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13.08.2019 - 16:540
Aggiornamento: 14.08.2019 - 13:27

L'ippopotamo al Festival: Quegli svizzeri che si convertono all'islam

"Ci siamo infilati ne “La Sala” attratti dal titolo e dal tema di “Shalom Allah”, un documentario sui percorsi spirituali di alcuni cittadini svizzeri che hanno deciso di entrare nell’islam..."

*Di Claudio Mésoniat

Al festival c’è anche una sezione che si intitola “Semaine de la critique” e che presenta documentari solitamente del tutto intelligibili anche ai “non critici” nonché spesso molto interessanti. Da qualche anno la Semaine è guidata del critico cinematografico della RSI Marco Zucchi, che non trascura mai le produzioni svizzere di valore.

Domenica, calpestando qualche piede nell’oscurità, ci siamo infilati ne “La Sala” attratti dal titolo e dal tema di “Shalom Allah”, un documentario sui percorsi spirituali di alcuni cittadini svizzeri che hanno deciso di entrare nell’islam. L’autore, David Vogel, è un giornalista zurighese che va ringraziato cordialmente per aver abbandonato il solito approccio giornalistico al fenomeno religioso come tale e all’islam in particolare. Un bel giorno, dopo essersi sorbito l’ennesimo talk show televisivo SSR a base di tiro alle freccette sul bersaglio sorridente e indisponente del buon Nicolas Blancho, icona dell’islam svizzero ad uso mediatico, verbalmente intransigente e provocatorio quanto serve, Vogel si è detto “basta!”.

Si è messo al lavoro seriamente per capire le ragioni di chi (come lo stesso Blancho) si trasferisce dalle boccheggianti tradizioni occidentali, cristiane e illuministe, alla rampante religione di Maometto, concentrandosi non tanto sui casi rumorosi (ma significativi, intendiamoci) dei “foreign fighters”, i giovani che avevano raggiunto l’ISIS per combattere in Medioriente (un’ottantina quelli con passaporto svizzero), ma su persone comuni, senza troppi grilli per la testa, attratte da quella religione dentro un cammino di ricerca esistenziale. Un’indagine, quella di Vogel, che gli è costata la bellezza di sette anni di lavoro. Perbacco. E come mai?

Vogel non ha passato il tempo a rovistare su internet, tra le chat “sensibili” o nella bibliografia sterminata dei colleghi che hanno trattato, per solito da perfetti incompetenti, le “grandi questioni aperte dell’islam”; neppure si è buttato, ci sembra, nella foresta dei commenti coranici (cosa di per sé utile). Si è attaccato alle persone che incontrava. Le ha accompagnate, conquistando la loro fiducia. E la lunga durata del percorso, anche se non fosse stata messa in programma, si è rivelata l’arma decisiva, dal punto di vista giornalistico e anche artistico. Un’arma di straordinaria efficacia.

Dentro quella che possiamo ben chiamare un’amicizia (i protagonisti sono venuti, anche con lunghi viaggi, a farsi conoscere e interrogare dal pubblico al termine della proiezione) il regista ha potuto entrare in profondità nelle loro storie e seguire questi “maomettani delle Alpi” su un tratto di strada che ci permette di scoprire i necessari passaggi di verifica cui ogni fede religiosa deve in qualche modo sottoporsi. Verifica dentro le circostanze quotidiane della vita: i rapporti con i figli che crescono e dovranno fare le loro scelte, anche religiose, quelli della coppia che pure deve crescere tra molti scossoni, o quelli con il parentado e i vicini di casa, i nessi con il lavoro e i colleghi, quelli con la politica, fino agli interrogativi che la ragione deve continuamente porre alla fede.

