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12.05.2018 - 17:510
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

Il criminologo Massimo Picozzi sulle stragi nelle scuole. L'identikit dello 'school shooter'. I campanelli d'allarme. L'accesso alle armi... Prevedere non è possibile. Prevenire sì. Ecco le 20 regole da seguire

Grazie alla gentile concessione di Massimo Picozzi pubblichiamo i passaggi salienti del capitolo di “Amok, le stragi dell'odio” dedicato alle stragi nelle scuole, che ha recentemente pubblicato con Carlo Lucarelli

Il titolo è “Amok, le stragi dell’odio”. È l’ultima opera a quattro mani pubblicata dal criminologo Massimo Picozzi e dal giornalista e scrittore Carlo Lucarelli, edita da Mondadori.

Amok indica uno  stato psicopatologico crepuscolare caratterizzato da una improvvisa follia omicida, che insorge in seguito a shock subitanei provocati da eventi eccezionali, e di cui, una volta passato, non resta traccia nella memoria.

Li chiamano “rampage killer”, dove rampage sta per una furia improvvisa, un’esplosione letale. Sono assassini che uccidono più persone insieme, utilizzando armi da fuoco, esplosivi, incendi, ma anche veicoli lanciati contro vittime innocenti. Le stragi possono avvenire sul posto di lavoro, nelle scuole, nelle piazze e nei locali pubblici, per motivi religiosi, politici, razziali. E il filo conduttore è sempre uno: l’odio.

E un capitolo del libro è appunto dedicato alle stragi nelle scuole. Picozzi e Lucarelli raccontano storie vere, cronache del passato remoto e del presente, fatti accaduti in Europa e in America. Disegnano l’identikit di uno school shooter, spiegano quali sono i segnali d’allarme, e come si possono prevenire queste tragedie. Perché prevederle è impossibile. Un libro che assume una perfetta attualità anche in Ticino, dopo la strage sventata (ancora tutta da chiarire) alla Commercio da parte di un 19enne di Bellinzona, un bravo studente di terza, che stando a quanto ha accertato finora l’inchiesta avrebbe potuto uccidere la prossima settimana. Martedì, per la precisione, nel giorno degli esami. Forse non l’avrebbe fatto, ma nella sua testa c’era questo atroce pensiero…

Grazie alla gentile concessione di Massimo Picozzi pubblichiamo alcuni passaggi salienti del capitolo di “Amok” dedicato alle stragi nelle scuole.

Non succede solo negli Stati Uniti

Parlare di stragi nelle scuole, significa affrontare il problema più ampio della violenza sul posto di lavoro; i drammi si realizzano infatti all’interno di un universo di rapporti, una costellazione fatta di insegnanti, del personale amministrativo e quello di supporto; e, naturalmente, di studenti, i “clienti” di ogni organizzazione scolastica.

Clienti del tutto particolari, e tra loro può succedere che qualcuno coltivi un odio profondo, per anni, celandolo a tutti. Un odio alimentato da una predisposizione genetica, o da esperienze traumatiche, o ancora dalla combinazione letale di entrambe.

Quello degli school shooters è un problema che dobbiamo imparare a conoscere, perché da anni le esplosioni di una furia omicida non riguardano più solo i campus americani.

School shooting

Anche se la gran parte delle stragi a scuola sono commesse da allievi o ex allievi, per parlare di “school rampage”, o di “school shooting”, non contano le caratteristiche dell’aggressore, e nemmeno quelle delle vittime.

Uno “school shooter” è semplicemente chi varca l’ingresso di una struttura scolastica e ne attacca gli occupanti, utilizzando armi da fuoco, ma anche ordigni esplosivi o incendiari.

Tanto che il protagonista dell’episodio più grave mai capitato nella storia, non è stato uno studente, ma un dirigente scolastico.

Il fenomeno, oggi

Al di là delle definizioni e dei precedenti storici, negli ultimi anni il fenomeno dello school shooting ha visto un preoccupante aumento non solo nel numero dei casi, ma nell’efferatezza e nell’apparente assenza di motivazioni.

Dagli inizi del secolo, gli episodi registrati negli Stati Uniti sono stati più di duecento, ma ancor più inquietante è il fatto che le stragi non sono più limitate agli USA, ma avvengono in tutte le parti del mondo.

