso gli altri 420 e non per questo uno deve sentirsi caricato di un senso di colpa o qualche "responsabilità sociale". Lo stesso se, indipendentemente dal negozio, scelgo una macchina fotografica Olympus invece di Canon, Nikon e tante altre ottime marche, dietro cui si sono pur sempre migliaia e migliaia di lavoratori nel mondo ed importatori nostrani. Non si capisce per quale motivo, a meno di non essere nazionalisti sfegatati, questo senso di colpa e responsabilità sociale dovrebbe scattare appena si varca la frontiera. E non solo per fare la spesa ma a maggior ragione per fare le vacanze, visto l'ingente onere del costo. Mi chiedo per esempio se i firmatari del manifesto a cui rispondo abbiano mai fatto vacanze in Grecia, Italia, Spagna o qualsiasi altra parte bella ed economica del mondo e come abbiano fatto a sopportare il peso della responsabilità sociale connessa nell'aver scartato le splendide ma assai care località turistiche indigene. 

Facendo allora il punto, se scegliere uno significa scartare mille, cosa tipica di una società in cui la concorrenza ci offre per fortuna una vasta gamma di punti vendita, di prodotti, di qualità e prezzi diversificati, siamo già corazzati sul fatto che la nostra scelta non comporta alcun senso di colpa ed alcuna responsabilità sociale verso gli scartati. 

Chi volesse fare il predicozzo ai consumatori che comprano cetrioli olandesi diciamolo pure: non attacca.  Scegliendo quello che per noi è il meglio, nel rapporto qualità/prezzo, non facciamo altro che premiare la logica della concorrenza. Punto. 

Naturalmente anche quando la ditta Y assume il lavoratore "Antonio", essa scarta automaticamente alcune centinaia di potenziali concorrenti, senza per questo subire complessi di colpa oppure oneri di responsabilità sociale. Nemmeno, direi, quando c'è di mezzo la frontiera. Assumere un ottimo ingegnere, indipendentemente dal passaporto che ha in tasca, meglio ancora se ad un costo interessante, è nella stessa logica chi fa la spesa in Italia e le vacanze in Portogallo. Risparmia, e per un'azienda questo vuol dire stare meglio sul mercato ed assumere un lavoratore qualificato. Anche a parità di qualità (o quasi) è razionale comunque scegliere un costo inferiore. Sempre per il sopracitato vincolo di bilancio. 

Competizione e concorrenza.
Questo perché le imprese sono in costante competizione tra loro per migliorare la qualità dei prodotti e diminuirne i prezzi, a vantaggio dei consumatori. Chi viene scartato, momentaneamente, cosa deve fare? Chiedere alla politica dazi e tasse a sua protezione oppure migliorarsi? Ma prima di arrivare a cosa si dovrebbe fare, è rimasta aperta una questione. Mi ero chiesto se il presunto comportamento egoistico del consumatore, che per risparmiare "sceglie" la spesa e le vacanze in Italia, equivalente – e siamo d'accordo - all'impresa svizzera che assume un lavoratore straniero, fosse un comportamento che danneggia in toto l'economia svizzera. Abbiamo visto che comunque ogni volta che scegliamo danneggiamo involontariamente una molteplicità di scartati. Se però  l'eccesso di importazione dall'estero fosse un danno per la nostra economia, le cose cambierebbero. Non ci sono risposte automatiche a questa domanda ed ogni paese ha la sua realtà. Se per esempio fossimo in un caso come quello greco, in cui le importazioni sono il doppio delle esportazioni, avremmo un serio problema nella bilancia dei pagamenti. A cui potremmo reagire sia dicendo "importiamo di meno" ma anche "cerchiamo di esportare di più'". Ma non è il nostro caso. Le nostre esportazioni sono floride e superano le importazioni. Di fatto possiamo convenire che tutte le volte che facciamo la spesa o le vacanze in Italia o che assumiamo manodopera straniera (e questo si chiama “importare”)  quei soldi spesi rientrano sotto forma di esportazioni svizzere. Con gli interessi. E naturalmente non sta in piedi, se non nel mondo dei sogni, un'economia che esporta il 50% del PIL senza importare  nulla in cambio. Il vincolo di bilancio di cui si parla per imprese e famiglie vale anche per la bilancia commerciale: se esportiamo tanto dobbiamo anche importare almeno altrettanto. Pena grossi danni al valore della moneta. E la Svizzera lo fa. Ecco perché mettere un freno alle importazioni (beni, servizi o manodopera) con dati e tasse diventa puro autolesionismo. Senza quel 50% di esportazioni – pareggiate dalle importazioni - saremmo destinati a tornare alla raccolta di mirtilli, funghi e castagne, altro che. Senza quel 50% di esportazioni non avremmo la piena (o quasi) occupazione  e non avremmo il gettito fiscale che oggi può mantenere uno stato sociale invidiabile. 

