La cronaca di Claudio Mésoniat dal Paese dei Cedri: "Impressionante vedere le bandiere di Hezbollah che salutavano Leone XIV mentre il corteo papale attraversa i quartieri sciiti di Beirut"

di Claudio Mésoniat - articolo pubblicato su ilfederalista.ch
Nel suo viaggio in Libano papa Leone è rimasto segnato dalla figura di Charbel Makhluf, uno dei più grandi santi moderni, vissuto nel Libano del XIX secolo e piuttosto conosciuto anche nel nostro Paese in virtù di alcune somiglianze con il patrono della Svizzera, san Nicolao della Flüe.
Eremiti entrambi ed entrambi noti soprattutto per le loro “opere miracolose”: nel caso di Nicolao, ancora in vita, la pacificazione dei Cantoni confederati ormai vicini –era il 1481- allo scioglimento del patto federale; nel caso di san Charbel, le centinaia di guarigioni prodigiose –anche ai giorni nostri e talvolta spettacolari- che indussero papa Francesco a soprannominarlo “il santo ospedale”.
A dominare le due personalità furono, in realtà, una profonda dimensione contemplativa e una straordinaria modestia e semplicità. Nel santo maronita, il tratto dell’umiltà era preminente: nell’unica immagine che ci è rimasta del suo volto –apparsa misteriosamente impressa sulla fotografia di un gruppo di monaci- e che ha ispirato gli innumerevoli ritratti del santo appesi in ogni dove sulle strade e nelle case del Libano, Charbel appare con le palpebre abbassate sopra gli occhi.
Nel segno dell'umiltà, si chiudono le quinte sul gossip
Sostando in preghiera alla sua tomba, sulle alture di Annaya, Leone è parso quasi immedesimarsi nell’umiltà di “quest’uomo che non scrisse nulla, che visse nascosto e taciturno, ma la cui fama si è diffusa nel mondo intero”. Quest’uomo che ha insegnato “la preghiera e il silenzio a chi vive nel rumore”, “la modestia a chi vive per apparire”, “la povertà a chi cerca le ricchezze”. “Sono tutti comportamenti contro-corrente”, ha concluso il Papa, “ma proprio per questo ne siamo attratti, come l’acqua fresca e pura per chi cammina in un deserto”.
Tutto questo –non solo ma anche- per dire, specie a molti colleghi nostri, che dobbiamo farcene una ragione: Robert Prevost è un uomo spirituale forte e se –come si legge sul blog Silere non possum- “il racconto del Papa diventa ‘noioso’, non è per l’assenza di contenuti, ma per l’impoverimento dello sguardo giornalistico”. Papa Leone "chiude le quinte del gossip e riapre la scena di ciò che il Successore di Pietro è sempre stato - e che molti cronisti avevano interesse a far dimenticare: un uomo di preghiera, paternità spirituale, conferma nella fede. Un Papa, non un opinatore a bordo pista”. E i miracoli?
Ai giovani il modello di san Charbel
I miracoli fioriscono solo sui rami di tronchi che hanno radici profonde. Cosa ha detto papa Leone ai giovani –15mila- riuniti nel piazzale della (fin troppo ricca e lussuosa) sede del Patriarcato maronita di Bkerké? Prevost, dopo aver colto al volo, col suo braccio da tennista, sciarpe e regali che i ragazzi gli lanciavano, è tornato su quel... cedro del Libano le cui radici sono grandi come il suo tronco: Charbel.
“I suoi occhi – ha notato il Papa- sono raffigurati sempre chiusi, come per trattenere un mistero infinitamente più grande. Attraverso gli occhi di san Charbel, chiusi per vedere meglio Dio, noi continuiamo a cogliere con più chiarore la luce di Dio”.
“Ciò che cambia la storia è ciò che cambia il cuore dell’uomo” diceva un grande padre della Chiesa.
