Nidesh Lawtoo
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29.01.2018 - 14:500
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

Dimmi chi imiti e ti dirò chi sei....L'affascinante lavoro del mesolcinese Nidesh Lawtoo tra letteratura, filosofia e cinema: "L’imitazione è così fondamentale che non ci si pensa, come il famoso pesce nell’acqua"

Intervista al professore dell'Università di Berna sul progetto Homo Mimeticus: "Dalla nascita in poi il neonato risponde a un sorriso con un sorriso, e gli adulti ridono o sbadigliano quando lo fanno gli altri. Anche le emozioni, sia positive che negative, hanno un potere di contagio che genera un’imitazione inconscia, soprattutto nella folla, ma non solo..."

di Sebastiano Caroni*

 

Da ormai diversi anni Nidesh Lawtoo, nato e cresciuto in Mesolcina, sta portando in giro per il mondo la sua passione per la letteratura, la filosofia, e il cinema. Dopo aver conseguito una laurea in lettere a Losanna alla fine degli anni Novanta, ha ottenuto il dottorato in letteratura comparata all’Università di Washington. Ha poi insegnato letteratura inglese all'Università di Losanna (2009-2013), ed è stato visiting scholar alla Johns Hopkins University di Baltimora (2013-2016) con una borsa del fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica.

 

Di recente, Nidesh è stato nominato professore presso il dipartimento di inglese dell’Università di Berna. Il suo interesse per la ricerca è stato inoltre premiato con l’ottenimento di una prestigiosa borsa di ricerca del European Research Council (ERC) che gli permetterà di sviluppare, nei prossimi anni, un suo progetto personale. Dimmi chi imiti e ti dirò chi sei - questa in sintesi è la formula che riassume la tesi di Homo Mimeticus, un progetto che coinvolge discipline come la letteratura, la psicologia, la filosofia, e che riserva un occhio di riguardo anche al cinema. Abbiamo incontrato Nidesh per conoscere più da vicino il suo progetto.

 

Nidesh, qual è il tema del tuo progetto di ricerca?

Il mio progetto porta sul tema dell’imitazione, o mimesis, un tema chiave per capire il comportamento umano. L’imitazione è così fondamentale che non ci si pensa, come il famoso pesce nell’acqua. Imitiamo spesso inconsciamente, senza rendercene conto. Dalla nascita in poi il neonato risponde a un sorriso con un sorriso, e gli adulti ridono o sbadigliano quando lo fanno gli altri. Anche le emozioni, sia positive che negative, hanno un potere di contagio che genera un’imitazione inconscia, soprattutto nella folla, ma non solo.

 

È un tema che concerne direttamente anche il cinema, vero?

Verissimo. Il cinema offre una rappresentazione (copia) della realtà ma il suo potere mimetico (e affettivo) viene da vari elementi interni al contenuto del film (l’eroe, la storia), dal medium (movimento, immagine, suono), ma pure dalla sala cinematografica. Nella penombra della sala, ci si rilassa con gli occhi fissati sullo schermo, entrando in uno stato alterato di coscienza in cui la finzione diventa magicamente realtà, le emozioni di quelle ombre diventano le nostre emozioni. L’inconscio mimetico, nozione che approfondisco in un libro intitolato The Phantom of the Ego (2013; una traduzione italiana è in corso), descrive appunto questo fenomeno in cui si ha la possibilità, anche solo per alcune ore, di sentirsi altro, di vivere le avventure altrui, e di emozionarci come i personaggi che vediamo sullo schermo.

 

L’inconscio mimetico agisce a nostra insaputa?