In Europa, massacri nelle scuole sono accaduti in Germania, in Bosnia, in Olanda e Svezia; perfino la tranquilla Finlandia è balzata agli onori delle cronache, per due storie spaventose capitate tra il 2007 e il 2008.

Anatomia di una strage

Nella quasi totalità dei casi, chi commette una strage scolastica appartiene al sesso maschile, e solo un quarto degli episodi viene contenuto senza che vi siano vittime.

Nel 60 % dei casi, l’attacco viene portato durante le ore di lezione, il 22 % prima dell’inizio ed il restante dopo la fine dell’attività didattica.

Nell’80% degli eventi, lo shooter agisce da solo, e in circa il 50 % si porta più di un’arma per colpire.

In più della metà dei casi, il bersaglio è poi rappresentato da insegnanti o dal personale amministrativo, anziché da altri studenti, e sempre nel 50% dei casi l’aggressore ha progettato di colpire più di un soggetto.

Ciascun killer ha poi chiaro in mente il suo bersaglio, anche se talvolta è difficile comprendere quale sia; la scelta può infatti riflettere bisogni psicologici del tutto personali, più o meno consapevoli e più o meno patologici.

In ogni caso, il bersaglio può essere primario, secondario o ancora “collaterale”.

Il bersaglio primario è quello che riveste la maggior importanza per il giovane, che pianifica la propria azione e colpisce; a cadere è allora il compagno che lo ha preso in giro, oppure l’insegnante che lo ha sbeffeggiato davanti alla classe.

Lo shooter è determinato ad agire anche se altri, estranei al suo odio, rischiano d’essere coinvolti; è peraltro possibile che il suo attacco preveda più bersagli primari.

La vittima secondaria non è invece determinante nella scelta del luogo e del momento dell’aggressione; può essere colpito ed ucciso al posto dell’obbiettivo primario, nel momento in cui questi, per un imprevisto, non sia disponibile; a cadere sarà allora il preside per un docente, e al posto del compagno di banco, i suoi amici.

Quanto alle le vittime collaterali, si tratta purtroppo di innocenti che si sono trovati al posto sbagliato, nel momento sbagliato.

Identikit di uno school shooter

È pressoché impossibile Identificare il potenziale autore di una strage (…). Per questo la ricerca si è concentrata sul profilo dello studente a rischio, ma anche in questo caso i risultati sono stati deludenti; perché non è per nulla semplice cogliere la rabbia, il senso di rivalsa che si trasforma in odio e in bisogno di vedetta.

Sono tante le ragioni per cui certi ragazzi non sanno controllare la collera, ma la principale deriva dal loro senso di inadeguatezza, di impotenza e di insicurezza.

Si sentono impauriti, indifesi, spesso depressi, ma in questo condividono le stesse emozioni della gran parte dei coetanei.
La differenza sostanziale sta nell’intensità con cui le vivono.

È possibile sostenere che un gran numero di adolescenti arrabbiati nasca e cresca in ambienti poveri e disagiati, in famiglie disgregate, con genitori separati o altamente conflittuali; ma, ovviamente, questo non è sempre vero.

Quello che invece è certo è che alcuni ragazzi finiscono per sviluppare una vera e propria “dipendenza” dalla rabbia, proprio come accade con l’alcol, la cocaina, o altre droghe.

Non si tratta di un paragone azzardato, perché l’effetto di “sballo” prodotto dalle sostanze d’abuso è simile alla carica di energia che accompagna un’esplosione di rabbia; dalla dipendenza all’assuefazione il passo è breve, così le crisi non solo continuano, ma si intensificano per gravità e frequenza.
Ma la “dose” non basta mai.

Il National School Safety Center, ha comunque provato a elencare una serie di caratteristiche, presenti con maggior frequenza in un probabile shooter.

Per l’NSSC, il candidato a commettere una strage ha una storia di improvvise e incontrollate esplosioni di rabbia, durante le quali ricorre agli insulti e alle minacce.

Ha avuto problemi di disciplina, sia nella comunità che a scuola, dove è stato richiamato, sospeso o espulso.
Gli si conosce una passione per le armi, i dispositivi incendiari e gli esplosivi, e ha portato in precedenza con sé armi a scuola.

Non ha sorveglianza o controllo, né riceve supporto dai genitori o da figure adulte di riferimento; anzi, spesso è stato testimone o vittima di abuso o maltrattamento domestico.

Quando si trova in difficoltà, tende ad attribuire ad altri la colpa, e a scuola è stato vittima o autore di atti di bullismo.

