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01.03.2015 - 15:170
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

Appunti di viaggio dal Nepal: la storia di Dipak e Indira, ovvero “quando l’erba del vicino è sempre più verde”

La pioggia, la fuga dall’orda di fameliche sanguisughe fino a un lodge in cui trovar rifugio e l’incontro con la ‘strana’ coppia, comincia così il racconto di Samuele Poletti. Il racconto di una storia che, per certi versi, è un po' anche la nostra...

Dottorando in antropologia sociale all’Università di Edimburgo, nell’ambito dei suoi studi Samuele vivrà per i prossimi anni nella valle del Sinaj, nel Nepal nord-occidentale. Di tanto in tanto ospiteremo i suoi appunti di viaggio e così, dopo averci raccontato del primo “accidentato” impatto con la realtà nepalese e la sua rete di trasporti pubblici (vedi suggeriti), oggi è la volta della storia di Dipak e Indira.

di Samuele Poletti*

Durante il mese di giugno, a fine pomeriggio, capita spesso che le nuvole si addensino improvvisamente attorno al massiccio dell’Annapurna, nel Nepal centrale. Le precipitazioni che d’abitudine sopraggiungono creano una certa frenesia tra i contadini, che si affrettano a mettere i frutti del loro lavoro al riparo dalla pioggia incombente, mentre un’armata di sanguisughe esce allo scoperto attratta dall’umidità, cingendo d’assedio ogni altra forma di vita, con le bestie da soma a pagarne il prezzo più alto.

Il viaggiatore occidentale, schifato dall’immonda orda di esserini viscidi e appiccicosi che scopre intenta ad arrampicarsi risolutamente sui propri abiti, si lancia in una corsa sfrenata verso il primo luogo di ristoro, riscoprendo in sé una vena atletica sconosciuta e completamente indifferente alla fatica fino ad allora accumulata. Tutto ciò, nella vana speranza di trovare un’oasi di pace asciutta e con un rischio di dissanguamento relativamente contenuto. Quel giorno del giugno 2013 c’ero io a esibire un improvvisato stile “jump&run” sui ripidi sentieri scivolosi della regione dell’Annapurna, schivando con la grazia di un polipo bestie e persone inopportunamente paratemisi di fronte, e con la strana sensazione di vivere un’esperienza più simile a un livello di Donkey Kong Country che ad un trekking himalayano.

Fortunatamente per la mia integrità psico-fisica, poco distante trovo rifugio in un piccolo ‘lodge’ abbarbicato sulla cima di una collina, con una bella vista sui verdeggianti campi di riso circostanti. Come spesso accade in Nepal, prima ancora di essere una possibilità di pernottamento per camminatori, questa è la casa di Dipak e Indira. Lui arzillo ottantaduenne, ex militare nelle forze armate indiane ora in pensione; lei contadina e casalinga tuttofare, di una quarantina di anni più giovane. Sicuramente una coppia pittoresca e decisamente anomala per il modello classico di famiglia nepalese. Accarezzato dal tepore del focolare, sorseggiando un thè con latte ascolto la loro storia di vita, mentre la pioggia che ha iniziato a cadere produce, nell’impatto col tetto di lamiera, un simpatico effetto di sottofondo.  

Dipak era già stato sposato in precedenza, ma quando la moglie morì sei anni orsono non si rassegnò a dover passare il resto della propria esistenza in solitudine, oltre al fatto che, senza figli e con gli acciacchi dell’età che avanza, vivere solo in questi posti dove la vita è assai dura sarebbe stato un guaio. Perciò, conosciuta Indira durante uno spostamento in un distretto vicino, che pure viveva sola e in condizioni economiche molto precarie, le propose di sposarlo e di andare ad abitare con lui. Da quel momento in poi, per lui le cose iniziarono ad andare di bene in meglio, potendo condurre una vita piuttosto agiata grazie ai ricavi derivanti dal lodge e dalla propria pensione, e passando le proprie giornate intrattenendo conversazioni con le genti di passaggio. Per Indira invece la vita è decisamente più dura, dato che in cambio di una situazione economicamente più stabile e della promessa di ereditare ogni bene del marito alla sua morte, le tocca sobbarcarsi tutti i lavori domestici e nel contado.