Quando si pensa all’inconscio si riduce molto spesso il fenomeno all’inconscio freudiano, e quindi all’idea di una divisione chiara tra coscienza e inconscio basata sulla repressione sessuale. Ma Freud non è stato il primo a parlare d’inconscio, e certamente non l’ha “scoperto”. Schopenhauer, Nietzsche, ma anche Pierre Janet, Hippolyte Bernheim e molti altri psicologi che si stanno attualmente riscoprendo erano attenti a un tipo d’inconscio corporale, ipnotico, basato su vari livelli di coscienza in cui l’ego ha tendenza ad imitare gli affetti degli altri. Il cinema, che nasce in questo periodo, ad inizio secolo fa spesso allusione all’analogia tra l’ipnotista e l’ipnosi cinematografica. Si pensi a dei classici dell’espressionismo, come Il gabinetto del dottor Caligari e la serie su Dr. Mabuse, di Fritz Lang, negli anni 1920. In riferimento a questi e ad altri esempi io parlo di inconscio mimetico, per differenziarlo da quello freudiano. Nell’inconscio mimetico l’ego non è centrato sui propri desideri o sogni ma presuppone una soggettività aperta ad effetti di contagio. È un inconscio relazionale, corporale, e affettivo. Le esperienze di massa ne sono un esempio, ma anche il cinema e il teatro sono esperienze in cui l’ego si sente attraversato da esperienze che non vengono da desideri interni e repressi, come sosteneva Freud, ma provengono dall’ambiente circostante, soprattutto dai personaggi che si ammirano - modelli o eroi ma non solo. Se l’inconscio freudiano è teatrale ed è basato su una tragedia famigliare - Freud si ispira a una tragedia greca, L’Edipo Re di Sofocle, relativa a una costellazione famigliare ben definita (il padre e la madre) - direi che l’inconscio mimetico invece è cinematografico e registra la fluidità degli affetti - tutti gli affetti, non solo il desiderio - che aprono l’ego agli altri umani, ma pure agli animali, e alla natura. Un inconscio aperto al mondo, insomma, come il cinema.

 

Quando pensiamo al cinema pensiamo spesso alla finzione, all’immaginazione, alla fantasia. Se la finzione si ispira alla realtà, l’imitazione generata dal cinema riporta, in un certo senso, la finzione nella realtà. Come funziona questo circolo?

Sì, effettivamente la traduzione di mimesis con rappresentazione ha avuto tendenza a contenere il fenomeno in una cornice estetica (letteraria, cinematografica ecc.) - si pensi al realismo. Ma come dicevo non bisogna dimenticare che gli spettatori sono pure mimetici e lo sono in un senso comportamentale, psicologico, e affettivo. È così che gli antichi - Platone in particolare - pensano la mimesis, un termine che viene dal teatro (da mimos, attore) e che include l’imitazione degli attori ma anche quella degli spettatori. Il cerchio che si disegna è messo in gioco da questa doppia concezione di mimesis (rappresentazione e imitazione). Se tracciamo il movimento vediamo che un’opera d’arte, diciamo un film, rappresenta una scena che imita la realtà (una scena d’amore o di guerra, per esempio) e che, in seguito, una volta proiettata sul grande schermo, può servire da modello che gli spettatori imitano, spesso inconsciamente. L’idea può sembrare strana perché viviamo in una cultura post-romantica che promuove l’originalità e che ci porta a scordare l’imitazione. Ma l’imitazione è un fenomeno così diffuso, che è difficile da reprimere. Proviamo a fare un piccolo esperimento: Pensiamo ad esperienze molto intime, personali, e quindi, in teoria, anti-mimetiche e originali. Il primo bacio, per esempio. Siamo proprio sicuri che le nostre mosse siano state poi così originali? O stavamo forse più o meno consciamente imitando i grandi modelli del cinema, della TV e, in generale, dell’arte? Lascio rispondere individualmente ai lettori…

 

Il tema della mimesis nel cinema (alla televisione, nei videogiochi, ecc.) ci porta verso delle questioni estremamente attuali ma anche decisamente spinose. Mi riferisco al binomio cinema-violenza. Le immagini violente contenute nei film (alla TV, nei videogiochi, ecc.) generano a loro volta comportamenti violenti?