Fa parte di gruppi o bande antisociali, oppure sta al margine del proprio gruppo di pari, con pochissimi o nessun amico.

Appare spesso triste, o mostra bruschi cambiamenti d’umore; ciò l’ha portato a comportamenti autolesivi e tentativi di suicidio, oppure all’abuso di alcol e droghe.

Come è facile notare, le difficoltà elencate presentano due problemi: sono innanzitutto generiche, e comuni a molti adolescenti; e poi non sono sempre intercettabili.

(…)

Davanti alla difficoltà di predire, la scelta è obbligata: anziché identificare lo school shooter come un elemento a sé, la miglior strategia consiste nel riconoscere e affrontare la violenza all’interno della scuola, senza eccezioni e non limitandosi agli episodi più eclatanti.

È infatti nel sommerso delle piccole prevaricazioni quotidiane che si alimenta l’odio di chi, per struttura, non possiede gli strumenti per un efficace adattamento relazionale.

Prevenire, non prevedere

Nella strada della prevenzione va così intesa la strategia in tredici passi che Nicholas Morell ha proposto dalle pagine di Campus Safety, la rivista di riferimento del settore.

Il primo punto riguarda lo sviluppo di una chiara policy aziendale che va condivisa con gli studenti; tutti devono sapere a chi rivolgersi in caso di minaccia, e ogni anno vanno organizzati incontri dove fornire esempi di situazioni in cui va chiesto aiuto al personale della scuola.

Il secondo momento prevede la creazione di un clima scolastico positivo, dove la comunicazione sia semplice e rapida, e gli studenti supportati da adulti in cui riporre fiducia.

Occorre poi esercitare un adeguato controllo degli studenti, soprattutto per chi ha mostrato repentine modificazioni del comportamento.

Il quarto aspetto riguarda la possibilità per i ragazzi di segnalare minacce, episodi di violenza, ma anche semplici preoccupazioni, utilizzando più canali di comunicazione; come mail, linee telefoniche dedicate o una semplice cassetta per le lettere; dev’essere prevista anche la possibilità di segnalazioni anonime.

Una scuola tuttavia non è una prigione, e i presidi di sicurezza devono essere abbastanza flessibili da non intralciare la didattica.

Ma se le sole misure di prevenzione non possono prevenire ogni attacco, nondimeno costituiscono un valido deterrente; motivo per cui è opportuno che ogni scuola abbia un’entrata centrale con un controllo dei visitatori, un badge per gli ospiti e per lo staff, porte apribili dall’interno in caso di emergenza, un valido sistema di videosorveglianza oltre che personale formato alla sicurezza.

Il sesto punto prevede lo scambio di notizie sugli studenti tra insegnanti delle classi e dei cicli scolastici successivi, per non perdere informazioni importanti, mentre il settimo riguarda l’opportunità che il personale conosca a fondo i ragazzi; e perché ciò avvenga, per creare un clima di fiducia, è importante ritagliare momenti di scambio formale e informale tra studenti e adulti.

Bisogna poi essere sempre preparati ad affrontare gli scenari peggiori, come lo scoppio di un incendio, un evento climatico eccezionale, una sparatoria; il modo migliore per riuscirci è la partica delle simulazioni, aggiungendo elementi nuovi ad ogni esercitazione.

Il nono passaggio prevede la formazione dei “first responders”, gli specialisti chiamati a intervenire per primi sulla scena. Il personale di emergenza deve possedere una perfetta conoscenza degli edifici, dei punti di entrata e di uscita, e del sistema di comunicazione attivo tra le diverse strutture della scuola. Durante la sparatoria della Columbine School, ad esempio, l’intervento degli addetti alla sicurezza fu condizionato dal malfunzionamento delle ricetrasmittenti, il cui segnale era bloccato dalle pareti in cemento armato della struttura.

Nell’eventualità di una minaccia o di un attacco, occorre poi avere sempre un piano di crisi completo, che permetta di valutare il rischio, cooperare con il personale di emergenza, informare lo staff, gli studenti, e successivamente i loro familiari e i media.

I media, in particolare, devono essere gestiti; nel loro bisogno di coprire le notizie, durante e dopo un incidente, la stampa e le televisioni possono essere spietati. Occorre essere preparati in anticipo, in modo che le informazioni fornite non si prestino a sensazionalismi, e soprattutto a interpretazioni.