Le somme.
Ecco che quindi facendo le somme arriviamo a comprendere che se una famiglia di 4 persone tra spesa e vacanze in Italia o all'estero risparmia in un anno fino a 8'000 franchi o che se un'impresa ne risparmia 16'000 assumendo personale straniero, non solo quel risparmio si trasforma in un "egoistico" vantaggio immediato per i consumatori, oggettivo e perfettamente misurabile, ma quei soldi tornano all'economia svizzera sotto forma di ordinazioni, commesse, lavoro. E quindi imposte. Non è un'ipotesi di studio ma una realtà, osservabile osservando il volume effettivo dell'export svizzero rispetto al PIL, superiore alla importazioni.  Possiamo quindi concludere che ogni importazione di beni, servizi e manodopera, non danneggia affatto ma favorisce, bilanciandole, le nostre esportazioni, sui cui basiamo oggi la nostra ricchezza e prosperità. Il difetto del manifesto a cui rispondo è vedere solo una faccia della medaglia, quella che non piace, senza ricordare che ogni medaglia ha un altro lato, in questo caso con vantaggi decisamente superiori agli svantaggi. 

Ora il fatto che noi esportiamo così tanto implica che non lavoriamo e produciamo solo per noi, ma che lavoriamo produciamo per gli altri, per esportare in tutto il mondo. Succede una cosa decisamente  interessante. Così come migliaia di consumatori ticinesi e svizzeri decidono di scegliere alcuni beni e servizi all'estero, altri milioni di consumatori e di servizi acquisti nel mondo decidono che alcune merci svizzere sono le migliori e le comprano. Naturalmente parliamo di merci tra loro diverse e parliamo della logica dell'eccellenza. Noi siamo bravi a fare alcune cose, e le vendiamo in tutto il mondo, molto meno in altre e quindi in quel caso importiamo le eccellenze altrui.  

Pro e contro di un'economia aperta.
Per esportare e produrre il surplus abbiamo  bisogno di molta manodopera e qui vengo al tema dei frontalieri. Sappiamo che in Ticino ci sono circa 84'000 stranieri residenti in modo permanente. Sono qui in gran parte per lavorare, quindi hanno comprato casa o sono in affitto (in ogni caso una casa è stata costruita, da lavoratori anche stranieri e architetti, ingegneri e geometri nostrani), pagano la cassa malati e le tasse come noi. Per loro e per i loro figli abbiamo ampliato ospedali e costruito scuole. Per i 50'000 frontalieri è diverso. Pagano meno tasse – vero -  ma gravano meno sul territorio. Per loro non dobbiamo costruire case, togliendole al nostro territorio, ospedali e scuole ma solo, eventualmente, potenziare le vie di traffico. Cosa che come è ben visibile non è stato assolutamente fatto. Qui le colpe però non sono certo dei frontalieri ma degli amici che governano a B.Zona. Tutti, Lega compresa, visto che è sulla scena politica da 20 anni. In base al consuntivo 2012 le imposte cantonali alla fonte sono state pari a quasi 118 milioni. Non so se è l'incasso al  lordo o al netto di quanto dovuto all'Italia ma anche tolto il 38.8%  rimane pur sempre una bella cifra che in 30 anni ammonta a oltre 2 miliardi di franchi. Considerato che la galleria vedeggio cassarate è costata 207 milioni, cosa avremmo potuto fare in questi decenni con 2 miliardi per alleviare i disagi al traffico che il frontalierato comporta? Dove sono finiti quei soldi e come sono stati spesi? Se qui qualcuno proprio dovesse provare l'impulso non dico a ribellarsi ma almeno ad abbozzare ad una domanda scomoda, queste sono le prime questioni da porre, per esempio al Dipartimento del Territorio. 

