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Analisi
06.11.2017 - 12:120

Per cambiare la RSI bisogna che la RSI continui ad esistere. Chiuderla, come propone No Billag, sarebbe un errore. E affidarsi mani e piedi al mercato, non è un affare ma una truffa: dovremmo ormai averlo imparato

L'ANALISI - Ma il clima isterico innescato da alcuni tra i contrari all’iniziativa è controproducente. Gli argomenti contro l'iniziativa sono solidi e di buon senso. Non occorre orchestrare una guerra tra “civili”, quelli che dicono “no” alla proposta, e “barbari”, quelli favorevoli. Farlo sarebbe un errore tattico imperdonabile

di Andrea Leoni


L’enorme fortuna della RSI è che questa iniziativa No Billag è veramente scritta male e si pone al di fuori degli schemi politici tradizionali entro i quali si muove la Svizzera. Non siamo un Paese da scelte radicali, da tutto o niente e subito (i promotori vogliono stravolgere il sistema radiotelevisivo, abolendo il canone, in appena un anno).

 

Il tratto distintivo di noi svizzeri, piuttosto, è quello della mediazione tra idee e interessi anche molto divergenti. Dal Governo in giù. Un percorso che inevitabilmente richiede tempo e pazienza e che impone di fare sempre il passo secondo la gamba, senza imboccare sentieri da sport estremo. Così siamo diventati un Paese di successo riconosciuto in tutto il mondo.

 

Si può quindi discutere del canone troppo caro. Ci si può incazzare per la presunta parzialità dell’informazione. Si può criticare questo o quel programma o il taglio con i quali vengono proposti. Si può dibattere di quali trasmissioni sia giusto fare e quali no.

 

Si può obbiettare sui costi, sul ruolo della politica, sul modo di relazionarsi con il territorio e con il pubblico. Si possono contestare strutture burocratiche mastodontiche, investimenti da grandeur, numero di collaboratori, salari dei dirigenti, sprechi vari e avariati.

 

Si può eccepire su come vengono allocate le risorse umane e finanziarie e se siano necessarie tutte quelle risorse per assolvere alla propria missione. Si possono radiografare gli errori del passato, indignarsi per lo sfoggio di privilegi da nababbi e per la sicumera troppo spesso sbattuta in faccia - come una presa per il culo (al caldo) - rispetto a una realtà sociale radicalmente cambiata.

 

Un tempo tutti stavano più o bene e, soprattutto, si sentivano al sicuro rispetto all’avvenire. Al contrario di oggi dove tali certezze sono evaporate quasi ovunque fuori dal recinto dell’apparato statale e parastatale. E questo fattore produce sofferenze e lacerazioni nel tessuto comunitario che possono sfociare nell’egoismo e nell’invidia. Sentimenti poco nobili ma umani, comprensibili, considerato il periodo.

 

Possiamo riflettere tutti insieme sul futuro di una televisione pubblica generalista in un contesto storico dove, a torto o a ragione, il web ha fatto fare un click nella testa delle persone: molti contenuti, forse tutti quelli normalmente necessari per una cittadino comune, sono fruibili gratuitamente. Cittadini comuni magari in bolletta, nonostante lavoro e sacrifici, che non vanno presi a pernacchie se pensano che i soldi del canone preferirebbero risparmiarli o impiegarli altrimenti. Con questa gente è obbligatorio confrontarsi.

 

Possiamo, infine, accapigliarci su quanta pubblicità e dove. Confrontarci su modelli di società tra chi ritiene che si debba pagare solo per ciò che si consuma - televisivamente parlando e non solo - e chi invece crede che tener vivo uno spazio di solidarietà comune, cioè un servizio pubblico, faccia comunque il bene della nazione e del suo popolo. Del resto, quest’ultima, è un’idea tipicamente occidentale, di cui troviamo traccia, con modelli diversi, in tutta Europa. Non è un caso ma il risultato di un lungo percorso filosofico e politico dagli antichi greci ai giorni nostri.  

