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14.06.2018 - 14:370
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

Troppa formazione fa male? Mauro Dell'Ambrogio: "Ecco come l'impiego pubblico produce immigrazione (e i rimedi per invertire questa tendenza"

"Di fatto si riscontra nel nostro paese una “mancanza di personale qualificato” anche perché le qualifiche (formali) per esercitare professioni, segnatamente nel settore pubblico, sono sempre più elevate. Col risultato di dover importare infermieri, docenti e altro dall’estero"

di Mauro Dell’Ambrogio*

 

L’impiego pubblico garantisce solitamente meglio i dipendenti, sia per retribuzione, sia per garanzia del posto. Nel privato se l’onere salariale eccede i ricavi l’impresa fallisce e i posti scompaiono. Lo Stato invece non può fallire, semmai si indebita, e il debito va a carico di chi pagherà imposte in futuro; con quali effetti si vede in Paesi vicini.

 

Ma altre sono le diversità. I salari privati dipendono dalla congiuntura economica, dalla produttività, dal mercato. Quelli pubblici invece, benché si scimmiottino forme di contrattazione tra parti sociali (nell’interesse dei rappresentanti), dipendono da leggi ispirate a criteri di parità di trattamento, dei quali il più usuale è la durata della formazione.

 

Un tempo le persone con formazione universitaria erano poche. Oggi per un posto di “collaboratore scientifico” nell’amministrazione pubblica si candidano a centinaia (laureati in storia, diritto, psicologia, relazioni internazionali, per citare quel che vanno di moda); pochi invece per un posto da tecnico specializzato. I posti del primo tipo crescono in quantità più di quelli del secondo e la loro retribuzione resta più elevata.

 

Le conseguenze non sono gravi, in un paese dove il lavoro privato predomina. Laureati in settori in azionati sono mediamente meno retribuiti nel settore privato, che offre invece buone opportunità a chi dispone di formazioni meglio rispondenti alle esigenze del mercato, compresa quella di farsi imprenditori.

 

In Svizzera (meno in Ticino), in controtendenza con l’evoluzione globale, la proporzione tra studenti e apprendisti è stabile da anni. Le scelte individuali oscillano tra le proprie attitudini – c’è nulla di male a studiare ciò che interessa, se non ci si fanno illusioni sugli sbocchi – e le possibilità del mercato. Ma il problema sta diventando un altro. E cioè la sempre maggiore durata delle formazioni necessarie per entrare nel settore pubblico, strumentale in teoria alla qualità del servizio, ma in pratica all’aumento delle retribuzioni.

 

Nel pubblico anche chi aveva avuto una formazione di durata inferiore beneficia dell’aumento generalizzato della retribuzione non appena si alza l’asticella per i nuovi assunti, creando pressioni di categoria irresistibili. Particolarmente nella sanità e nell’insegnamento, i mestieri ai quali ci si formava un tempo al conseguimento della maggiore età esigono ora che si studino a 25 anni e oltre. Più formazione è necessaria, ma può essere conseguita efficacemente anche in forma continua per chi già lavora. Effetto negativo di una lunga formazione prima dell’impiego è la discriminazione sociale: solo chi proviene da ceti agiati può permettersi di studiare a lungo.

 

C’è chi vorrebbe risolvere il problema con più generose borse di studio. Ma una lunga formazione ha comunque effetti selettivi, non sempre con opportuni criteri, e dissuasivi. Di fatto si riscontra nel nostro paese una “mancanza di personale qualificato” anche perché le qualifiche (formali) per esercitare professioni, segnatamente nel settore pubblico, sono sempre più elevate. Col risultato di dover importare infermieri, docenti e altro dall’estero.

 

Esempio massimo della perversione cui può portare il pretesto della “qualità” è la medicina, professione ormai (visto il ruolo degli ospedali pubblici e delle assicurazioni sociali) solo in apparenza privata: l’estrema selezione ha portato a una costosissima formazione pro capite e a dover importare ogni anno i due terzi dei nuovi medici dall’estero, tagliando fuori migliaia di giovani residenti presumibilmente non meno idonei.

 

Si ipotizzano oggi cinque anni di formazione universitaria per insegnare nella scuola dell’infanzia o per prestare cure. Invece di copiare tendenze estere, applichiamo la buona tradizione nostra di abbinare formazione e lavoro, che all’estero ci è invidiata.

 

Per invertire tendenza bisogna però rivedere i criteri per le retribuzioni nel settore pubblico: come fa il privato, pagare meglio dove scarseggiano i candidati, meno dove eccedono, e non a dipendenza della durata della formazione richiesta per entrare.


*Articolo pubblicato sull'ultio numero di Opinione liberale

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