Ma non si possono tacere alcune informazioni acquisite dal vostro cronista presso fonti affidabili. Gli interventi dei giovani chiamati a dialogare con il Papa contenevano in origine anche interrogativi laceranti, riferimenti all’attualità geopolitica e alle attese del popolo libanese. Esplicitamente: al disarmo di Hezbollah. Perché questi interrogativi –pane quotidiano nei loro post sui social- sono rimasti inespressi?
In Libano non si può parlare liberamente?
Per capirlo occorre aver presente che l’intera visita di Leone XIV era stata organizzata e sostenuta insieme, fifty-fifty, dal Patriarcato maronita e dalla Presidenza dello Stato libanese. Il presidente Joseph Aoun, amato e considerato da tutti i libanesi uomo integerrimo, è forse l’unica personalità cristiana ad aver mantenuto da sempre un dialogo diretto e non equivoco con il partito-milizia sciita.
La questione del disarmo di Hezbollah è lo spinosissimo dossier che giace sul tavolo delle segreterie di mezzo mondo, da Tel Aviv a Washington, da Ryad a Parigi, a Bruxelles. Su questo nodo gordiano, dal cui scioglimento dipende a corto termine la sopravvivenza stessa del Libano, torneremo in un prossimo contributo, in dialogo con il condirettore di “Orient-Le-Jours” Elie Fayad.
Sebbene il capo della Chiesa libanese, il cardinal Raï, si sia già più volte espresso pubblicamente in merito (affermando che Hezbollah ha trascinato il Libano in una guerra non voluta e deve essere disarmato per porre fine al conflitto con Israele), il presidente Aoun ha ritenuto che la visita del Pontefice non dovesse apparire in alcun modo come una forma di pressione politica sulla formazione sciita. Non è difficile immaginare che papa Prevost abbia acconsentito.
Un rispetto diplomatico -peraltro in sintonia con la priorità assoluta, libera e disarmata dell’annuncio cristiano- dal quale tuttavia il Papa, non appena varcato il confine del Paese dei Cedri, si è ritenuto svincolato. Durante il volo di rientro a Roma, su precisa domanda di un giornalista al seguito, Leone ha infatti dichiarato, papale papale: "La Chiesa propone che Hezbollah deponga le armi e si impegni nel dialogo".
Egli ha poi voluto puntualizzare: “Il nostro lavoro principalmente non è una cosa pubblica che dichiariamo per le strade, è un po’ ‘dietro le quinte’. È una cosa che infatti già abbiamo fatto e continueremo a fare per cercare –diciamo- di convincere le parti a lasciare le armi, la violenza, e venire insieme al tavolo di dialogo. Cercare risposte e soluzioni che non sono violente ma che possono essere più efficaci, e migliori per il popolo”.
La discesa di Prevost nell'inferno del porto (un'accusa silenziosa a chi l'ha provocato)
Del resto, a gridare come si suol dire “vendetta al cielo” è stato di per sé il gesto più commovente della visita papale al Libano: l’incontro con i parenti delle vittime dell’assurda terrificante esplosione avvenuta il 4 agosto del 2020 nel porto di Beirut, che provocò la morte di 218 persone e il ferimento di altre 7000, lasciando senza tetto 300mila abitanti di un quartiere in prevalenza popolato da cristiani.
Le eccezionali inquadrature ravvicinate di alcune telecamere mobili hanno portato nelle case di tutto il Paese e sui maxi schermi collocati nella spianata dove, poco lontano sul lungomare, 200mila libanesi attendevano il Pontefice per la celebrazione della Santa Messa, immagini di una intensità drammatica difficile da commentare.
Ognuno dei parenti (donne, uomini, bambini) teneva sul proprio petto la fotografia del congiunto disintegrato dall’esplosione di 2700 kg di nitrato d’ammonio depositati sei anni prima in un hangar del porto di Beirut senza misure di sicurezza. Da subito le inchieste –sia pur intralciate con cavilli giuridici e insabbiate con assassinii di testimoni e giornalisti- misero in luce la responsabilità inequivocabile di uomini legati a Hezbollah.
Papa Prevost si è intrattenuto con ciascuno dei congiunti, ascoltandone la pena in modo palesemente commosso, stringendone le mani e abbracciando i più devastati dal dolore, esasperato anche dall’impunità dei colpevoli che –pur avendo nomi e cognomi noti- rimangono ancora nell’ombra, protetti dalle armi del “Partito di Dio”.
