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Il Federalista
15.05.2024 - 17:320

Il macello del Myammar tra corruzione, droga e tortura. Con le nostre armi

C'è un'altra guerra che non gode di grandi titoli, forse perché affligge un popolo troppo lontano e non si lascia interpretare con gli schemi delle tifoserie dei college e non si può neppure mettere sul gobbo di cinesi e/o americani

Redazione Il Federalista

C'è un'altra guerra che non gode di grandi titoli, forse perché affligge un popolo troppo lontano (dalla nostra cultura) e non si lascia interpretare con gli schemi delle tifoserie dei college e non si può neppure mettere sul gobbo di cinesi e/o americani. Eppure, la guerra civile che sconvolge il Paese degli stupendi templi buddisti vede in campo le giovani generazioni di tante etnie diverse che si battono per un valore che noi europei conosciamo bene, la democrazia. Eppure un "colpevole" contro cui scagliarsi c'è: si chiama "lobby delle armi" e coinvolge tanti Paesi europei. Dopo il Sudan, vi parliamo di un'altra guerra dimenticata, quella del Myanmar.

Tra le 59 guerre in corso sulla Terra (solo guerre doc, ovvero “ad alta intensità”) il macello in corso in Myanmar, che martirizza milioni di persone di numerose etnie, gode di un cono d’ombra esemplare. Forse una delle ragioni che rendono questa guerra poco frequentata dai media occidentali è che essa sfugge ai nostri schemi interpretativi, siano essi ideologici o geopolitici.

Se infatti destra e sinistra, marxismo e liberismo sono categorie inservibili nel Paese dei mille templi buddisti (stimati in 2000 soltanto nell’omonima Valle e ancora preservati a beneficio dei turisti), neppure le connessioni con i giganti globali, USA e Cina, che subito cerchiamo di scovare per poterci orientare in mezzo al conflitto in corso, ci azzeccano.

Rimane, in qualche modo, la distinzione a noi famigliare tra democrazia e dittatura militare: di qua la mitica signora Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, una donna che ha trascorso buona parte della vita agli arresti domiciliari e che, tornata in libertà nel 2010, trionfò nel 2015 alle prime reali elezioni democratiche dopo 50 anni di dittatura militare seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale; di là il generale Min Aung Hlaing, che nel 2021 con un colpo di Stato impedì alla coraggiosa Suu Kyi, nuovamente vincitrice delle elezioni, di svolgere il suo secondo mandato, confinandola di nuovo agli arresti.

Le colpe di Aung San Suu Kyi, la corruzione dei golpisti

Ma le cose si complicano poiché lo stesso Governo di Aung San Suu Kyi aveva mantenuto di fatto uno stretto legame con il potere dei militari. Peggio, come qualcuno ricorderà, poiché l’esile donna di ferro aveva dapprima ignorato e poi difeso la persecuzione della minoranza musulmana dei Rohingya. Fu questo, in particolare, che le alienò buona parte della simpatia e del sostegno dei Paesi occidentali.

Quanto ai militari, “Min Aung Hlaing e la sua famiglia sono coinvolti in molti affari, grazie al fatto che il generale è al vertice di un impero economico corrotto sostenuto dal potere dell’esercito”, spiega l’organizzazione Justice for Myanmar (Jfm), che da anni si batte per la giustizia nel Paese dell’Asia.

Ma non è tutto. A rendere il contesto indecifrabile nell’ottica dei nostri parametri geopolitici contribuisce il fatto che nel giro di pochi anni si è passati da una situazione che vedeva la Cina supportare la giunta militare e gli Stati Uniti promuovere sanzioni economiche per spingere verso riforme politiche, a una condizione in cui Pechino (impossibile qui dettagliare gli interessi economici -materie prime- e strategici della Cina in Birmania, dove il China-Myanmar Economic Corridor è un anello decisivo della Nuova Via della Seta) dialoga con l’opposizione, composta peraltro da una miriade di gruppi etnici e fazioni armate fino ai denti. E forse qui, nelle armi, possiamo scorgere un fil rouge che unifica le responsabilità internazionali nel dramma del Myanmar.

La lobby delle armi

Il “Consiglio consultivo speciale per il Myanmar”, un gruppo internazionale indipendente che lavora “per sostenere i popoli del Myanmar nella loro lotta per i diritti umani, la pace, la democrazia, la giustizia e la responsabilità”, ha diffuso un anno fa un documento molto dettagliato, che rileva come “aziende legalmente domiciliate in Israele, Cina, Singapore, India, Giappone, Corea del Sud, Corea del Nord, Russia, Ucraina, Francia, Austria e Germania forniscono macchinari, software e materie prime che poi vengono utilizzate dai militari per produrre armi da usare all’interno del Paese”.

Gli estensori (tutte personalità che hanno svolto compiti in organismi delle Nazioni Unite) non lasciano scampo a quella che papa Francesco è solito indicare come “la lobby delle armi”: “Le aziende straniere permettono all’esercito del Myanmar – uno dei peggiori violatori dei diritti umani al mondo – di produrre molte delle armi che utilizza per commettere atrocità quotidiane contro il proprio popolo”.

