Di Bruno Balestra *
Ignorando gli atti processuali, amministrativi e parlamentari, questa riflessione può solo cercare un buon senso nelle informazioni e testimonianze diffuse dai media. Ho ammirato il coraggio di vittime e testimoni, in particolare quelli che si sono lasciati intervistare a viso aperto, e ritengo assolutamente importante rispondere alla esplicita richiesta delle vittime circa un pubblico riconoscimento della verità.
Una verità che oltrepassa il limiti di quella tecnico-processuale che, per quanto possibile ha attribuito alcuni fatti all’accusato. Una verità che riconosca e restituisca dignità alle vittime che non erano state ritenute degne di quella credibilità e attenzione che avrebbe permesso di aiutare anche l’autore. Una verità di cui ha bisogno ognuno di noi per il credito di fiducia verso le istituzioni.
Possiamo ricordare che, per fatti ben più atroci, in Sud Africa la Commissione per la verità e la riconciliazione aveva anteposto la ricerca della verità al desiderio di punire. Non si tratta ora di cercare colpe penali, amministrative o morali nei comportamenti di chi, prestando maggior attenzione all’altro, avrebbe potuto interrompere un ripetersi di eventi durati anni, occorre piuttosto favorirne il coraggio e il senso di responsabilità.
Interroghiamoci piuttosto sui silenzi, sul bisogno di anonimato di quei testimoni che hanno però ammesso il proprio rimorso per non aver reagito con la necessaria attenzione umana a quanto stava accadendo.
Quanto nell’odierna società, nei diversi contesti e non solo nell’amministrazione cantonale, sappiamo davvero prenderci cura dell’attenzione per l’altro? Quanto invece la nostra abilità preferisce badare ai fatti nostri trincerandosi dietro presunte incompetenze formali?
Inchieste o audit per migliorare il sistema con nuove direttive burocratiche potranno anche essere limitatamente utili, ma occorre una duplice consapevolezza:
La prima che il sistema è un’astrazione e il rispetto per la dignità dovuta alle vittime può esser restituito loro solo da chi al riconoscimento della loro persona umana ha anteposto l’attenzione per altre priorità e competenze; la seconda che l’anonimo sistema siamo noi, che ogni nostra azione o omissione ha inevitabilmente effetti e retroazioni su altre persone.
L’astrazione delle norme può illudere qualcuno di una falsa perfezione sulla quale facilmente misuriamo gli errori altrui e nascondiamo i nostri.
Più che uno Stato “perfetto” che non lascia trasparire errori abbiamo bisogno di un sistema che, oltre le strategie partitiche, incrementi la reciproca fiducia e ciò non può prescindere dalla sincerità.
Forse ad alcuni la riflessione può sembrare un bel discorso teorico o utopico, per chi condivide i valori della Dichiarazione universale dei diritti umani, che vorrebbero considerare l’uomo come fine e non come mezzo, la buona notizia è che i mezzi ci sono.
Educhiamoci ed educhiamo anche nelle scuole a essere più abili nel rispondere agli altri imparando ad ascoltarci, riconoscerne bisogni e timori. Creiamo a casa e negli uffici degli spazi, di autentica condivisione dei disagi, momenti di valore (anche in termine di rendimento) che non vengano percepiti come perdite di tempo per paura di esporci.
Chiudo con una domanda provocatoria per ognuno di noi: ammettiamo per ipotesi che qualcuna delle persone che a suo tempo fu in condizione di prestare una “diversa attenzione” ai fatti trovasse oggi il coraggio di esprimere, pubblicamente e alle vittime, il proprio sincero rammarico, noi saremmo capaci di apprezzare il suo gesto di adesso? O prevarrebbe l’abitudine al giudizio, al rimprovero, magari alla gogna per quanto non fatto allora?
* ex procuratore generale