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26.03.2016 - 08:520
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

Norman Gobbi e l'elogio del capretto pasquale: "Non è un semplice piatto di carne. È un cibo arcaico che ci chiede di sporcarci le mani"

Il Consigliere di Stato leghista: "Mangiare il capretto significa toccare la carne senza la mediazione delle posate, superare la paura di contaminarci e tornare anche noi – per qualche istanti – a una dimensione che non è quella dell’uomo industriale"

di Norman Gobbi*

Gouamba, ekbelu, eyebasi. Non è uno scioglilingua, ma una collezione di sinonimi, che – ai quattro angoli del nostro Pianeta – descrivono una sensazione che anche noi conosciamo, ma per la quale né la lingua italiana né il dialetto ticinese hanno inventato una parola specifica. È la «fame di carne», quel tipo ben preciso di appetito che tutti noi conosciamo e che nessun altro nutrimento – per quanto abbondante – è in grado di saziare.

È chiaro che una piccola parentesi sul significato non basta, con i tempi che corrono, a fare cambiare idea a chi ritiene l’alimentazione carnivora una scelta antiquata, poco ecologica, dannosa per la salute e – soprattutto – crudele. In effetti, molto spesso oggi siamo quasi costretti a giustificarci, mentre aspettiamo di essere serviti al banco di una macelleria o al supermercato – e qualche signora elegante ci passa da parte, con le "bistecche" di seitan nel cestino e uno sguardo di condanna.

Manca poco alla Pasqua ed è inevitabile pensare alla tavola, che nelle nostre terre, ovviamente, ha il capretto nel ruolo di protagonista. Un ruolo che – è inutile nasconderlo – ogni anno viene contestato, come ormai capita sempre quando un animale «carino» finisce in padella. Se però torniamo indietro con il pensiero – non di molto, mi basta immaginare le nostre terre quando nacquero i miei nonni – probabilmente è più facile avvicinarsi al vero senso di questa tradizione culinaria.

Riavvolgendo il nastro del tempo, il Ticino di cent’anni fa era un Ticino abitato da gente povera di beni materiali ma piena di dignità e gusto; qualità che ancora oggi si diffonde come luce, dagli edifici che quelle persone hanno lasciato a guardarci – e forse a giudicarci... Se penso alle settimane della Quaresima, a come dovevano essere vissute e sentite in quei tempi, non mi risulta poi così difficile immaginare l’importanza simbolica del pranzo di Pasqua, come liberazione da un periodo di sacrifici e – soprattutto – come messaggio di speranza per un futuro migliore; che fosse fra le nostre valli o, spesso, nelle terre di emigrazione.

È chiaro che il dopoguerra ha cambiato tutto, e ci ha gettati – anche a tavola – in un’era dell’abbondanza, spesso dopata dalla possibilità di soddisfare qualsiasi nostro capriccio, importando a basso prezzo generi alimentari da ogni parte del Globo. Figlio degli ultimi settant’anni è in particolare l’aumento del consumo di carne di ogni genere, dall’onnipresente manzo fino a specie esotiche; una situazione di abbondanza materiale che ha modificato la nostra dieta e riscritto il nostro pensiero, fino all’orrore per l’idea del digiuno settimanale e alla sostanziale abolizione del «venerdì di magro».

Di fronte a queste chiare distorsioni, credo che gli sviluppi salutisti degli ultimi anni – nonostante certe derive ultra rigorose e un po’ mortificanti – ci abbiano offerto l’occasione per correggere un po’ il tiro. Anche con la carne è bene non esagerare, perché proprio il ridurre leggermente la quantità che ne consumiamo ci permette di curare meglio la sua qualità – a cominciare dall’attenzione per la sua provenienza.

Proprio in questo senso, il capretto pasquale – in genere un prodotto allevato a pochi chilometri dalle nostre case, in modo attento e dignitoso – può essere un momento virtuoso del nostro anno a tavola, e recuperare parte del valore simbolico che l’età del benessere gli ha tolto. Invece di essere un semplice piatto di carne – banalizzato dagli altri duecento che vengono prima e dopo – facciamo che questo pranzo sia un momento speciale, nel quale torniamo a sentire e a onorare il sapore dell’essere vivente che si è sacrificato per noi.

La stessa forma che il capretto assume nel nostro piatto è un aiuto. Non stiamo mangiando un composto macinato e reso friabile, a misura dell’uomo postmoderno, quasi predigerito come certi abominevoli nuggets industriali. È un cibo arcaico, che esige tempo e pazienza per raggiungere la carne; dobbiamo lavorare sulle ossa, ripulirle attentamente una per una – e guai a chi le mette nel piatto dei resti limitandosi a una sgrassatina superficiale! È un cibo che, soprattutto, chiede quasi inevitabilmente all’uomo di sporcarsi le mani, e così facendo diventa gioco; mangiare il capretto significa toccare la carne senza la mediazione delle posate, superare la paura di contaminarci e tornare anche noi – per qualche istanti – a  una dimensione che non è quella dell’uomo industriale ripulito e addomesticato nella sua frenesia senza direzione.

Se ci avviciniamo alla tavola pasquale con questa attitudine, fatta di rispetto e gioia di partecipare a un’esperienza speciale, insieme alle persone più care, allora probabilmente anche il sapore della pietanza sarà più intenso, e si trasformerà nell’esperienza unica che, una volta l’anno, merita di essere.

*Consigliere di Stato Lega

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