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Cronaca
10.06.2017 - 09:580
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

Confesso che ho vissuto. Armando Dadò racconta la sua vita in occasione di un traguardo importante: "Ottant’anni e mille libri. Avvolto da una nobile beatitudine. È questo lo stato d’animo con cui vorrei affrontare il momento della grande chiamata"

Dall'infanzia contadina alla politica. Dall'editoria alle amicizie. Dalla famiglia ai problemi di salute. L'editore, sull'ultimo numero della rivista il Ceresio, narra la sua esistenza tra molti aneddoti e qualche confidenza: "Avrei desiderato fare il giornalista, ma non intravvedevo nessuna strada, nessuna possibilità...."

di Armandò Dadò*

In occasione dei miei 80 anni sono stato a Torino, al Salone internazionale del libro. In fondo, è il mio mondo: quello della carta e dell’inchiostro. Scrivere e pubblicare. E ascoltare. Naturalmente non mancherò, come tutti, di organizzare qualche incontro con i famigliari e gli amici, nell’atmosfera tipica di queste ricorrenze.

 

La circostanza è anche quella di una riflessione sul molto tempo che mi è stato dato e su quello che mi rimane, che sarà ovviamente poco, per bene che vada.

 

Nato nella prima metà del secolo scorso, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, ho avuto modo di vivere un momento storico di grandissimi cambiamenti, passando dal vecchio mondo povero e contadino alla modernità che permette a tutti una vita economicamente più tranquilla.

 

Il mondo di ieri

 

Venuto al mondo in fondo a una valle, in un giorno di temporale e di tempesta, il parto casalingo è stato difficoltoso, tanto è vero che mia mamma ripeteva spesso: «Ho aspettato sette anni prima di avere il primo bambino; certamente ne aspetterò altri sette prima di averne un secondo». Per la cronaca dirò che mio fratello Ivo è venuto al mondo quattro anni dopo e ha fatto il contadino in Valle Bavona.

 

L’infanzia l’ho trascorsa più o meno come gli altri compagni del villaggio. Il contesto era quello della vita dei contadini di valle e di montagna. Ogni famiglia aveva le sue bestie, le sue mucche, le sue capre, i suoi prati, i suoi campi, le sue stalle. In estate ci si trasferiva in Valle Bavona, alcuni salivano sugli alpi, qualche altro faceva il muratore, il falegname, lo scalpellino, l’imbianchino, il fabbro ferraio.

 

La vita di maggiore sacrificio era riservata alle donne. Oltre a mettere al mondo i figli, di solito numerosi, dovevano occuparsi innanzitutto della casa, mentre gran parte dei lavori agricoli ricadevano sulle loro spalle. Le case non avevano riscaldamento centrale, si faceva capo al fuoco e alla stufa. I bagni erano scarsi e le docce inesistenti. Non esistevano ovviamente televisori, solo qualche radio e pochissimi telefoni. Le notizie da lontano arrivavano in ritardo, sommarie e frammentarie.

 

Parlavamo dialetto. L’italiano era già in qualche modo quasi una lingua straniera.

 

Il nostro dialetto cavergnese era molto particolare; ne hanno scritto il linguista Salvioni, il prof. Zanini e il mo. Dalessi. Oggi è quasi scomparso.

 

La vita era dura ed era sorretta dalla fede, dalla religione. La fede era molto viva, non c’era spazio per il dubbio, tutti partecipavano alla messa domenicale e alle altre funzioni religiose. In molte case, la sera dopo cena si recitava il rosario. Don Giuseppe Fiscalini – ampiamente citato negli scritti di Plinio Martini – era un parroco severo, oggi inimmaginabile, con una formazione legata ai dogmi del Concilio di Trento; teneva in pugno il paese, con un’autorità morale che nessuno discuteva.

