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Il Federalista
04.03.2024 - 10:480
Aggiornamento: 06.03.2024 - 08:52

Mirante: "Serve coraggio: le aziende che versano salari italiani non devono stare in Ticino ma in Italia"

Il Federalista intervista l'economista e deputata di Avanti: "Le politiche economiche di Masoni? Non le condivido. Ma almeno allora c'era una strategia. Oggi è il vuoto"

a cura della redazione de ilfederalista.ch

LUGANO - Da giorni, in parallelo alla vasta operazione “sciopero degli statali”, si sta svolgendo sui media locali un dibattito non privo di interesse lanciato dal direttore de laRegione Daniel Ritzer sulla scorta di un precedente fondo di Pietro Martinelli. A tema il “caso Ticino”, quello di un Cantone che le statistiche collocano in posizione “fanalino di coda” per quanto riguarda il livello medio dei salari. Ma al tempo stesso il Ticino guida la classifica intercantonale quanto a proporzione di manodopera frontaliera e conseguenti effetti di dumping salariale, stante il differenziale economico rispetto al bacino di provenienza dei frontalieri stessi, l’Italia.

Siamo anche il Cantone che svetta su tutti per mole di impiegati pubblici e quello con il maggior numero di cittadini e famiglie che fanno ricorso all’assistenza. E siamo, infine, un piccolo Stato con un debito pubblico elevato, alle prese con aumenti cronici di bilancio (il che ci riporta al tormentato preventivo 2024 che sta all’origine delle proteste di cui sopra).

Manca però ancora una variante, giusto per rendere più complicata l’equazione: allo scopo di aggiustare il quadro, il ministro cantonale dell’economia ha messo sul tavolo qualche mese fa una proposta di revisione dell’impianto fiscale, (non solo ma anche) per cercare di riportare le aliquote fiscali degli alti redditi a un livello concorrenziale con gli altri Cantoni, ovvero, in altre parole, per evitare che sfuggano dal territorio le cosiddette “galline dalle uova d’oro” (con conseguente impoverimento del substrato fiscale del Cantone).

Insomma, se ci avete seguito fin qui, siamo di fronte a un’equazione difficile, una sorta di circolo vizioso e, come spesso accade, ognuno è tentato di sentenziare se sia venuto prima l’uovo o la gallina. Ritzer, da parte sua, non ha dubbi nello spezzare il cerchio e individuare l’origine dei nostri mali socioeconomici: i bassi stipendi, da mettere sul conto della classe imprenditoriale ticinese, della sua mancata responsabilità sociale (per non dire ingordigia) e del suo scarso dinamismo. Entriamo nel merito con Amalia Mirante, economista e deputata in Gran Consiglio per Avanti con Ticino&Lavoro.
 
Manodopera a basso costo, croce e delizia dell’economia ticinese?
"Il fatto di ricorrere a manodopera a basso costo, spesso anche qualificata, è stato da sempre uno dei nostri vantaggi competitivi. Questo ha portato a sviluppare un tessuto di industrie (rispetto per esempio alla Svizzera interna, dove occorreva competere sulla qualità e non tanto sul prezzo) che vengono definite “intensive di lavoro” anziché “intensive di capitale”. È così mancata tutta quella fase di competizione basata sul progresso tecnologico, sull'innovazione. Quindi, il nostro tessuto economico era già piuttosto fragile. Quello che poi è accaduto con gli accordi bilaterali è che non c'è stato più nemmeno un minimo di -se vogliamo- contenimento di un'economia che già andava nella direzione sbagliata. Ecco perché quelli che erano dei vantaggi competitivi che venivano messi a frutto in modo ragionevole sono diventati, purtroppo, la regola del gioco. Per cui ci ritroviamo oggi con un tessuto produttivo che potrebbe essere sicuramente più sano".