Fornire un servizio di counseling dopo un episodio di school rampage, rappresenta il dodicesimo punto; chi sopravvive all’aggressione, si tratti di uno studente o di un membro dello staff, può infatti andare incontro a problemi emotivi; non sono rari i casi di disturbo post traumatico da stress, i sensi di colpa, i tentativi di suicidio e l’abuso di sostanze.

Il tredicesimo e ultimo passaggio consiste nel far tesoro dell’esperienza traumatica, nell’esaminare e discutere gli eventi, le decisioni, i ruoli e gli errori; ripercorrere ogni passaggio, anche se doloroso, è infatti lo strumento migliore per  prevenire futuri episodi.

Campanelli d’allarme

Anche se non è possibile stendere un profilo dello school shooter, anche se la predizione deve cedere il posto alla prevenzione, esistono campanelli d’allarme cui prestare attenzione: i lavori dell’FBI e del Departement of Education hanno concluso che nei tre quarti dei casi, prima del suo attacco, lo shooter parla con qualcuno delle sue idee e dei suoi progetti.

Raramente l’aggressione è impulsiva, ma viene pianificata con cura, per settimane o mesi; l’odio e il desiderio di vendetta spingono il giovane a recuperare armi da fuoco, a costruire ordigni artigianali. E in questo, spesso, finisce per chiedere informazioni o aiuto, segnali che possono essere notati e raccolti, prima dell’irreparabile.

Anche Gavin De Becker, uno dei maggiori esperti mondiali di safety & security, insiste sull’esistenza di indicatori di pericolo; si tratta di segnali sempre presenti ma spesso sottovalutati o del tutto ignorati (…).

Le armi?

Per Wendy Roth, docente di sociologia alla British Columbia University, e per i suoi colleghi, occorrono cinque condizioni perché si verifichi l’attacco a una scuola: l’aggressore si percepisce come marginale al mondo, soffre di un problema psicosociale; è influenzato e spinto all’attacco da qualche schema di comportamento; evita i servizi dedicati ai problemi in adolescenza, come i meeting con gli insegnanti o lo sportello dello psicologo.

E, da ultimo, l’aggressore ha accesso alle armi.

In un lavoro pubblicato nel giugno 2015, Sherry Towers e altri docenti della Arizona State University, hanno preso in analisi il fenomeno delle stragi negli USA, per scoprire che la frequenza degli omicidi di massa legati all’impiego di armi da fuoco è di circa un episodio ogni quindici giorni, e sale ad una volta al mese nel caso in cui avvenga in una scuola.

Ma non del punto più importante; gli autori hanno invece concluso che la prevalenza di armi da fuoco detenuta in uno stato è significativamente associata all’incidenza di school shooting e di mass shooting in quello stesso stato.

Qualcuno, tra i fan del secondo emendamento, quello che garantisce il possesso di un’arma a tutti i cittadini americani, sosterrà che non tutti i ricercatori sono d’accordo con le conclusioni della professoressa Towers. Magari cercherà sostegno nelle storie finlandesi.

Peccato che la legislazione di Helsinki sulle armi da fuoco sia assai simile a quella di Las Vegas, New York o Los Angeles.

La disponibilità di armi e le stragi: storia di un rapporto negato

Per comprendere il fenomeno degli omicidi di massa, gli Stati Uniti offrono scenari di studio ideali, non solo per il numero e la frequenza delle stragi, ma per l’impiego spropositato di armi utilizzate dai killer. 

Forti di una popolazione di 323 milioni di abitanti, gli USA guidano infatti la classifica dei paesi più “attrezzati”, con la bellezza di 357 milioni di armi “legalmente detenute”, senza quindi contare le pistole e i fucili non registrati; al secondo e terzo posto della graduatoria, ampiamente distaccate, seguono la Serbia e lo Yemen.

E se il numero delle famiglie che possiedono un’arma è passato dal 51 per cento del 1978, al 31 per cento di oggi, ogni nucleo ora ne ha in casa il doppio di un tempo. Quanto ai controlli sugli acquirenti, lo scenario è incredibile: solo l’1 per cento di chi vuole comperare un’arma si vede rifiutare la richiesta; ma basta presentarsi a qualunque fiera del settore, per portarsi a casa pistole e fucili senza alcun limite.