 

L’avvento della modernità

 

Il mondo moderno irruppe dopo la Seconda guerra mondiale. Da noi coincise con l’avvento dei grandi lavori idroelettrici della Maggia, che coinvolse molti operai, in gran parte stranieri. Il tessuto economico cambiò radicalmente, si passò dalla povertà ad un relativo benessere. Il cambiamento è stato rapido e continuo ed è tuttora in corso. Roberto Buffi, studioso del Martini, si pone una domanda più profonda: «Esteriormente si è affermato il mondo moderno, il progresso. Ma nel mondo interiore? Il progresso conseguito è stato un progresso con o senza anima?».

 

Credo che a questa domanda non sia ancora stata data una vera risposta. Io comunque sono cresciuto in quegli anni, ho frequentato le scuole locali e successivamente ho seguito il ginnasio al Collegio Papio di Ascona, ospitato come studente esterno dai miei zii Elvezia e Achille Lafranchi a Locarno. In via naturale avrei dovuto continuare gli studi, ma nessuno mi incoraggiava. Anzi mio padre mi consigliava di fare il ciabattino, professione che mi avrebbe permesso di lavorare anche nelle giornate di pioggia e di freddo. D’altronde al ginnasio avevo delle difficoltà nello studio delle lingue, ciò che mi scoraggiò e mi indusse a lasciare la scuola.

 

Il tipografo al posto del giornalista

 

Avrei desiderato fare il giornalista, ma non intravvedevo nessuna strada, nessuna possibilità. Decisi così di iniziare l’apprendistato nelle arti grafiche. Il giorno in cui trovai il posto di lavoro fui felice. Ma fu una magra illusione, perché poi seguirono quattro anni che furono i più infelici della mia vita. Capitai in uno di quei posti che gli abitanti della città conoscevano bene e se ne stavano alla larga, mentre noi delle valli ci cascavamo ingenuamente senza rendercene conto. Il mattino mi alzavo alle cinque. Dopo la colazione andavo a piedi fino a Bignasco e quindi salivo sul treno della Valmaggina che scendeva a Locarno. La sera si faceva il percorso inverso e si arrivava a casa verso le otto. Ma se queste erano le circostanze del viaggio; era per contro l’ambiente di lavoro che mi abbatteva e mi umiliava quotidianamente. Quando Dio volle, passarono anche questi quattro anni e allora mi chiesi cosa fare. Nella mia mente si era creata l’idea che gli ambienti di lavoro ed i padroni fossero tutti più o meno così. Per cui ritenni che l’unica via di salvezza era quella di mettermi in proprio.

 

L’avventura aziendale

 

Affittai dei locali al Palazzo Pax di Muralto, che già aveva ospitato una tipografia poi chiusa, e creai una piccola società con un gruppetto di persone che avevo conosciuto e che si erano dette disposte a partecipare all’avventura. Fra questi amici generosi, disposti a rischiare, c’erano Federico Adami, Plinio Martini, Sandro Romerio, Rodolfo Andreotti, Achille Frigerio e altri. Non avevo soldi, non avevo relazioni, non avevo una formazione adeguata, non avevo nulla, salvo la volontà, la determinazione, la voglia di riuscire. Per sei anni lavorai senza un giorno di vacanza, compreso il sabato fino a mezzogiorno. Viaggiavo in tutto il Cantone in cerca di clienti e di lavoro. La domenica pomeriggio leggevo e studiavo.

 

La famiglia

 

Nel frattempo, avevo conosciuto una ragazza di Peccia di nome Carmen, appartenente alla famiglia dei Vedova, composta da quattordici figli. Ancora oggi tutti in vita. Mi sposai. Dal matrimonio nacquero cinque figli, tutti maschi, di cui due morti alla nascita. Mio padre che era muratore mi aiutò a costruire una casetta in paese, dove abito tuttora. Una sera invitai a cena l’avv. Arrigo Caroni che mi disse: «Ma sei matto a vivere a Cavergno e doverti spostare tutti i giorni a Locarno, a Bellinzona, a Lugano… Ma hai già fatto i calcoli di quanto tutto questo ti costa in tempo, in soldi, in stress, e altro ancora?».