Eppure gli sciiti chiedono aiuto al Papa
Difficile, del resto, non cogliere a chi facesse riferimento il Papa, se non ai leader Hezbollah, quando ha esortato i libanesi a non “rimane schiacciati dall’ingiustizia e dal sopruso, anche quando si è traditi da persone e organizzazioni che speculano senza scrupoli sulla disperazione di chi non ha alternative”. Il suo accento, tuttavia, è caduto insistentemente sulla meraviglia per un Paese nel quale, nonostante tutto, “minareti e campanili stanno fianco a fianco”.
Gli ha fatto eco, nel corso dell'incontro interreligioso tenutosi lunedì in Piazza dei Martiri, lo sceicco sciita Ali El-Khatib: “Poniamo la questione del Libano nelle Sue mani, con tutte le Sue capacità a livello internazionale, affinché il mondo possa aiutare il nostro Paese a liberarsi dalle crisi accumulate, in primis la continua aggressione israeliana e le sue conseguenze sul nostro Paese e sul nostro popolo”.
Impressionante vedere le bandiere di Hezbollah che salutavano Leone XIV mentre il corteo papale attraversa i quartieri sciiti di Beirut.
La festa di un popolo nella speranza della liberazione
Il gesto conclusivo del viaggio, la Messa alla quale hanno partecipato 180mila libanesi di tutte le età e condizioni, ha offerto l’opportunità a chi scrive di avere sotto gli occhi l’immagine viva di un popolo in festa nella speranza di una liberazione.
Un’esperienza vissuta in passato soltanto nell’analoga occasione di due Messe celebrate negli anni 80 da Giovanni Paolo II nella sua Polonia insieme a oltre un milione di suoi concittadini. Allora si trattò di gesti già di per sé liberatori per i polacchi che dopo quasi 50 anni di comunismo sovietico potevano respirare l’anticipo di una liberazione che si sarebbe compiuta pochi anni dopo.
Se e come, il 2 dicembre a Beirut, questo gesto di popolo, che ha certamente cambiato e riempito di gioia molti cuori (compresi quelli di centinaia di donne filippine che in Libano rappresentano i poveri tra i poveri), sarà premessa di cambiamento e di pace in Libano ce lo diranno forse già i prossimi mesi.
"Non moriremo, né andremo via, né dispereremo, né ci arrenderemo”
In prima fila durante l'evento, e inevitabilmente proiettati sui grandi schermi, tutti i leader politici libanesi (dall’eterno Berri all’inaffondabile Geagea, dall’anziano e astutissimo druso Jumblatt ai fratelli Hariri) che in buona parte sono stati per decenni registi e beneficiari di un clientelismo politico e di una corruzione endemica che stanno alla base del tracollo economico del Paese.
In primo piano, naturalmente, il presidente della Repubblica Joseph Aoun, che ha stupito per l’esclamazione appassionata con la quale ha sigillato il suo saluto a Papa Leone: “Santo Padre, la imploriamo di dire al mondo che non moriremo, né andremo via, né dispereremo, né ci arrenderemo”.
Papa Leone, durante il volo di rientro dal viaggio in Libano, ha detto ai giornalisti: "Penso che una delle grandi lezioni che il Libano può insegnare al mondo sia proprio mostrare una terra in cui l'islam e il cristianesimo sono presenti e rispettati, e che c'è la possibilità di vivere insieme, di essere amici. Storie, testimonianze e testimoni che abbiamo sentito anche negli ultimi due giorni di persone che si aiutano a vicenda, cristiani con musulmani, entrambi i quali avevano avuto i loro villaggi distrutti, per esempio, e dicevano che ‘possiamo unirci e lavorare insieme’. Penso che queste siano le lezioni che sarebbero importanti da ascoltare anche in Europa o in Nord America; e che forse dovremmo essere un po' meno paurosi e cercare modi per promuovere il dialogo autentico e il rispetto".