Allora cosa fare?
Ma veniamo ora al punto finale. Cosa fare. Scontato che come detto all'inizio la situazione è realmente come viene dipinta, credo che sarebbe il caso di rettificare un po' la terminologia. Per prima cosa sgombriamo il campo da tutto quello che è illegale, sommerso, nero e clandestino. Queste attività vanno individuate, represse, sanzionate. Sono illecite dal profilo legale e sono una distorsione della concorrenza sul piano economico. Le autorità si diano da fare e le organizzazioni di categoria pure. Rimaniamo nel campo dei contratti alla luce del sole. Tutti ormai si affannano a parlare coralmente di dumping salariale (o sociale) ma il termine più adeguato è "concorrenza". Il dumping, che è una pratica commerciale scorretta ed illegale, attiene solo alle merci. Il lavoro, spero siamo tutti d'accordo, non è propriamente una merce. Il dumping avviene quando chi vende su un mercato estero lo fa a prezzi stracciati, ed anche sottocosto, per sbaragliare la concorrenza. Qui chi si vende (i frontalieri) non lo fa sotto costo, anzi lo fa guadagnando molto di più di quanto guadagna in Italia. È semplice concorrenza e naturalmente se a tutti piace la concorrenza quando ci permette di trovare un prodotto più economico a Varese o una vacanza in Tunisia, dà molto più fastidio quando ad essere "scartati" dalle scelte di chi deve scegliere iniziamo ad essere noi. Anche in termini di concorrenza, potremmo discutere se sia "leale" o "sleale". Se si pagano le imposte dovute, in assenza di contratto collettivo è praticamente impossibile determinarlo. Se però esiste un contratto collettivo e lo stipendio del lavoratore frontaliero è inferiore al dovuto, potremmo anche convenire che sono state utilizzate "tecniche, pratiche, comportamenti e mezzi illeciti per ottenere un vantaggio sui competitori o per arrecare loro un danno". Tuttavia attenzione al rovescio della medaglia: con meno manodopera frontaliera (o la stessa quantità ma a costi maggiori) i nostri prodotti diventerebbero più cari e quindi meno appetibili per le nostre esportazioni, inoltre sempre più  ticinesi troverebbero convenienti le merci e le vacanze oltre confine. A meno di non imporre un'autarchia da ventennio, la cura sarebbe peggiore del male. 

Messa così la situazione sembra senza soluzione. In effetti ogni paletto e rigidità (dazi, tasse, vincoli legali come un contratto collettivo) ha la sua controindicazione che potrebbe ritorcersi sulla nostra economia, vanificando la misura e forse portando ad un equilibrio finale peggiore. Tuttavia la soluzione la possiamo trovare proprio partendo da quella brillante analogia tra situazione aziendale (l'assunzione di frontalieri ad un costo inferiore rispetto agli standard ticinesi) e quella delle famiglie che fanno la spesa a Como o Varese. Cosa deve fare un'azienda quando realizza che il suo prodotto non è più concorrenziale? Per prima cosa deve vedere se il suo prodotto ha mercato e non si tratta come nel caso delle pellicole fotografiche nell'era delle macchine digitali. Se il prodotto non ha mercato, tanto vale smettere di produrlo e passare a produrre e vendere altro. Altro cosa? Bene, lo abbiamo detto: la Svizzera esporta beni per un volume pari al 50% del suo PIL e quindi questi prodotti, appetibili ed ambìti in tutto il mondo, esistono veramente. Siamo veramente capaci di farli e di venderli. Si tratta di riposizionare l'azienda verso quei prodotti e quei mercati che funzionano, verso le eccellenze. Ogni azienda degna di questo nome sa come fare e sa altrettanto bene quanto sia difficile. Ma dovrebbe sapere che con impegno e abilità si può fare e che è l'unica strada che porta al successo. Se invece il prodotto funziona ancora ma è immesso nel mercato a prezzi non concorrenziali, allora o si riesce a produrlo ad un prezzo interessante per il mercato oppure con una qualità eccelsa per un numero sufficiente di clienti, tali da assicurare redditività all'impresa. In entrambi i casi occorre trovare l'equilibrio tra innovazione e riduzione dei costi. La prima permette un più  razionale impiego delle materie prime, dell'energia usata nei processi produttivi, la seconda tramite innovazioni di processo e di management permette la riduzione dei costi operativi ed anche della manodopera. Se veda ad esempio il fatto, inconfutabile, che un televisore di gamma top nel 2000 pesava 60 kg, contro i pochi di oggi, e necessitava per essere prodotto di un numero di ore di lavoro e di energia superiore rispetto ad oggi. Il che si trasforma oggi in prezzi assolutamente inferiori a quelli di 10 anni fa e naturalmente di una qualità nettamente superiore. Prezzi inferori a tutto vantaggio dei nostri “vincoli di bilancio”. 