 

Il discorso di Caroni era giusto e razionale, ma in me prevalevano i sentimenti. L’amore per la mia terra, il mio paese e la mia gente non mi hanno mai permesso di scendere al piano. Nei nostri paesi c’è una atmosfera, una vicinanza fra le persone che non si trova in città.

 

La vita politica

 

Ancora molto giovane entrai nel Municipio di Cavergno e verso i trent’anni fui eletto in Gran Consiglio. Vi rimasi per oltre vent’anni ed ebbi anche l’onore di assumerne la presidenza. Fu un anno molto bello, visitai tutto il Cantone, partecipai a molte manifestazioni e dappertutto venivo accolto con grande cordialità. Devo aggiungere che nei primi tempi mi trovavo a Palazzo delle Orsoline un po’ sperduto, un po’ spaesato, in mezzo a personaggi di alto lignaggio, affermati professionalmente ed economicamente riconosciuti per capacità e autorevolezza. Mi ci volle tempo per muovermi almeno con un minimo di agio e dirò che comunque non sono mai intervenuto parlando a braccio, ma solo con il testo scritto.

 

In gran parte mi occupai dei problemi della Vallemaggia, soprattutto conseguenti allo sfruttamento delle acque: deflussi minimi e contributi fiscali. Ma poi intervenni ampiamente anche sul problema degli archivi comunali, patriziali e parrocchiali, in quegli anni in grave disordine. Diverse volte ebbi modo di parlare sui temi relativi allo sfruttamento sconsiderato del territorio, su quello che è stato in certi momenti un saccheggio, una vera rapina.

 

Durante l’anno di presidenza ebbi modo di viaggiare parecchio anche nella Svizzera interna.

 

La personalità di maggiore spessore che ho conosciuto nel mondo della politica è stato l’avv. Alberto Stefani, con cui ho stretto, soprattutto negli ultimi anni, ottimi rapporti di amicizia, in particolare nei soggiorni autunnali ad Abano. Stefani era uomo di straordinaria intelligenza. Aquila e formica, afferrava immediatamente i problemi dall’alto, con una visione generale, ma anche dal basso con una visione più minuziosa e dettagliata e non gli sfuggivano mai le diverse facce della medaglia. Un rapporto particolarissimo l’ho poi avuto con Flavio Cotti, conosciuto negli anni giovanili. Posso dire che per una cinquantina di anni ci siamo visti o sentiti al telefono almeno una volta a settimana. Nel periodo in cui era in Consiglio federale ci sono stati momenti anche per me di grande piacevolezza e di vivo interesse.

 

Le altre attività pubbliche

 

Durante gli anni ho avuto modo di assumere la presidenza della Regione Locarno e Vallemaggia, dell’Associazione dei Comuni valmaggesi, della Società dei Padroni Tipografi, di quella degli Editori e di altre minori. Sono stato designato dal Cantone quale membro del consiglio di amministrazione delle Ofima e della Fondazione Valle Bavona. Ma l’attività più impegnativa è stata la presidenza ventennale dell’Ospedale distrettuale di Cevio. Erano anni in cui si parlava di chiusura, non era ancora stato costituito l’Ente cantonale, non erano nemmeno ben definiti i compiti dell’istituto ospedaliero. Questa attività fu per me un grosso sacrificio che mi impegnò molto senza nemmeno avere una specifica formazione nell’ambito delle attività sanitarie e nemmeno potendo sempre contare su personale adeguatamente qualificato ed idoneo.

 

Lo sviluppo della tipografia

 

Fondata nell’agosto del 1961, la Tipografia Stazione si era andata ampliando, così che a un certo momento si decise di acquistare il sedime delle vecchie Latterie Riunite in Via Orelli, di costruire un palazzo e di insediarvi tutta l’attività.