 Si riferisce in particolare alle aziende venute da fuori Cantone?
"Mi riferisco a quelle aziende che non sono in grado di versare dei salari per i residenti e che hanno esclusivamente manodopera non residente. Sebbene io non neghi che l'arrivo di alcune aziende che mettono a frutto giustamente i vantaggi competitivi che offre la Svizzera (con l’aggiunta del vantaggio competitivo geografico del Canton Ticino) abbia avuto aspetti positivi. Ma chiediamoci: è sano che siano qui se poi esercitano una pressione al ribasso su tutta l'economia?".

Non solo sui salari bassi, a suo parere?
"Fino a qualche anno fa la pressione si esercitava sui bassi salari, adesso ormai riguarda i salari medi e medio alti. Questo vuol dire che la concorrenza non è più limitata esclusivamente alle realtà delle professioni per così dire “meno qualificate”, ma si sta portando anche su quelle più qualificate. E il fattore su cui si gioca rimane purtroppo ancora sempre il prezzo, quindi il salario. Sono convinta che i prossimi dati che usciranno lo confermeranno".

Nella polemica in corso si rileva criticamente che l’afflusso di queste aziende sia in gran parte dovuto alle politiche economiche messe in atto in Ticino a partire dalla metà degli anni 90 e fino ai primi anni 2000, che puntavano su agevolazioni fiscali allo scopo di attirare le imprese, anche estere, sul nostro territorio. Condivide la critica?
"Le politiche economiche che si possono adottare non sono molte. Quindi, puntare il dito su scelte fatte in passato secondo me serve a poco. Quello che rincresce è che non si sia riusciti, una volta entrati in contatto con determinate aziende, a costruire un vero “tessuto industriale” sul territorio. Prendiamo il settore della moda. Anzitutto non si tratta di aziende arrivate qui solo grazie alle agevolazioni cantonali, ma anche grazie al contesto internazionale che inquadrava comunque la Svizzera come un Paese dove risparmiare fiscalmente in maniera assolutamente legale: è questo che ha portato alcuni grandi marchi a trasferirsi da noi. Il problema sta nel fatto che l'immobilismo del Cantone ha fatto sì che non si siano create delle condizioni e coltivate delle relazioni tali da mantenere queste aziende sul territorio anche una volta poi passati i periodi di agevolazioni fiscali che, secondo me, non sono tanto quelle cantonali bensì quelle a livello nazionale". 

Nel Cantone, quelle politiche furono promosse da Marina Masoni, nell’ambito del cosiddetto pacchetto delle “101 misure”. Alcuni dati statistici mostrano, tra il 1996 e il 2008, un costante miglioramento dei parametri economici cantonali, la cui crescita si è progressivamente attenuata in seguito.
"L'economia è fatta di talmente tanti fattori che individuare -togliendo tutto il contesto internazionale- quali siano stati i fattori che hanno portato a quei risultati è davvero molto difficile. Pur non condividendo molte di quelle 101 proposte, da un punto di vista economico, di una politica economica, devo riconoscere che purtroppo quello è stato l'ultimo periodo politico in cui ci sia stata quantomeno una strategia di sviluppo. Quantomeno c'era un'idea di che cosa si voleva fare, di che tipo di economia volevamo avere. Adesso è il vuoto, adesso in quel campo non c'è nulla".

Accidenti, si tratta di incompetenza, di interessi o di cos’altro?
"Non incompetenza, neppure interessi, che è normale che vi siano, com’è legittimo che una parte della classe politica veda nel libero mercato portato all'estremo la soluzione a tutti i mali. Com’è chiaro che riflettere su quello che sarà il Canton Ticino fra 10 anni probabilmente elettoralmente non paga. Col massimo rispetto… però è chiaro che la politica di sviluppo economico e di sostegno all'economia, o lo stesso tema del lavoro, non siano una priorità di questo Governo, come non mi sembra lo sia stato dei Governi passati. Se non c'è la priorità del lavoro, tutto quello che riguarda l'economia viene meno".