Prendiamo quest’ultimo aspetto, ad esempio. Aicha, una giovane studentessa zurighese, aveva  incominciato a interessarsi a questo “islam di cui tutti parlano” attraverso lunghi viaggi in internet. Si appassiona, si inserisce in relazioni con musulmani del posto che le permettono di comprendere –ci racconta- come l’islam sia compatibile con la cultura e le istituzioni svizzere. Apre un suo sito web dove, intabarrata nel suo velo, sermoneggia sorridente. L’entusiasmo dei neoconvertiti, vien da dire. Quando il regista la conosce è già fervente musulmana da un paio d’anni. Ma dopo alcuni mesi dall’inizio delle riprese la ragazza incomincia a interrogarsi su certi aspetti del Corano. Nascono domande che lei non vuole censurare. Intraprende una revisione che la porterà prima al distacco dall’islam e poi a riprendere contatto con il cristianesimo. Anche il legame con Vogel e la sua équipe si allenta.

Si intensifica invece passo dopo passo il legame con un altro giovane, Johan, vodese, sportivo, approdato all’islam per scoprire -guarda un po’- chi fosse quel Blancho che il mainstream media elvetico aveva reso un totem. Aderisce all’islam. Con Vogel è molto diffidente durante i primi mesi, la parola “giornalista” evoca in lui l’immagine di tranelli disseminati ovunque per mettere a priori l’islam in cattiva luce. Non gli permette di filmare l’interno della biblioteca dove, in Francia, fa una trasferta di 100km per procurarsi un volume. Poi il clima si sgela. Dopo qualche anno il regista sarà invitato a Londra dove Johan si sposa con una donna araba di Dubai. Laggiù si trasferiranno a vivere insieme giacché in un Paese arabo, a loro dire, la donna è più facilitata ad assumersi tranquillamente il ruolo che l’islam le assegna.

Più complessa la vicenda di una coppia bernese (con radici italiane), i Lo Manto, approdata all’islam dopo una dolorosa separazione di lei e dei tre figli dal primo marito. Durante una vacanza in Turchia basta il canto di un muezzin, pare, per stregare entrambi e introdurli, quasi magicamente, nell’orbita di Maometto. Ma non ci sarà più magia nelle prove cui la loro fede sarà sottomessa dopo la conversione, bensì una paziente fedeltà alla preghiera coranica, insieme a casa tutte le mattine prima del lavoro, e la tenacia di affrontare giorno dopo giorno i problemi ordinari di un’ordinaria famiglia svizzero tedesca. Poco ordinaria, in verità, la modalità con cui lui verrà allontanato dal suo lavoro di poliziotto assegnato alla sicurezza delle ambasciate: la conversione all’islam ha intaccato la fiducia dei suoi superiori. Il regista ha molta cura nel documentarci il clima di libertà che si respira nella famiglia Lo Manto, specie nell’educazione dei figli. Niente velo per la figlia maggiore, che beve alcol e frequenta le discoteche; velo che invece la madre, donna graziosa, non si toglie mai, pur avendo cura di alzarlo sempre un po’ sopra la fronte, quel tanto che basta per mostrare una bella ciocca di capelli. A dire proprio tutto, al termine del percorso giunge l’età in cui la ragazza deve decidere se essere ammessa ufficialmente all’islam. Pronuncia il suo “sì” alla presenza dei genitori e al cospetto di un imam che si accerta delle sue convinzioni. Curioso; l’imam è sempre lui, l’onnipresente Nicolas Blancho. Cacciato dalla porta, il demonietto rientra dalla finestra?

Giusto per non essere troppo encomiastici, mettiamo per concludere un paio di punti interrogativi su questo prezioso documentario, che in realtà cela una struttura narrativa  molto abilmente costruita. 1) Senza venir meno al proposito di entrare, accompagnare, capire l’islam vissuto dei protagonisti, non sarebbe stato opportuno affrontare espressamente, dentro il bel clima di amicizia e confidenza stabilitosi con il regista, alcuni nodi inaggirabili dell’islam, come quello del ruolo sottomesso della donna o quello della violenza verso l’infedele, così come li troviamo iscritti e prescritti nel Corano? 2) Non ci ha del tutto convinti l’intreccio delle tre storie narrate con la confessione autobiografica del regista-narratore alle prese con il proprio passato religioso ebraico (abbandonato, riesaminato, riabbandonato). Era proprio necessario?

 

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