 

Così aumentammo il capitale sociale ed entrarono nuovi azionisti. Il progetto fu affidato all’arch. Piero Casetta e venne assunta l’impresa di Pierino Barra per la costruzione dell’edificio. Due piani furono destinati all’azienda; quelli superiori furono destinati ad uffici e appartamenti in affitto. Registrammo dei sorpassi nei costi di costruzione e ci trovammo molto indebitati. Erano anni in cui gli interessi ipotecari si aggiravano sull’8% e non fu facile sopravvivere, pur cercando di destreggiarsi in diversi modi.

 

L’editoria

 

Il primo libro pubblicato è stato «Artigianati scomparsi» di Giovanni Bianconi, uomo squisito, che avevo conosciuto tramite don Robertini. Fin dal primo momento si creò una situazione che poi si ripeté in molte altre occasioni. Capii che pubblicare un libro era molto più gratificante che stampare prospetti, buste o carta da lettera. Avvertii immediatamente la difficoltà nel fare quadrare i conti e nella vendita dei libri stessi. Con Bianconi si stabilì un rapporto che si trasformò in amicizia.

 

Da allora abbiamo pubblicato un migliaio di libri, di vario genere. L’opera più importante è stata «Il Dizionario Storico della Svizzera», composta di tredici volumi.

 

La Collana di maggiore prestigio è quella dei «Cristalli-Helvetia nobilis» costituita dalla traduzione e dalla stampa dei maggiori autori della Svizzera tedesca e della Romandia. Ci sono quasi tutti i grandi nomi di chi ha scritto onorando il proprio Paese.

 

I contatti, le amicizie

 

Pubblicare buoni libri non è sufficiente. Occorre promuoverli, farli arrivare sotto gli occhi dei lettori. L’attività di promozione è molto costosa, vasta e impegnativa. Si deve poter contare sulla collaborazione dei media e di altri canali. Il mondo dei libri è comunque molto variegato, con tanti collegamenti, novità e sorprese. All’uscita di un nuovo libro, solitamente viene fatta una presentazione pubblica alla quale segue una cena con un certo numero di invitati: si tratta di altri autori o di altre persone coinvolte: grafici, fotografi, giornalisti, pubblicitari. Queste cene si trasformano in feste con un bel gruppo di amici.

 

Le riviste

 

La nascita delle riviste ha in qualche modo rivoluzionato la nostra attività così come il passaggio dal piombo al computer.

 

La «Rivista» del Locarnese e Valli è nata dopo la scomparsa dell’«Eco di Locarno» sulla base del volontariato, in primis di Gianni Mondini. Oggi è molto affermata, con molti abbonati, lettori, collaboratori, inserzionisti. La redattrice Maurizia Campo-Salvi ha saputo svilupparla, ampliarla, arricchirla. Non tutti se ne rendono conto, ma il mensile locarnese rappresenta un contributo non indifferente alla vita culturale e sociale di Locarno e della regione circostante. Può contare su oltre duemila abbonati sostenitori: un record nazionale.

 

«Il Mendrisotto» esce ogni due mesi ed è stato rilevato da una precedente esperienza fallimentare. È diretto da Cristina Ferrari e può contare su mille abbonati sostenitori. La «Turrita», curata da Danilo Mazzarello, ha pochi anni di vita, ma si è andata affermando a completa soddisfazione dei bellinzonesi. «Il Ceresio» è l’ultima arrivata e sta muovendo ancora i primi passi. Sta trovando apprezzamento nel Luganese e cresce con gli abbonati di giorno in giorno. È affidato a Elena Locatelli; ha sede in Via Fola a Pregassona.

