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22.07.2019 - 09:100
Aggiornamento: 25.07.2019 - 08:54

I pappagalli del politicamente scorretto. La linguaccia al potere ora è propaganda

Qualunque bestiata, qualunque espressione razzista, qualunque esibizione del vuoto cosmico che alberga nella zucca di taluni, viene giustificata con quello che ormai non è altro che uno slogan vacuo e miserevole

di Andrea Leoni

È ormai una moda. Una moda di massa. Una moda kitsch. È come una cintura di Dolce e Gabbana, talmente truzza e improponibile che va bene per tutti (quindi per nessuno…). Dal ciccione frustrato alla ragazzina sculettante. Perché è questa la sua forza: essere consolatoria. Per finta, s’intende.

Il politicamente scorretto a questo si è ridotto, snaturando completamente la sua natura nobile e preziosa. È diventato una sorta di verbo d’asino prêt-à-porter, un dizionario del sentire a consumo, un rifugio per persone che si danno ragione a vicenda.

Qualunque bestiata, qualunque espressione razzista, qualunque esibizione del vuoto cosmico che alberga nella zucca di taluni, viene giustificata con quello che ormai non è altro che uno slogan vacuo e miserevole.

È solo propaganda di potere contro un altro potere, quello del politicamente corretto. Non è rimasto nulla, o quasi nulla, della ribellione, innanzitutto linguistica, che portava in dote questa forma di contro-espressione sociale. Una rottura che era figlia d’intelligenze raffinatissime, capaci di analizzare a fondo la realtà, di vedere con anticipo ciò che altri neppure riuscivano a immaginare. E solo dopo - dopo! - questo esercizio, gli interpreti autentici del politicamente scorretto sapevano tradurre in fulminante provocazione il senso di ciò che avevano capito.

Prendiamo Tom Wolfe, ad esempio, inventore negli anni ’70 di uno dei neologismi ancora oggi più utilizzati nel gergo del politicamente scorretto: radical chic. Il grande giornalista americano molti anni dopo spiegò la genesi dell’invenzione linguistica: “Attraverso Radical Chic descrivevo l'emergere di quella che oggi chiameremmo la "gauche caviar", vale a dire una sinistra che si è ampiamente liberata di qualsiasi empatia per la classe operaia americana. Una sinistra che adora l'arte contemporanea, si identifica in cause esotiche e nella sofferenza delle minoranze ma disprezza i bifolchi dell’Ohio".

Cosa c’entra questa capacità di saper cogliere, con 40 anni di anticipo, una tendenza che avrebbe effettivamente ridimensionato la sinistra in tutto il mondo occidentale, con quelle espressioni troglodite che cicaleggiano nel dibattito pubblico? Cosa c’entra una geniale invenzione linguistica, con il berciare dei bulli che non fanno altro che far fare streching alla lingua?

Nulla, non c’entrano nulla. Non c’è bisogno di celarsi dietro il politicamente scorretto per scrivere negro o frocio e neppure per spararla più grossa dell’ultima che si è detta, magari solo il giorno prima, in una vertiginosa discesa nelle viscere dell’idiozia. Per quello basta essere se stessi.

Il politicamente scorretto è autentico solo se è figlio di un’intuizione. Se riesce ad anticipare un fenomeno o a cogliere un sentimento che cova sotto le ceneri. Se è capace di dire quel che fino ad allora non si è saputo, o voluto, dire. È una linguaccia, una rivisitazione del Re Nudo. Presuppone coraggio, sfacciataggine, resistenza nell’andare contro corrente. Non può esser ritornello di un coro, non può essere linguaggio di potere e meno che mai strumento di propaganda. Non è mai di moda.

I grandi “scorretti” che hanno nutrito ed esaltato il genere, sono in larga parte degli sconfitti. Esponenti di minoranze, di destra e di sinistra, che in vita sono quasi sempre stati marginalizzati e offesi dal comune sentire del loro tempo.

Il politicamente scorretto è insomma l’esatto contrario del garrito dei pappagalli che se ne sentono alfieri. Il cui verso è amplificato soltanto dai pennuti intellò che gli fanno il contro canto dalla voliera di fronte.

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