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Analisi
02.10.2017 - 14:250

Argo 1, ha ragione Fiorenzo Dadò: lo strumento migliore per fare finalmente chiarezza sullo scandalo è una Commissione d'inchiesta indipendente. Ecco perché

Al di là dell’atto politico, che ha un suo valore, la Commissione parlamentare d'inchiesta è una bellissima arma ma che spara a salve. Il motivo è tecnico: un parlamento di milizia non è in grado di utilizzare questo cannone per centrare il bersaglio con munizioni vere

di Andrea Leoni

 

La proposta del PPD per prendere finalmente per le corna la vicenda Argo 1 - dopo troppo cincischiare - è quella più ragionevole e probabilmente più efficace per tentare davvero di fare luce sulla scandalo che sta segnando in maniera indelebile questa legislatura.

 

Fiorenzo Dadò, intervistato dalla RSI, ha lanciato l’idea di una Commissione d’inchiesta indipendente, sia dalla politica che dall’amministrazione, formata magari da tre ex magistrati. Non è una novità per il nostro Cantone: con il Fiscogate si fece così. Il Governo assegnò agli ex giudici Sergio Bianchi, Emilio Catenazzi e Alessandro Soldini il compito di indagare. Il lavoro fu svolto velocemente e sulla base di quella perizia il Governo decise definitivamente di “dimezzare” Marina Masoni, togliendole la responsabilità di guidare il fisco. Si dimisero direttore e vicedirettore delle Contribuzioni. Anche allora venne proposta una Commissione parlamentare d’inchiesta ma il Gran Consiglio disse di no.

 

Il punto forte della proposta pipidina è che questo strumento pare il più appropriato per un’indagine che sia rapida, indipendente, condotta da professionisti che sanno come si fanno le inchieste e costosa il giusto. Il punto debole è politico: viene cioè formulata da un partito che, a torto o a ragione, nell’immaginario collettivo è associato allo scandalo stesso. Ci avviciniamo a grandi passi all’anno elettorale e nei partiti quest’aria si avverte e c’è meno disponibilità alla ragionevolezza e al compromesso con gli avversari. Fa parte del gioco.

 

A questo aggiungiamoci che la pressione pubblica e mediatica del caso Argo sulla politica è fortissima. E giustamente, intendiamoci, ma il pericolo di fare altri buchi nell'acqua aumenta, e allora sì che sarebbe il caos. Anche perché fin qui le risposte date sono state insufficienti e nella pubblica opinione si è innestato il tarlo che più di uno abbia voluto insabbiare o perlomeno si sia impegnato nel sottovalutare il fattaccio. Questo tarlo, al momento, è una sensazione non una verità, ma ormai c’è e bisogna farci i conti: le apparenze contano.

 

In queste occasioni la proposta che dà l’idea di essere più roboante o inquisitoria è quella che sazia meglio gli appetiti di sangue. Poi che lo sia per davvero è relativo, perché solo gli addetti ai lavori, o i cittadini particolarmente informati, conoscono i meccanismi delle varie opzioni e li sanno soppesare per quel che valgono in realtà.

 

“Se gli altri la proporranno non potremo opporci”, è una delle frasi che più abbiamo ascoltato nelle ultime settimane dalle forze politiche a proposito di una Commissione parlamentare d’inchiesta. Il motivo è semplice: in molti, da destra a sinistra, sono consapevoli che lo strumento è inadeguato per il compito da svolgere, ma siccome una parte dell’opinione pubblica sembra essersi ormai convinta che quello è il cannone migliore, a questo punto della storia diventa difficile, forse impossibile, spiegare con razionalità da parte dei politici perché non lo è.

 

Proviamo a farlo noi. In diverse occasioni, nel corso degli anni, ci siamo illusi sulle potenzialità di questo strumento d’indagine a disposizione del Gran Consiglio. Illusione che quasi sempre si è tramutata in delusione quando sono stati presentati i risultati e i costi. Al di là dell’atto politico, che ha un suo valore, si tratta di una bellissima arma ma che spara a salve. La ragione è tecnica: un parlamento di milizia non è in grado di utilizzare questo cannone per centrare il bersaglio con munizioni vere.

 

Per essere chiari: una Commissione dovrebbe comprendere almeno un rappresentate dei gruppi presenti in Gran Consiglio, ciò sei persone. Per fare un lavoro serio e ben fatto, e che non duri da qui all’eternità, con relativi costi, questi deputati dovrebbero impiegare molte ore della settimane a questo scopo. Ma in realtà tutti hanno un’altra professione - e altre commissioni a cui partecipare - e questo tempo a disposizione, semplicemente, non ce l’hanno. Inoltre bisognerebbe trovare sei persone con spiccate qualità inquirenti e raffiniate conoscenze dei complessi meccanismi della macchina statale.  
 

Il rischio grosso, e già sperimentato, è che i primi mesi di lavoro si spendano solo per capire cosa cercare e come cercarlo. Affidandosi largamente a chi, come supporto per svolgere questo compito gigantesco e a tempo parziale? All’Amministrazione, è ovvio. E siamo punto e capo.

 

Con questo modus operandi si finisce di solito sommersi di carta fino a rimanere incartarti. Perché ci sono due modi per non collaborare o proteggere un malandazzo: non fornire le informazioni o fornirne in quantità industriale. Il tutto, naturalmente, accompagnato dai legittimi interessi partitici che cresceranno con l’approssimarsi delle elezioni e che in ogni caso non saranno produttivi per la ricerca della verità.

 

Per questo auspichiamo che chi sarà chiamato a decidere mantenga il sangue freddo e scelga lo strumento più adeguato, anche se meno erotico, per fare davvero chiarezza su quanto è avvenuto.

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