Il Federalista propone una prima lettura della vertiginosa politica trumpiana dei dazi in compagnia di due economisti, Giovanni Barone Adesi e Amalia Mirante
Dal Papa all’imperatore... Del quale, forse, occorre non sottovalutare troppo le capacità di negoziatore che, sia pure con modalità western, dal mondo degli affari ha saputo trasferire a quelli della diplomazia e dei mercati commerciali. Tra martedì e giovedì il presidente Donald Trump compie il suo primo viaggio all’estero. Tra Ryad, Abu Dhabi e Doha il “presidente più pazzo del mondo” giostrerà tra cascate di miliardi e doni (in entrata), assegni per Paesi arabi in ri-costruzione (in uscita) e pressioni diplomatiche volte a fermare guerre e disinnescare tensioni. Intanto, Washington ha siglato un primo abbozzo di accordo con Pechino che riporta la pace negli scambi commerciali tra i due imperi. Cerchiamo di dare una prima lettura della vertiginosa politica trumpiana dei dazi in compagnia di due economisti, Giovanni Barone Adesi e Amalia Mirante.
Il nuovo imperatore del mondo, in giacca e cravatta, rende visita alle munifiche teste coronate del Golfo. Sulla soglia delle sfarzose corti arabe, intanto, gli umili e spiantati capi popolo della Provincia più agitata e rissosa dell’impero, il Medioriente, chiedono udienza. Escluso dai ricevimenti sarà di certo il bellicoso Governatore del piccolo e accerchiato feudo in guerra – sin dal suo sorgere – con tutto il vicinato.
Alla vigilia del viaggio – il primo dopo la rielezione, funerali di Francesco a parte– l’imperatore Trump si è concesso una trattativa diretta con i banditi di Hamas, spuntando la liberazione di un ostaggio israelo-americano, Edan Alexander (dopo 584 giorni di prigionia). C’è chi ipotizza che l’Amministrazione USA possa assicurarsi accordi diretti con Hamas e gli Houthi, aggirando Israele. Netanyahu li ostacolerà? Sullo sfondo del viaggio di Trump, che toccherà Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi, vi sono in prospettiva investimenti miliardari di petrodollari negli Stati Uniti.
Per la cronaca spicciola, tra i doni di contorno previsti vi è quello del “Palazzo volante”, un jet Boeing 747-8 di lusso (400 milioni di dollari) che la famiglia reale del Qatar si appresta a regalare all’imperatore del mondo (e già oggetto di polemiche legali negli USA), nella prospettiva che alla fine del suo mandato sia trasferito a una fondazione di Trump. Ma c’è dell’altro: il presidente siriano ad interim Ahmad al-Sharaa è pronto a offrire al presidente degli Stati Uniti la possibilità di costruire un Trump Tower a Damasco, insieme alla promessa di distensione con Israele e all’accesso degli USA a petrolio e gas siriani.
I poveracci fuori dalla porta
È tuttavia poco probabile che al-Sharaa possa stringere la mano a Trump, sebbene non si escluda l’eventualità di colloqui con i suoi collaboratori più stretti. Ad affollare le sale d’aspetto dei monarchi arabi vi saranno altri due postulanti di rilievo, due figure cruciali nel panorama mediorientale, che quasi certamente dovranno accontentarsi di incontrare il Segretario di Stato USA Marco Rubio.
Si tratta del presidente palestinese Mahmud Abbas (attualmente in Russia: potrebbe essere sostituito dal suo vice Hussein al-Sheikh) e del presidente libanese Josef Aoun. Per la ricostruzione del Libano il sostegno degli Stati Uniti può rivelarsi decisivo, sia sotto forma di investimenti miliardari di cui il Paese dei Cedri ha assoluto bisogno (si pensi soltanto alla ricostruzione della periferia meridionale di Beirut e di interi villaggi nel sud del Paese, rasi al suolo dai bombardamenti israeliani), ma soprattutto per operare il disarmo di Hezbollah.
Intanto sul fronte dei dazi, dopo le minacce di sfracelli è tempo di trattative. Ne svetta una su tutte: gli uomini del presidente hanno raggiunto un accordo di massima con i mandarini dell’altro impero, quello “di mezzo”, la Cina di Xi Jinping.