 

La nascita e lo sviluppo di queste riviste ci ha aperto nuovi contatti, nuove relazioni, nuovi mondi. Esse hanno lo scopo di promuovere determinati valori piuttosto trascurati o negletti nella società di oggi. Non manca, quando vi è la necessità, di andare controcorrente e di denunciare situazioni che non possono passare sotto silenzio. Sono inoltre diventate veicoli importanti per la conoscenza e la diffusione dei nostri libri, delle nostre pubblicazioni. Attraverso le riviste siamo entrati in contatto con persone di valore, che si sono trasformate in preziosi collaboratori: pensiamo a Mauro Baranzini, Alfonso Tuor, Lorenzo Pezzoli, Renato De Lorenzi…

 

Comunque, va detto che per ottenere i risultati ci vuole un gran lavoro, un grande impegno da parte di tutti: redattori, operai, impiegati d’ufficio, tecnici, collaboratori che vanno tutti molto ringraziati.

 

Letture e personaggi

 

Partendo da una modesta base culturale, ho cercato di leggere molto nel corso degli anni per poter ricuperare qualcosina. Ho letto in particolare biografie, saggistica, letteratura in genere e soprattutto libri di storia: quella delle nazioni europee, della Russia, degli Stati Uniti d’America, ma in particolare della Francia.

 

Mi sono molto appassionato ai temi legati in un modo o nell’altro al periodo della Rivoluzione francese e alla cultura della Francia. È un mondo ricchissimo e affascinante, che scorre rapidamente creando nutrimento e piacevolezza.

 

Oltre alle letture, ho cercato di approfittare delle persone colte e intelligenti che ho avuto modo di incontrare. Avendo una certa facilità nei contatti, non ho avuto troppi problemi nelle relazioni e quando mi sono trovato con persone che ne sapevano molto più di me, ho soprattutto ascoltato. E ho cercato di imparare, di apprendere di volta in volta tanto o poco. I contatti per taluni aspetti più significativi, li ho avuti con Indro Montanelli. Ho avuto modo di conoscere il più importante giornalista italiano grazie a Mario Agliati e Ugo Primavesi. Ci si incontrava a pranzo a Milano, «da Elio», in via Fatebenefratelli. Montanelli arrivava con un autista verso le tredici. Mangiava pochissimo e conversava con grande affabilità. Dopo pochi minuti che ero seduto, mi prendeva per un braccio e mi trattava come se fossi un vecchio amico. Dopo il primo incontro, ritornai in Ticino euforico e raggiante. Lo invitai quindi a Lugano a presentare il libro di Chevallaz, con la regia di Michele Fazioli. Il Palazzo dei congressi conteneva a stento il pubblico che era accorso ad ascoltare questo uomo che aveva un fascino unico, straordinario.

 

I problemi di salute

 

Avevo poco più di quarant’anni quando – camminando per un viottolo di Montecatini – avvertii che mi mancava il respiro. Rientrai immediatamente in Ticino e mi misi nelle mani del dott. Sergio Mazzoni, il quale prese subito contatto con il Chuv di Losanna. Venni operato di by-pass da un chirurgo iraniano. Oggi questi interventi sono correnti, ma in quegli anni avevano ancora un certo grado di rischio. Negli anni successivi ritornai al Chuv per interventi minori e nel 1998 dovetti subire una nuova operazione di by-pass. Fu adottato un metodo nuovo, ancora sperimentale, e l’intervento fallì. Dopo due anni vissuti malissimo, ebbi modo di conoscere il dott. Roberto Tartini, che lavorava alla Clinica Hirslanden di Zurigo. Mi misi nelle sue mani, subii un nuovo intervento che riuscì felicemente. Più tardi ebbi problemi con le carotidi ed altri malanni. Pur avendo passato momenti in cui faticavo a capire se ero più di qua o di là, in definitiva per il momento me la sono cavata.