Tutto questo per dire che innovazione e concorrenza portano a qualità superiore e prezzi più bassi a tutto vantaggio personale. Il protezionismo invece ci poterebbe nella direzione opposta. Prezzi alti e qualità scarsa.. Ma per i lavoratori come la mettiamo? L'analogia funziona anche qui. Se la mia competenza specifica è svanita, nel senso che sono esperto in pellicole fotografiche analogiche in un mondo ormai digitale, allora o mi trovo una posizione di nicchia, cosa possibile solo se sono tra i migliori al mondo, oppure sono costretto a riposizionarmi, cercando il più possibile di entrare in ambiti in cui le mie competenze residue possono ancora avere un valore utilizzabile. Se la mia competenza è ancora valida e richiesta ma è sottoposta alla concorrenza internazionale di lavoratori di tutto il mondo allora devo riposizionare le mie pretese economiche. Se prima potevo tranquillamente chiedere 10'000 forse oggi devo organizzarmi per chiedere 7'000 riducendo contemporaneamente le mie spese, cosa che posso fare meglio se utilizzo almeno in parte la globalizzazione per comprare beni e servizi nel mondo a prezzo inferire. Ritengo però  improponibile che anni fa fosse ritenuta non problematica la concorrenza tra lavoratori edili e nel secondario e che invece oggi tanti politici si traccino le vesti salendo sul facile carro della demagogia solo perché ad essere colpiti dalla concorrenza e dai meccanismi del mercato sono i  "colletti bianchi" del cosiddetto terziario avanzato. 

Reagire, ma come?
Si tratta allora sì di reagire, come proposto dal manifesto, ma in modo diverso. Non chiedendo collettivamente protezione a mamma stato, cercando tramite tasse, dazi e stipendi fissati per legge di difendere e mantenere posizioni di rendita, ma piuttosto di sapersi riposizionare, riqualificare. Individualmente o in piccoli gruppi. Cosa non facile, vero. Non è da tutti. Come oggettivamente non è da tutti mettersi in proprio, altro modo di riposizionarsi utilizzando le proprie conoscenze. Se c'è un ruolo della collettività da reclamare non è quello “difensivo” ma è proprio quella di coordinare ed agevolare questo riposizionamento del mercato del lavoro ticinese, cosa in buona parte già fatta ma che si può sempre migliorare. Naturalmente sarebbe più facile riposizionarsi o diminuire le pretese economiche generali se tutti i prezzi scendessero e non solo quelli dell'elettronica, dell'informatica e della manifattura. A ben vedere molti prezzi sono in calo, altri oscillano a seconda del clima, come nei generi alimentari. Altri invece non ne vogliono proprio sapere di scendere, come gli affitti, le imposte, la spesa sanitaria. Dietro queste spese che non scendono spesso ci sono anche posizioni di rendita, slegate dalla produzione di valore aggiunto, che è il cuore della nostra economia. Ecco un altro settore - la rendita -  su cui se proprio volessimo "ribellarci" noi produttori di reddito dovremmo iniziare a porre particolare attenzione. 

Bene, sono arrivato alla fine e mi complimento con chi  ha avuto la pazienza di leggere fin qui.  Non ho scritto tutto quello che avrei dovuto o potuto dire e sono consapevole di aver espresso concetti scomodi e spigolosi. Ci saranno forse occasioni ulteriori, in prossimi eventuali interventi, per approfondire e chiarire. Il dibattito serve a questo. 

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