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Disforia di genere, nel nord Europa si inverte la rotta. Ma in Svizzera...
Il Federalista intervista un esperto. La storia dei genitori a cui è stata tolta la custodia della figlia 15enne, la ribellione di un gruppo di psichiatri

Redazione de Il Federalista

Chi negli ultimi anni, chi negli ultimi mesi, molti Paesi Europei – tra questi Finlandia, Regno Unito e Svezia, baluardi dei diritti civili – hanno invertito la rotta in ambito di cura della disforia di genere. Non più ormoni e chirurgia, ma sostegno psicosociale e psicoterapeutico della persona, in particolare in età giovanile.

Forse -verrebbe da dire- che per diventare ragionevoli sul tema si debba prima rovinare un'intera generazione di ragazzi con bloccanti della pubertà, cure ormonali e mutilazioni irreversibili? Nella direzione opposta ai Paesi nord europei sembrano infatti muoversi Germania e Austria, e con loro - ahinoi - la Svizzera, inspiegabilmente incuranti delle sofferte esperienze dei cugini settentrionali.

Oggi la Società Svizzera di Psichiatria e Psicoterapia Infantile e dell'Adolescenza (SSPPIA) si riunirà in occasione dell'incontro annuale dei delegati per discutere la nuova bozza di linee guida su “Incongruenza di genere e disforia nei bambini e negli adolescenti”. Lo riportava nei giorni scorsi la Sonntagszeitung.

A tali linee guida lavora da anni un gruppo di 27 società specializzate tedesche, austriache e svizzere, tra le quali anche appunto la SSPPIA.

Non tutti sono però concordi sulla linea prevista, che sembra puntare sull’ "approccio affermativo", ovvero quello adottato per anni nei Paesi nordici, in forza del quale quando un giovane annuncia di percepire che il suo genere è diverso dal suo sesso, la sua percezione non deve essere messa in discussione.

A opporsi a questo approccio e a proporne uno più "psicoterapeutico" è la sezione di Basilea della stessa SSPPIA, la quale ritiene inoltre che il processo di consultazione sia stato troppo breve e condotto in modo poco aperta e trasparente.

Un dibattito superato

“Approccio affermativo” contro “approccio psicoterapeutico”. Sono le due posizioni che hanno caratterizzato il dibattito sul tema negli ultimi anni in Occidente. A detta di Luca Luigi Ceriani, psicoterapeuta, collaboratore dell’Università Cattolica di Milano, tuttavia, “il confronto prima molto acceso tra professionisti oggi risulta molto attenuato, complice un mutamento del contesto politico–culturale e un approccio meno ideologico al problema”.

Dopo le reazioni accese dalla “Ley Trans” spagnola (aprile 2023), la quale consentiva ai minori di 16 anni di iniziare un percorso di transizione senza diagnosi e anche senza il consenso di genitori e psicologi; e dopo il caso britannico della Clinica Tavistock, la quale registrava circa 5000 percorsi di transizione l’anno prima delle contestazioni che la portarono alla chiusura, seguì il “Rapporto Cass”, eseguito su mandato governativo, che suggerì un dietrofront generale sul tema (ne avevamo parlato qui).

Sulla scia di questi eventi gli psichiatri di Basilea evidenziano il rischio di favorire una “epidemia di autoconvinzioni ingannevoli” tra i ragazzi. Per Ceriani un pericolo reale: le diagnosi rischiano talvolta di influenzare le decisioni. “Esiste senza dubbio un disagio diffuso tra gli adolescenti, ma il rischio è che, se lo etichettiamo clinicamente, finiamo per classificarlo senza affrontarlo realmente. Questo disagio richiede l’intervento di psicologi, educatori, insegnanti e altri operatori; limitarsi a una classificazione univoca può risultare insufficiente.”

Di questo disagio Ceriani ha appena parlato in un libro, pubblicato da Ares (“Agio o Disagio? Domande e risposte sulla sfida di crescere”): “Questo disagio – spiega – non è un fenomeno esclusivamente clinico, ma anche culturale, sociale, legato all’epoca in cui viviamo.

Se ti tolgono la figlia

Di recente, a Ginevra, due genitori si sono visti sottratta la figlia per essersi opposti alle cure ormonali che le erano state proposte (lo riportava la NZZ am Sonntag).

