CORONAVIRUS
Le ragioni di Zangrillo e un virus che non finisce di sorprenderci
Non tener conto di ciò che si osserva in corsia, delle notizie dalla trincea, è sbagliato. Gli ospedali, così come i medici di famiglia sul territorio, sono spie che non mentono

di Andrea Leoni

È un virus che non finisce di sorprenderci. Nella prima fase della pandemia, quando il Covid19 si è manifestato nel nord Italia, tutto è stato facilmente prevedibile. L’infezione si è diffusa con grande coerenza prima in Europa, poi negli Stati Uniti e oggi in Sudamerica. I contagi sono cresciuti in maniera esponenziale, gli ospedali si sono riempiti, le cure intense sono traboccate di pazienti. Come era già accaduto in Cina. Stesse scene di malati e di ambulanze, più o meno drammatiche, da Locarno, Bergamo, Madrid, Londra o Berlino. Case per anziani falcidiate. Tante bare. Chi ha agito preventivamente -  con pochi casi e pochi morti - ha arginato i danni, chi ha tentennato, è stato travolto dall’onda virale.

Oggi viviamo una fase completamente diversa. Non riusciamo più a interpretare il comportamento del virus, ad anticiparne le mosse. La previsione è diventata profezia, quasi scommessa. La stragrande maggioranza delle simulazioni epidemiologiche sono finite nel cestino, con i relativi grafici, per ora. Almeno su un concetto gli esperti nazionali e internazionali sembravano concordi: ad ogni apertura dopo il lockdown corrisponderà un aumento dei casi, dicevano. Tesi che al momento non trova riscontro nei dati reali. Anzi, sta avvenendo il contrario. È presto per cantar vittoria, giusto, ma non si può neppure sottacere l’evidenza.

In questo contesto si inseriscono le affermazioni del Professor Alberto Zangrillo che tanto hanno fatto discutere in questi giorni. Secondo il primario dell’ospedale San Raffaele di Milano, il Covid19 sarebbe clinicamente morto. Tradotto: l’infezione non produce più malati da ospedalizzare o, peggio, da intubare in cure intense.  Al di là dei toni la sostanza delle parole di Zangrillo, in Italia come in Ticino, è incontestabile perché fotografa una realtà. E infatti altri clinici di prima linea, dal nord a sud della Penisola, confermano: la malattia che si osserva oggi, è assai diversa e molto meno grave di quella di marzo. Per dirla con il Professor Bassetti, primario di malattie infettive dell’ospedale di Genova, “prima il Covid era una tigre, oggi è un gatto selvatico”.

È bene dire che né Zangrillo né Bassetti sono tra i negazionisti della pandemia. Entrambi raccomandano le misure igieniche e di distanziamento sociale. Al netto di qualche sbandatura iniziale - come molti altri loro colleghi - entrambi hanno sostenuto il lockdown e, soprattutto, curato centinaia di pazienti al fronte. La loro osservazione clinica è sostenuta da professori di prim’ordine, come Massimo Clementi, Guido Silvestri o Giuseppe Remuzzi. Non stiamo parlando di ciarlatani o adepti deliranti del “no vax” o “no mask”

Non tener conto di ciò che si osserva in corsia, delle notizie dalla trincea, è sbagliato. Gli ospedali, così come i medici di famiglia sul territorio, sono spie che non mentono. È stato un medico cinese, e non uno scienziato, ad aver capito che “quella strana polmonite” era una nuova malattia. È dai ricoveri in ospedale che abbiamo compreso che il Covid19 non era solo un’influenza. E oggi, dai reparti che via via si stanno svuotando in tutta Europa, ci viene detto che il virus provoca una patologia assai meno severa, nonostante il lockdown sia alle spalle da qualche settimana.

Perché dunque tante polemiche intorno alle parole di Zangrillo? Da un lato perché si teme che il messaggio possa essere interpretato come un “tana liberi tutti” (il Professore però ha ben chiarito che così non è da intendersi). In Svizzera tale preoccupazione fa sorridere considerato che l’intera politica di riapertura del Consiglio Federale si fonda sulla responsabilità individuale e, per le scelte fatte, suggerisce che il peggio è passato. Dall’altro le sue tesi fanno dibattere perché all’affievolimento del virus tocca trovare una spiegazione, e qui entrano in campo i virologi e gli epidemiologi. Le teorie abbondano, le certezze scarseggiano. È per il caldo? È per il comportamento dei cittadini? È perché è mutato? È perché sappiamo curare meglio i malati? È perché i numeri dei contagiati sono diventati troppo piccoli e quindi anche i casi gravi si sono drasticamente ridotti? Forse tutte, forse nessuna.

Ciò che è certo è che per un’analisi seria, come non si può prescindere dalla valutazione scientifica, non si può assolutamente trascurare neppure l’aspetto clinico: questa infezione che malati produce? Per esempio, a scadenze più o meno regolari arrivano notizie sovrapponibili: “Seul torna in lockdown”, in questo o quel Paese torna a crescere l'indice R0, oppure, proprio ieri, “Nuovo focolaio a Gottinga: richiudono le scuole”. Sono fiammate del virus, generalmente si parla di meno di 100 contagi in aree urbane di milioni di abitanti.  Ma quello che manca, spesso, è il dato successivo, ovvero quanti di questi nuovi positivi sono gravi e finiscono in ospedale. In generale, nei Paesi dove il Covid ha già colpito duro, non si hanno notizie di nuove impennate nei ricoveri.

In questo contesto s’inserisce il dibattito stucchevole sulla seconda ondata. Ormai siamo a livello del Lotto tra chi la ritiene sicura e chi invece si dice convinto del contrario. Un dibattito stucchevole perché l’importante non è se ci sarà o meno, ma quali strumenti stiamo mettendo in campo per fronteggiarla.

Crediamo che le parole più ragionevoli in materia le abbia espresse un medico ticinese a cui il Ticino deve molto, Michele Llamas che ha organizzato e gestito la trincea della Carità di Locarno: “Credo che una delle cose più difficili, ma anche coraggiose, che noi medici dovremmo fare oggi è affermare che non sappiamo. Immaginiamo che ci sia un orso potenzialmente aggressivo nel nostro giardino… Ma che a un certo punto non si faccia più vedere. Cosa dovremmo fare? Uscire senza precauzioni? Io sarei piuttosto prudente. Occorre dunque continuare a osservare scrupolosamente le misure preventive: disinfettarsi e lavarsi le mani, rispettare le distanze sociali, e usare la mascherina nelle situazioni in cui la distanza sociale non può essere garantita”.

Prudenza, quindi, e comportamenti adeguati d'igiene, di distanza sociale e di rispetto e protezione reciproca con le mascherine laddove necessario, perché non sappiamo come il virus si comporterà nei prossimi mesi. Ma la realtà va osservata. Tutta. 

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