Le atrocità commesse dal regime militare

Per entrare nel dettaglio, è soprattutto la popolazione giovane che si impegna nel divulgare sui social media tali atrocità, in gran parte commesse dalla Giunta militare che governa il Paese: migliaia di civili incarcerati e torturati, crude uccisioni di bambini colpiti alla testa da armi da fuoco e attacchi aerei su scuole, ospedali e altri edifici civili. L’ultimo di questi attacchi lo riporta AsiaNews, che informa del bombardamento che ha distrutto un monastero nel villaggio di Akyi Pan Malun, nella regione di Magwe (qui sotto l’immagine).

L’attacco delle forze militari fedeli della Giunta ha ucciso almeno 14 persone e ne ha ferite almeno 30, civili che si erano lì riuniti all’interno del monastero.

"Generazione Z, rapper, giovani buddisti hanno imparato a sparare"

Di bilanci delle vittime, in una situazione dove le comunicazioni digitali sono state disconnesse dal Governo golpista, è impossibile stilarne. Quel che si sa, attraverso l’Onu, è che la guerra civile in Myanmar ha già prodotto tre milioni di sfollati e 17,6 milioni di persone in stato di necessità umanitaria (quasi un terzo della popolazione). Gli attuali scontri armati originano dalle numerose proteste pacifiche inscenate dalla popolazione dopo il colpo di Stato del 1° febbraio 2021.

La risposta del Governo, pochi giorni dopo, è l’uccisione del primo manifestante, una donna di vent’anni mescolata alla folla in protesta e presa di mira dai cecchini della Giunta. Prima vittima di una lunga serie: da allora, riporta il New York Times, i morti tra i soli manifestanti sono 4800 e 26.500 persone arrestate. La stessa testata americana riporta le parole di Maui Phoe Thaike, fino a pochi anni fa agronomo ambientalista e ora vice comandante della Karenni Nationalities Defense Force (KNDF), uno dei tanti gruppi armati di ribelli sorti nei mesi successivi al colpo di Stato: "Abbiamo cercato di protestare pacificamente, ma l'unico linguaggio che l'esercito birmano capisce sono i proiettili. La resistenza armata è stata l’unica scelta possibile”.

A compiere questa scelta sarà una buona parte della popolazione, riferisce il NYT: “Con i cecchini militari che sparavano su manifestanti e passanti disarmati, tra cui dozzine di bambini, si è coalizzata una resistenza armata. Decine di migliaia di professionisti e membri della generazione Z si sono rifugiati nella giungla. Rapper, monaci buddisti e politici, tra gli altri, hanno imparato a sparare e ad armare i droni”.

Non solo i Rohingya

Si stima che oggi le varie forze della resistenza controllino il 50% del Paese. Ma si tratta di una resistenza estremamente frammentata. Più di una dozzina i grandi gruppi etnici armati, uniti da un nemico comune ma mossi da disegni anche contrapposti in vista del controllo del territorio e delle sue preziose risorse naturali. La popolazione del Myanmar è in maggioranza composta da birmani (buddisti), mentre le minoranze, quasi tutte concentrate nei territori di confine, sono le etnie Karen, Shan, Mon, Chin, Kachin, Rohingya.

Esse si distinguono dal resto della popolazione birmana per lingua o per religione professata, come nel caso dei Rohingya, l’etnia a maggioranza musulmana di cui le cronache si sono ampiamente occupate nel corso del 2017, quando la persecuzione da essa subita per mano della maggioranza buddista indignò giustamente l’opinione pubblica in Occidente come, ovviamente, nel mondo islamico.

Il crollo dell'economia, l'oppio per comperare le armi

Due notazioni infine, ci permettono di mettere a fuoco altrettanti conseguenze drammatiche del conflitto birmano. Otto anni fa l’economia del Myanmar stava crescendo più velocemente di qualsiasi altra economia al mondo: dopo aver vissuto per decenni in isolamento, il Paese si era aperto agli investimenti esteri, creando milioni di posti di lavoro e promuovendo uno sviluppo tecnologico senza precedenti. Ora, nell’indifferenza globale, la guerra civile che dura dal 2021 lo ha ridotto in uno stato pietoso.

L’economia è crollata, lo rivela uno studio pubblicato il mese scorso dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite. La classe media, realtà nata e fiorita nel citato ultimo decennio, si è dimezzata in tre anni, e metà della popolazione vive con meno di 76 centesimi di dollaro al giorno. Buona parte della gente ha perso il lavoro, chi per aver subito la distruzione o la chiusura del proprio luogo di impiego, chi per essere stato costretto a fuggire dalle zone di più intensi combattimenti. In tre anni il PIL ha registrato una contrazione del 18%.

D’altra parte, se l’economia è in declino, la Giunta militare come tutti i gruppi armati hanno necessità di finanziarsi. A farne le spese è la popolazione civile. confrontata con l’esplosione della criminalità. Il Myanmar è divenuto nell’ultimo anno il più grande produttore mondiale di oppio e nella giungla proliferano le fabbriche che producono metanfetamine e altre droghe sintetiche. I criminali informatici sono peraltro numerosissimi, dediti a truffe ai danni di americani, asiatici ed europei.

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