Questa è una domanda molto complessa su cui sto lavorando adesso. A livello generale, mi riferisco a due tradizioni. La tradizione platonica che dice: facciamo attenzione a guardare spettacoli violenti, perché avranno un impatto sulla formazione della soggettività, specialmente quella dei nostri bambini, ma pure degli adulti. In questo caso l’impatto della rappresentazione (teatrale, e ai nostri giorni anche cinematografica, del videogame o di internet) non si esaurisce nell’esperienza della rappresentazione, ma va oltre. Quindi per Platone uno spettacolo che mette in scena la violenza (pensiamo ad Achille nell’Iliade - o se preferite a Brad Pitt in Troy) genererà per contagio mimetico violenza nel pubblico che vi assiste. La seconda tradizione si rifà a Aristotele che, ricordiamocelo, era allievo di Platone. Aristotele ha invertito il modello platonico e ha utilizzato la nozione di katharsis o catarsi che si traduce spesso con purificazione o purgazione. Assistendo a una tragedia – dice in sostanza Aristotele – noi non riproduciamo in maniera mimetica quanto avviene sul palco ma siamo purificati degli affetti (paura, pietà) che la tragedia suscita in noi. La difficoltà con la teoria di Aristotele è che è molto difficile capire cosa intenda esattamente con katharsis - è un termine che continua a creare grattacapi tra gli specialisti dell’antichità. Quel che è chiaro è che per Aristotele non è la violenza che purifica, ma è l’organizzazione degli eventi all’interno della rappresentazione, la fabula, la struttura narrativa. L’esempio su cui Aristotele si basa è Edipo Re. Non è quindi un caso che la psicoanalisi, che all’inizio era basata sul “metodo catartico” ha fatto tanto per diffondere l’idea di catarsi nel grande pubblico ispirandosi all’esempio di Edipo. Di recente però (negli anni 90) le neuroscienze hanno “scoperto” i neuroni specchio, delle cellule del cervello che si attivano alla vista dei gesti e ci portano a riprodurli inconsciamente, una scoperta che avalla la teoria di Platone… Bisogna però essere cauti di fronte a questa questione, perché ci sono molti fattori in gioco, ma sono convinto che le finzioni hanno un potere formativo che agisce sul pubblico, nel bene e nel male. Dobbiamo dunque stare in guardia contro degli eccessi di violenza, specialmente nei giovani.

 

E un regista come Tarantino cosa direbbe in proposito?

Tarantino nega che ci sia una correlazione tra i suoi film e la violenza reale (ammetto che ho un debole per i suoi film, soprattutto i primi, quindi mi metti in difficoltà). Se considero per esempio Pulp Fiction (1994) - che ho visto per la prima volta nella cornice del Castel Grande a Bellinzona - con spirito critico, direi che la violenza non è fine a sé stessa ma è contenuta all’interno di una struttura formale complessa, che lui contestualizza, in maniera ironica, spesso intelligente, e sempre all’interno di un genere specifico. Se prendiamo un film più recente, come Django Unchained (2012), per esempio, vediamo che Tarantino riformula il genere degli spaghetti western, mettendo l’accento su un protagonista afro-americano (Jamie Foxx), e lo fa per criticare gli orrori della schiavitù (ancora un tabu in America) e il problema della vendetta. Insomma, c’è molto su cui riflettere in questi film. Non tutti hanno però l’occasione, i mezzi, o il tempo, per fermarsi a riflettere. In una pro-gun culture come quella degli Stati Uniti (dove ho vissuto per quasi 10 anni) in cui non è per niente complicato procurarsi un’arma da fuoco, dove l’educazione non è un bene accessibile a tutti, e in cui la povertà, la discriminazione razziale, le differenze di classe, ecc. sono molto marcate, i film di Tarantino potrebbero essere fraintesi e contribuire a produrre effetti indesiderati…


*giornalista - Aricolo pubblicato sulla rivista Cinemany (www.cinemany.ch)

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