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Cronaca
13.10.2015 - 06:230
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

Dadò boccia il film sull’Everest: “Manca la montagna. L’alpinismo è come innamorarsi: a volte è la persona sbagliata, ma è sempre amore”

Il film sul dramma del ’96 delude chi quelle vette le conosce bene, come il capogruppo PPD che scalando il Lhotse ha percorso un tratto di salita in comune ai protagonisti della vicenda. Lo abbiamo intervistato

LOCARNO – Chi è andato nelle sale sperando di capire come mai degli uomini decidano di mettere a repentaglio la propria vita pur di conquistare la vetta più alta del Mondo è uscito dalla proiezione con gli stessi dubbi con cui vi è entrato. Questo, in estrema sintesi, il commento di Fiorenzo Dadò su “Everest” film che narra il dramma vissuto sul tetto del mondo nel 1996 e attorno a cui, presentato in pompa magna a Venezia, si è creata molta aspettativa e curiosità. E fra i curiosi, anche Dadò. Questo film però, ha scritto il deputato PPD su Facebook facendo sue le critiche di Reinhold Messner, “non aiuta a rendere l'idea, perché manca la protagonista principale, la montagna, e non riesce a fare immedesimare lo spettatore su cosa significa salire, tornare o morire a 8000 metri”. Dadò infatti quelle vette le conosce bene: durante uno dei suoi viaggi in Nepal, scalando il Lhotse ha percorso un tratto di salita fino a 7900 metri in comune ai protagonisti della vicenda. È sulla parete di quella montagna che la via si divide e si può raggiungere l’Everest. La sua critica al film è quindi quella di qualcuno che quelle emozioni e quelle pareti le ha vissute ed è, per noi, l’occasione di una chiacchierata sull’Everest, proiettato e vissuto, per provare a immaginare quel mondo. Per Dadò è necessario fare una premessa sulla pellicola di Kormákur: “Riuscire a fare dei film, delle fiction, sulla scalata agli ottomila metri è un’impresa difficilissima, quasi impossibile; a meno di non andare direttamente sul posto con attori che siano anche degli alpinisti. Ma in questo caso, diventerebbe un documentario ”. E le riprese hanno infatti avuto luogo fra il Nepal e l’Alto Adige, a una quota di 1'500 metri. Tutt’altra cosa rispetto alle condizioni che si trovano a 7, 8mila metri. “Sarebbe impensabile fare altrimenti con attori che non hanno mai praticato questa disciplina, ma la differenza, la finzione, traspare in modo palese. Alcune scene, come l’attraversamento dei crepacci, si avvicinano alla realtà, in generale però mancano la tragedia vera e propria vissuta da questi uomini e le loro difficoltà. Manca, in sostanza, la montagna”. Il film vuole riproporre il dramma del maggio ’96, narrato anche nel libro “Aria sottile” da Jon Krakauer, che lo visse in prima persona prendendo parte alla spedizione guidata da Rob Hall come inviato della rivista Outside. Secondo Dadò, la pellicola sbaglia però il tiro: “Può essere interessante per chi non ha mai vissuto queste esperienze o non conosce il libro, ma non è assolutamente in grado di rendere cosa significa salire su una montagna e dover sopravvivere nella zona della morte. A 8mila metri c’è solo il 30% dell’ossigeno che abbiamo a disposizione a casa nostra, i nostri muscoli riescono a lavorare a nemmeno un decimo della loro forza normale… in queste condizioni una persona non deve solo riuscire a sopravvivere, ma deve agire, scalare una montagna e, soprattutto, poi deve riuscire a scendere, dopo aver fatto uno sforzo sovrumano per 12- 16 ore per raggiungere la cima. Questo è il contesto: riprodurre l’impresa e il dramma è difficile e la pellicola, a parer mio, non ci è riuscita”. Krakauer aveva preso parte alla spedizione per capire e descrivere perché una persona decida di lanciarsi in queste imprese, un aspetto che, sottolinea ancora Dadò, nel film