A 13 anni, la ragazza aveva iniziato a sentirsi sbagliata nel suo corpo, in concomitanza con un terremoto famigliare. Il padre bloccato all’estero per impegni lavorativi e a causa del covid, la madre rimasta sola e il divorzio tra i due, successivo al ritorno del padre.

Tutti fattori non considerati, a detta dei genitori, dalla perizia psichiatrica che ha portato a diagnosticare la disforia. Una diagnosi che fu loro spiegata -raccontano- tramite l’ausilio di un unicorno arcobaleno, simbolo attivista LGBTQ+ che raffigura l’essere “neutro” e asessuato.

I genitori hanno comunque accolto la sofferenza della figlia, l’hanno accompagnata in un percorso psicoterapeutico, assecondando le sue richieste di tagliare corti i capelli, vestirsi da uomo e indossare una fascia contenitiva per i seni.
A loro insaputa, la scuola (privata) proponeva intanto colloqui alternativi alla giovane, nella convinzione che l’ambiente familiare, opponendosi a farle iniziare cure ormonali, fosse un ostacolo alla sua affermazione di genere. Tra gli attori coinvolti anche “Le Refuge Genève”, un centro di accoglienza per giovani LGBTQ+ sovvenzionato dallo Stato. L'assistente sociale che ha accolto l’adolescente, preoccupata per il fatto che la giovane dovesse scegliere tra identità di genere e famiglia, ha informato l'autorità per la protezione dell'infanzia.

Autorità che ha poi preso decisioni sempre più pesanti: Il 27 febbraio 2023 è stato assegnato un tutore alla ragazza. Il 24 aprile 2023 i genitori vengono privati della custodia, la giovane viene affidata a un centro giovanile residenziale. Ad agosto 2024 viene sospeso il loro diritto di visita alla ragazza.

La chiave: ascoltare il disagio

Ma quale facoltà ha un minorenne di decidere in un processo che può includere interventi chirurgici? Giriamo la domanda a Ceriani: “La facoltà decisionale di un minorenne è molto dubbia. Ma il punto vero è che non possiamo limitare il disagio a una semplice interpretazione clinica. Certo, un adolescente non finge di star male. E molte volte, dietro questa sofferenza, ci sono questioni legate all’affettività, all’orientamento e all’identità sessuale, in quanto siamo in un’età in cui emergono queste domande. Prima di classificare e diagnosticare dobbiamo ascoltare con attenzione. Spesso, dietro la “maschera” della disforia di genere si nascondono sofferenze diverse, che potrebbero essere più vicine a quelle della depressione”.

“Il tema del rapporto con il proprio corpo è complesso e psicologicamente significativo: il problema non può essere ridotto a “sistemare il corpo”; piuttosto, potrebbe essere più utile aiutare il giovane a percepirlo diversamente, specialmente in un’età in cui la percezione corporea è spesso distorta”.

Talvolta però viene detto esplicitamente ai genitori che opporsi alla richiesta del figlio può comportare il rischio di suicidio: “Il rischio di suicidio in un adolescente è sempre presente”, ribatte Ceriani. “Si badi che dopo il covid, i tentativi di suicidio sono quadruplicati. C’è un disagio più ampio che non viene ascoltato e la disforia di genere ne è solo una piccolissima parte”.

Vi sono quindi specialisti che banalizzano l’argomento? “Non direi che banalizzano – risponde Ceriani – direi piuttosto che quando si parte da una premessa diagnostica pregiudiziale, è poi facile trovare ciò che si cerca”.

“Serve una grande apertura”, afferma lo psicoterapeuta, “visto che gli adolescenti sono i pazienti più difficili, poco disposti a parlare e spesso “molto nascosti”. Non voglio dire che la psichiatria cerchi risposte facili, però ci sono patologie che sono figlie dell’epoca. Se penso alla mia generazione, molti di noi sono cresciuti senza tonsille o appendice. Insomma, la storia della medicina è anche una storia di esagerazioni terapeutiche – senza ovviamente dimenticare il bene prodotto dal progresso medico. Il punto è che sul tema dell’identità e dell’orientamento sessuale, la risposta, forse, non dovrebbe essere preconfezionata”.

Dire che la risposta non è preconfezionata include anche il caso in cui un ragazzo possa essere allontanato dai suoi genitori per un conflitto su questo tema? “È una questione delicata e, se succede, dovrebbe essere affrontata con estrema cautela, ma devo dire che in trent’anni di esperienza, ho visto raramente ragazzi allontanati dai genitori perché i genitori si opponevano a una diagnosi psichiatrica”.

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