In trentatré stati dell’Unione, per portare un’arma non è necessaria una licenza, e senza una registrazione è impossibile tracciarne i passaggi di mano; in ventisette stati vige poi la “Shoot First Law”, la legge “spara per primo”, che prevede la possibilità di aprire il fuoco in luoghi pubblici per difendersi, anche se non si è l’obiettivo diretto dell’attacco.

Il costo sociale della diffusione di armi negli USA è altissimo, se si pensa che nel 2016 più di 100 mila persone sono state ferite da un’arma da fuoco, con una spesa sanitaria per le cure pari a 2,8 miliardi di dollari.

Ma allora perché non si riesce a governare un fenomeno tanto insensato, perché nessun presidente degli Stati Uniti ha mai potuto limitarlo?
La risposta sta ovviamente nei fatturati: il giro d’affari legato al mercato delle armi rasenta infatti i 50 miliardi di dollari l’anno!

Non si tratta tuttavia di interessi solamente economici, perché il retaggio culturale gioca un ruolo essenziale nel giustificarne la diffusione e l’impiego. La convinzione che siano utili alla sicurezza della nazione, e come tale vadano protette dalla Costituzione, affonda le radici al tempo delle colonizzazioni europee, quando un’arma permetteva di difendere la propria terra e la propria famiglia dagli eserciti di occupazione.

Tipico sostenitore di un’arma per ogni cittadino, è Chris Bird, autore di “Surviving a Mass Killer Rampage”, “Sopravvivere alla furia di un assassino di massa”. Sfogliando il suo libro, basta poco per capire dove Chris voglia andare a parare, a cominciare dal sottotitolo: “Quando i secondi contano, la polizia è ancora minuti lontana”.

Anche le citazioni in apertura non sono da meno: si parte con Theodore Roosveldt: “In ogni momento in cui si deve prendere una decisione la miglior cosa da fare è fare la cosa giusta, poi la cosa sbagliata, e la peggior cosa è non fare nulla.” si prosegue poi con Wayne LaPierre, della National Rifle Association, che giocando sul confronto good guys/bad guys sostiene: “L’unica cosa che può fermare un cattivo con un fucile, è un buono con un fucile”; e si termina con Greg Crane, titolare di un centro di addestramento e annesso poligono: “Nascondersi sotto un tavolo e pregare perché arrivino i soccorsi non è la miglior ricetta per sopravvivere.”.

Una posizione in aperta polemica con i programmi federali, dove in presenza di un active shooter, si consiglia la strategia in tre passaggi detta “Run, hide, fight”; che in pratica vuol dire: se riesci scappa, se non ce la fai nasconditi, e solo se non ti è possibile nemmeno questo, allora combatti.

Il manuale di Chris Bird illustra i limiti dell’intervento delle Forze dell’Ordine nell’ episodio della Columbine e nel massacro della Virginia Tech, indicando il punto di svolta nella tragedia della Sandy Hook Elementary School, dove, sostiene Bird, per la prima volta si è capito che il modo migliore per difendere le scuole è quello di armare bidelli e insegnanti.

E in questa direzione, dedica un capitolo all’esperienza dell’Ohio, dove sono stati attivati campus di formazione per docenti; qui, per oltre una settimana, ci si addestra al tiro dinamico in mutevoli scenari di aggressione.

Naturalmente il nostro autore ed esperto di sicurezza ne ha per ogni situazione, compresa la minaccia terroristica, con cui conclude il suo lavoro, poggiandosi al discorso che Winston Churcill tenne alla Camera dei Comuni il 13 maggio 1940:

“Se chiedete quale sia il nostro obiettivo vi rispondo con una parola: la vittoria, la vittoria ad ogni costo, la vittoria malgrado ogni terrore, la vittoria per quanto lunga ed aspra possa essere la via; perché senza vittoria non vi è sopravvivenza. Bisogna rendersi conto: nessuna.”

Con un simile preambolo, la ricetta di Chris Bird, purtroppo condivisa da milioni di americani, è estremamente semplice: per fronteggiare le aggressioni terroristiche bisogna contrattaccare. Scappare o nascondersi non ferma un assalto, e comunque ci saranno altri bersagli e altri morti. Gli attacchi avranno fine solo quando i terroristi saranno affrontati con l’uso della forza, e chi può farlo al meglio non sono le forze di polizia, ma chi è presente sulla scena e ha i mezzi per combattere. Il bravo cittadino armato e pronto a sparare! Quello che Bird non dice, e non dirà mai, è che per essere pronti, per fare la differenza, per trasformarsi in eroi, è il caso di iscriversi ai corsi a pagamento che lui e i suoi collaboratori tengono in tutti gli Stati Uniti.