 

Gli anni del nostro Millennio

 

Dall’inizio del 2000 fino ai nostri giorni, ho vissuto forse il periodo migliore della mia vita. L’azienda si è consolidata, sono state avviate le quattro riviste mensili, la pubblicazione dei libri è continuata con opere di alta qualità. Mio figlio Luca ha preso in mano saldamente le redini della ditta, Fiorenzo ha scelto la sua strada nel mondo complesso e insidioso della vita politica. Michele per contro si è laureato in archeologia a Losanna e sta attualmente frequentando una scuola di astrologia. Personalmente, dò ancora il contributo che l’anagrafe mi permette, lavorando soprattutto a casa in un’atmosfera più tranquilla. Preparo mensilmente gli editoriali per le riviste e scrivo qualche altro articolo sui giornali. Un fatto che mi ha positivamente un po’ rivoluzionato la vita è stato l’avvento del computer. In realtà ci ho messo tempo ad usarlo. Dapprima non mi sembrava necessario e mi pareva già buona cosa il fax. Quando poi finalmente mi si sono aperti gli occhi e ho scoperto i grandissimi vantaggi del computer, ne ho tratto notevoli benefici pratici. Molte cose che nel passato le potevo fare solo scendendo in città, ora le posso tranquillamente eseguire a casa. E mi sono chiesto come mai ci ho messo tanto tempo a capire ciò che una mente più sveglia della mia avrebbe afferrato ben prima.

 

Ma l’avvenimento che più mi ha riempito la vita di gioia in questi ultimi anni è stato l’arrivo della nipotina Sofia. Il mestiere del nonno è diverso da quello dei genitori. Seguire settimana dopo settimana il progredire di questa giovane creatura, osservarla, giocare con lei, riflettere sul mondo in cui si trova a vivere, completamente diverso dal mio percorso, tutto questo è una gran cosa.

 

Questa bambina, che ora frequenta la terza elementare, domina oramai i miei sentimenti, ma anche di mia moglie e di tutta la famiglia. È la vera gioia di questi tardi anni.

 

E poi?

 

Ed ora che il traguardo degli ottant’anni è raggiunto, quale futuro, quali prospettive? Spero ovviamente che il Cielo mi conceda ancora qualche giorno, che sia generoso. Ci sono ancora tante cose da fare. Tanti libri da leggere. Tanti libri da pubblicare. Tante persone da ascoltare. Ma quando il tempo sarà scaduto ed arriverà il grande momento, come affrontarlo?

 

Nella mia vita, fra tante cose, ho avuto alternativamente momenti belli. Belli per molte ragioni. Ma oltre a questa contentezza generica, ho vissuto alcuni pochi momenti particolari, più alti, più nobili, più intensi, più elevati. Un giorno, mentre mi trovavo in Notre Dame di Parigi avvolto dall’armonia dei suoni, la mente si elevò e ampliò gli orizzonti. Mi arrivarono pensieri rivolti al passato, alle cerimonie che si sono succedute nei secoli nella grandiosa cattedrale; pensieri rivolti a chi l’ha ideata, a chi l’ha costruita, a chi è arrivato a mettervi piede, a inginocchiarsi su quei banchi. I re di Francia, i nobili, gli aristocratici, i potenti del mondo, i componenti del Terzo Stato, le processioni delle monache e dei frati, il popolo più umile, accanto a Napoleone, la variegatissima specie dei devoti e dei visitatori. Più recentemente i funerali di Mitterrand trasmessi in mondovisione. E il canto, l’organo, la musica, l’armonia, che coinvolgono e abbracciano le menti dei fedeli e degli agnostici. E le prediche di Bossuet, il più grande oratore di Francia, che sapeva commuovere e incantare gli ascoltatori.

 

In mezzo e oltre questa folla di pensieri, mi arrivarono alla mente gli angeli, gli arcangeli, i serafini e i cherubini...

 

In quei momenti fui come rapito da sentimenti di grandiosa felicità. Un sentirsi alle porte del cielo, avvolto da una nobile beatitudine. È questo lo stato d’animo con cui vorrei affrontare il momento della grande chiamata.

 

Alla nascita mi sono stati dati alcuni talenti: sono stato capace di farli fruttare per me e per il prossimo? So bene di chiedere troppo, ma vorrei essere giudicato in quei momenti avvolto nello stato di grazia appena accennato.

*editore - articolo apparso sulla rivista il Ceresio

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