Breve cronistoria prima di entrare nel merito.
La danza dei dazi
2 aprile 2025: Trump firma l’Executive Order 14257: è introdotto un dazio generalizzato del 10% su tutte le importazioni e un ulteriore dazio di diversa percentuale per alcuni Paesi (tra i quali la Svizzera). Stratosferico quello imposto alla Cina: il 145%.
9 aprile 2025: Con l’Executive Order 14266 Trump sospende per 90 giorni (fino al 9 luglio) i dazi maggiorati previsti nell'ordine del 2 aprile.
11 aprile 2025: La Casa Bianca esenta semiconduttori, circuiti integrati e prodotti elettronici dai dazi del 10%.
8 maggio 2025: Gran Bretagna e USA sembrano aver trovato un accordo commerciale. Non sono ancora noti i dettagli, ma gli inglesi sono i primi ad aver trovato un'intesa con il Paese a stelle e strisce: la firma verrà apposta nelle prossime settimane.
11 maggio 2025: Cina e Stati Uniti avviano un dialogo. Sospendono gran parte dei dazi reciproci. La Cina mantiene tasse aggiuntive del 10%, gli Stati Uniti invece del 30%.
Gli USA hanno rimesso la politica al timone dell'economia
Dopo l’ondata di reazioni, polemiche e sberleffi, mentre il polverone si sta pian piano depositando, come giudicare l’offensiva di Donald Trump? Lo chiediamo agli economisti Giovanni Barone Adesi e Amalia Mirante. Ciò che sembrava inizialmente una provocazione si è rivelata una strategia ben definita?
“Difficile offrire interpretazioni certe al 100 percento,” osserva Barone Adesi, “però, da quello che l’amministrazione USA sta facendo, mi sembra che gli americani abbiano perseguito la stipula di accordi bilaterali a loro favorevoli, sfruttando il potere di mercato del loro Paese e decidendo caso per caso ciò che fosse loro più conveniente.” Gli USA paiono quindi più interessati a rinegoziare singoli rapporti commerciali che non a costruire un sistema multilaterale.
Secondo Adesi, “Trump si preoccupa molto delle classi sociali penalizzate dalle importazioni di beni industriali a basso costo. Vuole fare qualcosa per loro, naturalmente a spese di tutti”. Una politica, riconosce, che si colloca indubbiamente all’interno di un più ampio disegno di “nazionalismo economico”.
Anche Amalia Mirante vede una coerenza di fondo nella strategia del presidente americano: “Fin dall'inizio era chiaro che stesse facendo ciò per cui era stato eletto. Non sono piaciuti i modi, ma non c’è nulla di ‘bizzarro’ in quello che ha messo in atto. In fondo ha mostrato che se una superpotenza decide di far saltare certi equilibri, può farlo. E gli Stati Uniti hanno ancora in mano le leve del potere. Alla fine tutti quanti si sono detti che era meglio cercare accordi”.
Per Mirante, Trump è riuscito a porre sotto pressione i potentati economici. “Erano decenni che non si vedeva questo potere tornare in mano alla politica. Abbiamo vissuto decenni in cui sono state le grandissime multinazionali a dettare i tempi, i ritmi, le regole. Invece, in questo caso, ecco che la politica si è ripresa un potere che aveva dimenticato. Tant'è vero che molte aziende hanno annunciato di voler riportare una parte della produzione negli Stati Uniti”.
“E ciò significa -aggiunge Mirante- investimenti monetari. Vuol dire creazione di posti di lavoro, ricerca, sviluppo, gettito fiscale. Dai dazi, poi, Trump ottiene ulteriore gettito fiscale, poiché mantenendo i dazi al 10%, una parte di essi sarà assorbita dai produttori stranieri, non dai cittadini USA”.
Cina aggressiva... ma senta perdere i clienti
E che dire dei negoziati con la Cina, grande beneficiaria della globalizzazione e dei mercati aperti: come immaginarsi il proseguimento della trattativa tra Washington e il Dragone? Barone Adesi: “Sarà una trattativa molto difficile. In questo momento tutti sembrano euforici, ma ciò non significa che siamo arrivati a una conclusione soddisfacente per le due parti.”