 

Tutto questo si può fare, anzi, si deve continuare a fare. È un esercizio utile e democratico, quando non è viziato da pregiudizi o da giudizi interessati sparati con l’arsenale della speculazione politica o economica. Ma per farlo è necessario che il soggetto, cioè la RSI, continui ad esistere. Ed è questo il difetto fondamentale dell’iniziativa No Billag: quello di voler tagliare di netto le radici a un’azienda, anziché cercare di riformarla, magari attraverso una rigida cura dimagrante.

 

Li sento i legittimi sospiri di chi è convinto che la radiotelevisione pubblica sia irriformabile e di chi ha il sospetto che, nel caso superasse indenne la votazione, Comano ricomincerebbe a comportarsi come sempre ha fatto: nella più consumata logica gattopardesca. Purtroppo questa è una possibilità che non si può negare. Ma è più probabile il contrario. E sapete perché? Perché alla fine, davvero, tutto cambia e neppure l’ultima torre d'avorio potrà resistere, senza adeguarsi, ai mutamenti in corso nel campo mediatico. Se non cambieranno da soli, sarà la tecnologia a cambiarli o a spazzarli via. Succederà per forza di cose.

 

Ma oggi stiamo parlando di una società pubblica che è patrimonio del Ticino: per posti di lavoro occupati in larghissima parte dai ”nostri”, palanche che girano e competenze. E dunque che ci sia o non ci sia la RSI è come avere un’azienda o non averla: la differenza è la stessa che corre, per l’appunto, tra tutto e niente.

 

Nessuno si lasci infatuare dalle chimere: la caverna della pubblicità in grado di fornire denaro sufficiente per sopravvivere, non esiste. Soprattutto, non c’è alcuna lampada da strofinare con il genio di Aladino pronto ad esaurire anche solo uno dei tre desideri. E anche se ci fosse, dopo trent’anni di liberismo e di privatizzazioni, dovremmo aver imparato che affidarsi mani e piedi al mercato privato, non è un affare ma una truffa.

 

Il ragionamento è talmente banale da sfidare il principio dell’ovvio: a nessuno è mai venuto in mente - e un motivo ci sarà… - di minacciare la sopravvivenza di AET, o BancaStato, o dell’EOC, o della Posta, o delle FFS, dopo che queste aziende parapubliche, per mano dei loro dirigenti, hanno fatto scelte discutibili o peggio. Semplicemente perché questa non è una soluzione.

 

Come non è una soluzione tagliare i viveri alle radio e alle televisioni private - Teleticino, Radio3i, Radio Fiume Ticino - che proprio di recente si sono viste aumentare la quota del canone a loro destinata. Altre realtà importanti del nostro tessuto economico e sociale, che sarebbe irresponsabile mandare gambe all’aria, così, da un giorno all’altro.

 

Questi argomenti sono sufficienti per esaurire il discorso sulla proposta concreta che sarà messa in votazione, non certo sul tema del finanziamento e del ruolo del servizio pubblico. E sugli altri annessi e connessi.

 

Per questo è controproducente il clima isterico che alcuni tra i contrari all’iniziativa stanno fomentando in una campagna già abbastanza infuocata per far ricorso alle riserve di benzina. Gli argomenti contro la No Billag sono solidi e di buon senso. Non occorre orchestrare una guerra tra “civili”, quelli che dicono “no” alla proposta, e “barbari”, quelli favorevoli. Farlo sarebbe un errore tattico imperdonabile, oltre che un clamoroso segnale di debolezza e di paura (e in pochi vogliono stare sul carro dei deboli e dei pavidi).

 

I contrari alla No Billag, imboccando questa squadra, si farebbero soltanto portare a spasso nel segmento del campo di battaglia, laddove i favorevoli all’iniziativa li vogliono attirare e dove possono avere le uniche possibilità di successo. Cioè trasformare un voto di merito, in un voto politico, tra destra e sinistra, casta e popolo, pubblico e privato, intelligenti e cretini. E se si arriva a quel punto lì, poi, vale tutto.

 

Questa votazione non deve diventare una guerra tra i giusti e i buoni, da una parte, e i demolitori cinici e bari della democrazia, dall'altra. Somos todos ticinesi. Rispettiamoci e confrontiamoci.

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