Prevenire, dove possibile

Ben diverse sono le proposte che muovono dall’emergenza dei rampage killer e suggeriscono le più efficaci strategie di prevenzione.

Come quelle riportate da Campus Safety, una delle più apprezzate riviste del settore, e da anni si occupa di sicurezza nelle scuole, negli ospedali, e in genere nei posti di lavoro.

Ecco allora i venti passaggi più opportuni per intercettare un pericolo e impedire una tragedia, da applicare in modo integrato e non focalizzato su singoli aspetti isolati:

• Valutare e gestire le minacce in modo multidisciplinare, coinvolgendo security privata, forze dell’ordine e specialisti della salute mentale.
• Effettuare uno screening visivo per la ricerca di armi, addestrando il personale a dove guardare e quali comportamenti specifici osservare in un soggetto che occulti un’arma.
• Riconoscere l’insieme delle condotte incongrue alla situazione, per tempistica e contesto.
• Attivare un sistema di accoglimento delle comunicazioni anonime, ventiquattro ore su ventiquattro. Attivato in alcuni campus già dal 1990, si è mostrato uno dei presidi più utili per raccogliere informazioni determinanti.
• Espellere dal campus ogni soggetto potenzialmente pericoloso, bloccandone l’accesso nel caso si ripresenti dopo l’allontanamento.
• Occuparsi di prevenzione già nella progettazione degli ambienti, influenzando il potenziale aggressore ancor prima che agisca; ciò è possibile attraverso il concetto di sorveglianza spontanea, massimizzando la visibilità, controllando gli accessi e assicurando rinforzi territoriali naturali.
• Stabilire una buona sicurezza perimetrale, capace non solo di impedire accessi non autorizzati, ma di ostacolare perfino il sopralluogo utile alla pianificazione di un attacco.
• Attuare un robusto screening dei visitatori, con precisi requisiti che ne regolamentino l’accesso.
• Posizionare vetri di sicurezza e antiproiettile nelle zone chiave.
• Selezionare, addestrare ed attrezzare il personale di sicurezza e delle forze dell’ordine.
• Monitorare i social media. Non è raro scoprire segnali di imminente pericolo attraverso notizie postate in rete. A questo proposito sono stati compiuti grandi sforzi per sviluppare software in grado di intercettare le comunicazioni a contenuto minaccioso.
• Utilizzare il lavoro di intelligence su informazioni raccolte da specifici database multiagency, che permettano il monitoraggio di soggetti o gruppi potenzialmente pericolosi.
• Stimolare la più ampia condivisione all’interno e tra le varie forze di sicurezza, non limitandola al semplice scambio di file di informazioni.
• Nell’ambito della condivisione, coinvolgere le polizie locali addette al traffico nelle zone adiacenti al campus, affinché rappresentino un ulteriore filtro di sicurezza.
• Condurre un’appropriata analisi sui precedenti di impiegati e volontari; ad esempio, alcuni soggetti implicati in attacchi pianificati ai servizi postali, erano stati in passato oggetto di segnalazione o responsabili di comportamenti inopportuni sul lavoro, prima d’essere licenziati.
• Utilizzare cani addestrati, condotti da personale preparato; le attuali pratiche di formazione permettono di riconoscere minime tracce di armi ed esplosivi. Ciò è particolarmente utile durante eventi con grande partecipazione di pubblico, come concerti, incontri sportivi e cerimonie di premiazione.
• Installare videocamere con software di riconoscimento facciale; in questo settore la tecnologia sta sviluppando strumenti sempre più nuovi e potenti. Il presidio ha particolare efficacia nel caso si possegga già l’immagine di un soggetto potenzialmente pericoloso che si presenti nelle vicinanze di un edificio dal quale è stato allontanato.
• Utilizzare le videocamere di riconoscimento delle targhe automobilistiche, come avviene per le zone a traffico limitato; ciò consente l’attivazione di un segnale d’allarme nel caso un individuo sotto attenzione in avvicinamento.
• Posizionare metal detector nei punti d’accesso della struttura.
• Attivare un robusto sistema di rilevazioni anti-intrusione che informi immediatamente di ogni accesso non previsto, non autorizzato e potenzialmente pericoloso.

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