Lei dice spesso, l'ha detto più volte anche a noi del Federalista, che sarebbe ora, per uscire da questo circolo, di alzare i salari. Sarebbe ora che in Ticino ci fossero finalmente dei salari svizzeri. Ma quante aziende attive sul nostro territorio hanno veramente la possibilità di alzare i salari. E quali dovrebbero chiudere (cancellando posti di lavoro) se si volesse andare in quella direzione?
"Occorre essere anche un po’ coraggiosi. Essere coraggiosi vuol dire riconoscere che probabilmente ci sono delle aziende nel territorio - non abbiamo niente contro queste aziende - che di fatto, da un punto di vista -paradossalmente- dell'economia di mercato, non hanno ragione di stare qui. Cioè se un'azienda non fa utili tali da permetterle di pagare degli stipendi che consentano ai suoi dipendenti di risiedere nel Cantone, evidentemente non farà neppure dei grandi profitti: in termini di imposte lascerà poco o niente, generando però conseguenze negative, a cominciare dalla pressione sui salari, passando per il traffico ecc. Ecco, bisogna mettere sulla bilancia queste cose e avere il coraggio di dire che queste aziende non devono stare nel Canton Ticino. Insomma, se si versano salari italiani è buono e giusto che si operi in Italia".

Ma come tutto ciò incide sul fatto che sempre più persone in Ticino chiedono aiuti sociali? Lo Stato sostiene i redditi bassi perché questo tipo di economia non riesce a pagare i propri collaboratori che risiedono in loco?  
"La domanda è: vogliamo un Cantone-fabbrica? Quello che sta accadendo è che i giovani, quelli che finiscono di studiare qui, se ne vanno. I giovani che hanno studiato all'estero non rientrano. E questo significa che le famiglie le fanno fuori Cantone difficilmente rientreranno in Ticino. Siamo in una situazione nella quale un cinquantenne che perde un posto di lavoro non riesce a trovarlo e tanti iniziano a lavorare, ad esempio, due o tre giorni in Svizzera interna, mentre negli altri due fanno home office. In Ticino abbiamo gli anziani che non riescono più a vivere con la loro pensione, che iniziano a pensare di andarsene dal Ticino. Qui ci rimarranno solamente frontalieri, che vengono al mattino, lavorano e se ne vanno la sera? Il dramma di questo Cantone è questo".

Cosa pensa dell'adeguamento delle aliquote fiscali per gli alti redditi? Un'inutile “regalo ai ricchi” o un modo sensato per non farli scappare?
"Non ho niente a priori contro la riduzione delle aliquote, quello che ho trovato sbagliato in questa decisione è la tempistica: cioè, in un momento così delicato per il Canton Ticino sono certa che queste persone ad alto reddito erano e sono disposte a veder posticipare questo tipo di misure di qualche anno. Per me il concetto è che lo Stato deve prendere le risorse ai cittadini nella minor misura possibile, ma che sia compatibile con i compiti che i cittadini decidono di fargli svolgere. Come sono disposta a scendere sulle aliquote, se si vogliono più compiti sono anche disposta ad aumentarle. Non ci sono tabù “fiscali”. Secondo me si dovevano mettere in atto tutte le altre tre misure e per quest’ultima attendere, quantomeno, la revisione dei conti dello Stato".

Ci sarebbero altre “questioncine” in ballo, come quella della perequazione intercantonale o quella del “freno alla spesa”, ma ci fermiamo qui, perché i lettori hanno da leggere il prossimo contributo che offriamo loro quest’oggi, non meno importante a nostro avviso…
" … sulla perequazione (quei 3-400 milioni in più che dovrebbero arrivarci da Berna) mi lasci dire solo che forse non è un tema molto “sexy” da portare in campagna elettorale, perché è un tema tecnico. Ma mi sembra che quantomeno il Governo se ne stia occupando e anche i nostri deputati a Berna qualcosa stiano pensando di fare".

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