L’anziano nepalese ammette candidamente che il loro matrimonio non ha nulla a che vedere con l’amore sincero – situazione comunque ancora piuttosto rara in un Paese dove la maggioranza delle unioni sono combinate tra famiglie, sebbene vi siano avvisaglie di un lento cambiamento –, ma la cosa non sembra infastidirlo. Infatti, a suo dire, mentre lui si è assicurato una vita comoda e “certe attenzioni”, lei non dovrà mai più preoccuparsi della propria condizione economica, e alla sua morte godrà di ogni vantaggio. Inoltre, sempre a parer suo, beneficiano del fatto di vivere in un luogo tranquillo lontano dai trambusti della vita frenetica di città, che su di lui non esercita alcuna attrattiva, per la massima soddisfazione di entrambi.

Tuttavia, quando lui si allontana per sbrigare delle faccende, Indira dipinge una situazione un po’ differente. Oltre a non tifare eccessivamente per la longevità del marito, dalla città si sente attratta eccome. Il suo sogno sarebbe quello di lasciarsi alle spalle questa vita contadina fatta di sporcizia e di stenti, per aprire una piccola attività commerciale nella vicina città di Pokhara. Parla dei negozi, delle luci, della possibilità di avere capelli e mani curate, nella maniera naïve di chi descrive una visione paradisiaca.

Mentre lei vede nella città il mito della modernità e la possibilità di una vita lontana da quelle inutili fatiche, si lamenta dell’ottusità del marito che invece apprezza la tranquillità e i ritmi (per lui) rilassati di quella vita rupestre, che sembra lontana anni luce dalla frenesia caotica di un’esistenza cittadina.

Questa storia, al di là dello specifico contesto in cui si svolge, è in qualche modo emblematica di una sorta di archetipo esistenziale universale, tutt’altro che sconosciuto anche alle nostre latitudini. Infatti, molte persone immerse in una quotidianità di città subiscono il fascino, a sua volta ingenuo, della tranquilla vita di campagna o di montagna, vista come un idilliaco regno in cui alberga una pace non soggetta ai dettami del tempo. Simile visione dimentica però che, quando vissuta per davvero e in maniera più stabile e duratura rispetto a un fine settimana in baita, quella realtà discosta è tutt’altro che riposante e amena (per chi avesse dei dubbi, si rimanda alla lettura de “Il fondo del sacco” di Plinio Martini, che illustra magistralmente la questione).

D’altra parte, fa riflettere vedere come, per chi è immerso in quel tipo di contesto rurale – e non dispone dei mezzi e dell’insensibilità necessari per poterne godere a scapito di qualcun altro, come il signore coprotagonista di questo episodio – la realtà urbana da cui fantastichiamo di evadere appaia come il paese delle meraviglie.

Senza la pretesa di avere risposte illuminanti riguardo al dilemma esistenziale qui evocato, trovo che questa storia in qualche modo simboleggi l’assurdità della condizione umana, sempre intenta a mordersi la coda proiettandosi in un “altrove” più o meno improbabile. Eppure, il paradosso è che abbiamo la facoltà di vivere effettivamente solo il ‘qui ed ora’: continuo richiamo a liberarci da viaggi ipotetici e illusori in mondi idealizzati. In altre parole, per dirla con Sartre, “è la corrente che ti trascina, è la vita; non si può giudicare, né capire, non c'è che lasciarsi andare”, sforzandosi a cogliere di volta in volta il lato più dolce di questo frutto imperfetto.

*dottorando in antropologia sociale all'Università di Edimburgo (s.f.poletti@sms.ed.ac.uk)
 

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