non traspare in modo sufficiente. “Se il film aveva come scopo di portare gli spettatori in cima all’Everest e cercare di far provare loro le emozioni, le difficoltà e il dramma di scalare l’apice del mondo, scendere e morire senza nessuna possibilità di soccorso a ottomila metri, non ci è riuscito. Lassù si vivono in pochi attimi mille contrasti. Si passa da veri e propri momenti di estasi, sovrastati dalla bellezza straordinaria delle cattedrali della terra, al dramma della sopravvivenza. Quando sei su quelle creste ti commuovi spesso e vivi attimi di gioia, mentre appena dopo può scatenarsi l’inferno. Una tempesta a quella quota, può letteralmente portar via una persona dalla parete, ma non è come si è visto nel film. Poi oltre alle sfide poste dalla natura, ci sono quelle della nostra mente: la lentezza con cui si affronta la salita, la soddisfazione nell’arrampicata, la delusione nel dover abbandonare, e, come nei fatti narrati nel film, anche il dramma di dover magari abbandonare i propri amici e compagni alla morte”. Il film non risponde, e allora lo chiediamo direttamente a Dadò: cosa spinge queste persone, questi padri, madri, mariti e mogli, a mettere a repentaglio la propria vita per raggiungere la vetta? Quale è la forza del richiamo della montagna? “Per me è relativamente semplice: sono nato e vissuto in montagna, ho imparato a conoscerla fin da piccolo. Salire sulle montagne è per me un percorso interiore e fisico. Fa parte della mia vita e non potrei farne a meno: ci vado qui tutto l’anno e appena posso vado in Himalaya con i miei amici. Mi fa sentire vivo, sereno. Ma non ci sono in realtà spiegazioni razionali. Salire su queste montagne è come innamorarsi di qualcuno, non sempre si tratta della persona giusta: oggettivamente e razionalmente sappiamo magari che non è adatta a noi, eppure… la amiamo alla follia”. Il libro di Krakauer è però anche una denuncia. La presenza delle guide sherpa che si prendono cura sotto ogni aspetto dei partecipanti e i troppi “confort” a Campo Base, uniti all’uso smodato di bombole d’ossigeno e altri prodotti dopanti, permettono anche a persone inesperte o perlomeno non preparate per un ottomila, di tentare la cima. La trasformazione dell’alpinismo in fenomeno turistico e sportivo si unisce poi all’antagonismo personale presente in tutti gli esseri umani, portando a situazioni pericolose, difficilmente controllabili e quindi a incidenti e ulteriori morti. Era il ’96 e, a oggi, la situazione, si può dire, non è migliorata. “L’alpinismo non è uno sport: non si può pensare di ridurre una scalata a una gara e non ci si può preparare come per una maratona. È soprattutto una filosofia di vita che si impara praticandola. Ma di questi, di alpinisti in senso classico, ne sono rimasti sempre meno. La trasformazione dell’alpinismo in fenomeno di massa è successo prima sulle nostre Alpi: abbiamo capanne fino a 4'500 metri, quasi sulle vette, e su troppe cime il sabato e la domenica c’è la fila. In Himalaya, almeno in alcuni luoghi, non si è fatto nient’altro che replicare tutto questo”. Purtroppo, aggiunge Dadò, “va detto quel che è. L’alpinismo oggi non è immune dalle peggiori derive che abbiamo visto nello sport, anche a livello amatoriale, non solo professionistico. Parecchie persone che oggi vanno in Himalaya farebbero di tutto pur di arrivare sul tetto del mondo, poi succede quel che succede. L’alpinismo ad alta quota vuol dire vivere per mesi in un contesto naturale straordinario ma di una precarietà e difficoltà senza eguali, non certo allenabile come i muscoli e quindi inconcepibile per la maggioranza di noi. Purtroppo però si sta trasformando tutto ciò in uno sport o, peggio ancora, in turismo di massa. Con tutte le assurdità e le derive che conosciamo”.
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