“Ora la Cina ha tutto l’interesse a mostrare i muscoli, a comportarsi da superpotenza”, ragiona Mirante. “Ha fatto il gioco che doveva fare. Tuttavia, la sua dipendenza da mercati come quello americano resta elevata. Non dimentichiamo che il livello di benessere tra i due Paesi è ancora molto diverso”, aggiunge l’economista della SUPSI. “La Cina cerca di vendere là dove c’è reddito che possa acquistare. Se solo noi – in quanto europei e in quanto Svizzera – riuscissimo a darci una mossa, a non subire le trattative fatte da altri…”.
L’Europa che pensa solo agli affari rimane divisa
Vero. Eppure gli Stati Uniti ci costringono a ricordare come la Cina non sia solo un grande mercato nel quale fare affari, ma anche una dittatura, oppressiva per il proprio popolo e minacciosa per i nostri. Barone Adesi è scettico: “In teoria è vero, poi quando si passa alla pratica, agli affari, si tende a smussare il fattore politico-ideologico e l’interesse economico tende a prevalere”
L’UE per ora sembra restare spettatrice e vittima della sua stessa eterogeneità: “Devono decidere in 27, e questo rende tutto più difficile,” osserva Adesi. “Per esempio, i tedeschi dicono: ‘Apriamo l’agricoltura europea’, come carta di scambio con gli USA; mentre i francesi rispondono: ‘No, l’agricoltura va protetta’. La Svizzera ha perlomeno il vantaggio di essere uno Stato solo…”.
La Confederazione, appunto. Non arrischia di perdere posti di lavoro? Le aziende farmaceutiche, ad esempio, potrebbero spostare la produzione negli Stati Uniti. “La loro produzione è già negli USA, come anche buona parte dei loro comparti di ricerca e sviluppo: per esempio la famosa proteina Spike del covid fu scoperta da una filiale elvetica negli USA”. Per Barone Adesi, le imprese elvetiche non potrebbero comunque produrre tutto in patria, poiché le dimensioni del Paese non lo permettono: “Le aziende svizzere impiegano circa mezzo milione di americani, spesso con salari molto alti: e questo Trump lo sa.”
Tuttavia “la forza del mercato americano”, sottolinea Adesi, “si conferma, se è vero com’è vero che molte aziende estere ora si preparano a spostare negli USA la produzione pur di poter vendere. Una potenza non solo in termini di consumi ma anche di innovazione -anche grazie ai soldi europei”.
In che modo abbiamo finanziato l’innovazione negli Stati Uniti? “Acquistando titoli del Tesoro USA, ovvero il deficit con il quale lo Stato finanzia le nuove idee. E investiamo in Borsa in aziende americane. Avevamo l’illusione che fossero investimenti quasi privi di rischio, abbiamo dovuto ricrederci”.
E come la mettiamo con i servizi?
I dazi imposti dalla Casa Bianca sono stati annunciati come reazione a uno squilibrio tra quanto importato e quanto esportato dagli e negli USA da ciascun Paese. Uno squilibrio che in effetti esiste per i beni ma certamente non per i servizi: si pensi soltanto alle tecnologie e ai social media che la Nazione a stelle e strisce vende al Mondo.
“È vero, gli Stati Uniti hanno indubbiamente un enorme vantaggio competitivo dal lato del commercio di servizi, ma non lo mettono mai sulla bilancia,” riconosce Barone Adesi. “Quando però qualcuno propone di introdurre -per fare un esempio- una tassa su Internet… ebbene si arrabbiano. Tutto ciò è solo un ulteriore segno del fatto che sono loro a condurre il gioco.”
Secondo Mirante, la logica di Trump è chiara: “Mostrare che gli Stati Uniti sono superiori. E basta. Sono la superpotenza. E di conseguenza, ottenerne dei benefici.”
Insomma, se l’obiettivo era riportare l’industria al centro, Trump potrebbe aver colto nel segno? “Certo, non dimentichiamo che il nostro mondo va avanti pensando che l’industria sia finita,” avverte Mirante. “In realtà, i posti di lavoro si creano lì. La Cina riesce a innovare, riesce a sviluppare, non perché abbia chissà quali pensatori, ma perché la fa, produce. E la maggior parte delle scoperte avviene facendo e producendo.”