Il CEO di Fidinam dice la sua su alcuni tra i principali temi di attualità politica ed economica. E lancia una provocazione: "Per il Ticino ci vorrebbe un commissario straordinario"

di Marco Bazzi
Roberto Grassi, 62 anni, da 23 è CEO di Fidinam, società per cui lavora da 30 anni. Laureato in economia a San Gallo, prima di tornare in Ticino ha maturato esperienze nella Svizzera tedesca, in Francia e in Inghilterra. Lo abbiamo intervistato nel suo ufficio di Lugano, affrontando alcuni tra i principali temi di attualità politica ed economica, cantonali, federali e internazionali.
Il Grassi-pensiero in pillole
Su Trump e la missione degli imprenditori sui dazi
Sì, siamo stati dei vassalli, ma almeno questi vassalli hanno portato a casa qualcosa che la politica non era riuscita a ottenere.
Stile svizzero e foto nella Sala Ovale
Vai, fai il necessario, ma resti svizzero anche nello stile: niente inchini in posa con il lingotto in mano. Una foto umiliante.
Le critiche a Karin Keller-Sutter tra dazi, UBS e Papa
Tra dazi con Trump, dossier UBS e perfino il telefonino davanti alla bara del Papa, quest’anno Karin Keller-Sutter non ha brillato né per strategia né per senso del ruolo.
Accordi con l'UE e doppia maggioranza
Nel dubbio, in democrazia, si sceglie la via più solida: per gli accordi con l’Europa serve la doppia maggioranza di Popolo e Cantoni, altrimenti la decisione è politicamente fragile.
Un Commissario straordinario per le finanze ticinesi
Il Ticino assomiglia a un’azienda in concordato: avrebbe quasi bisogno di un commissario straordinario che faccia la diagnosi e proponga la cura.
Imposte ai ricchi e compiti dello Stato
Nessun tabù sulle imposte ai più abbienti, ma prima si devono ridurre e chiarire i compiti dello Stato: solo dopo, e con obiettivi precisi, si può chiedere ai contribuenti di mettere mano al portafoglio.
L'abbraccio tra UDC e mondo economico
Non è l’economia che è salita sul carro dell’Udc: è piuttosto l’Udc che ha fiutato il fermento economico e le si è avvicinata.
La Piazza finanziaria tra declino e futuro
Sembra un po’ un viale del tramonto, se la guardiamo solo con gli occhi degli anni Novanta. Ma se alziamo un po’ lo sguardo...
Partiamo da Washington, dalla Casa Bianca, dall'incontro di martedì 4 novembre tra sei dirigenti di grandi aziende svizzere e Donald Trump. Lei si riconosce di più nella posizione di Fredy Gantner, che ha fatto parte del ‘Team Svizzera’ andato a trattare con il presidente degli Stati Uniti con il Rolex e il lingotto d’oro per ottenere una riduzione dei dazi... Oppure in quella di Nick Hayek, che ha criticato l’operazione parlando del 'Paese di Guglielmo Tell ridotto a un Paese di vassalli'?
Direi che, in fondo, Hayek ha un po’ ragione: siamo stati dei vassalli. Ma è anche vero che il mondo è cambiato, o meglio è cambiata l’America. Gli americani hanno eletto un presidente che agisce quasi da monarca, con atteggiamenti che potrei definire medievali, e bisogna ossequiarlo. O, se non lo osanni, almeno non devi contraddirlo. Ancora peggio è se assumi un atteggiamento da maestrina, come ha cercato di fare la consigliera federale Karin Keller-Sutter, e sappiamo com’è andata a finire.
Quindi l’idea di andare alle trattative con dei doni è stata giusta?
Se la realtà è questa – un’America rappresentata da un presidente che funziona così – e dall’altra parte c’è un interesse economico concreto a ottenere condizioni più favorevoli, e se il ‘vassallaggio’ è l’unico strumento per arrivare al risultato, ci si trova di fronte a una scelta: o adeguarsi, o farne una questione di principio e pagarne il prezzo. Quindi sì: Hayek ha ragione nel dire che ci siamo comportati da vassalli. Ma è anche vero che i nostri imprenditori hanno ottenuto qualcosa che la politica non era riuscita a ottenere. Quello che trovo invece riprovevole è il modo in cui è stato gestito l’incontro: quella foto nella Sala Ovale, con la delegazione che porge omaggi al presidente… l’ho trovata umiliante, per loro in prima battuta, ma anche per la Svizzera.
Ma, insomma, l’operazione è stata un successo, giusto?
Direi di sì. Personalmente mi ritrovo di più in Diego Aponte, presidente del gruppo navale MSC, che ha contribuito ad aprire le porte, ha dato una mano per arrivare a Trump, ma al momento della foto nella Sala Ovale non si è presentato. Ufficialmente aveva “un altro impegno”, in pratica – se vogliamo dirla con ironia – è andato alla toilette. Tanto che sulla NZZ si chiedevano “che cosa ci sarà mai stato di così importante da preferirlo a un appuntamento con la persona più potente del mondo?”. Ecco, secondo me quello è l’atteggiamento giusto: vai, fai il necessario, ma resti svizzero anche nello stile, senza conclamare il risultato e senza metterti in posa. Tutto questo, comunque, è conseguenza di un errore iniziale, a mio modo di vedere piuttosto grossolano, della consigliera Keller-Sutter. E non è l’unico errore che ha fatto quest’anno, anche a livello mediatico e pubblico.
Pensa anche al dossier UBS?
Sì, anche lì abbiamo visto delle cose discutibili. Nell’acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS, la consigliera federale era parte in causa fin dall’inizio, era uno degli artefici dell’operazione. Nel momento in cui si costruisce un’operazione simile, ci si siede attorno a un tavolo, si fissano condizioni, garanzie, impostazioni: se poi cambi le carte in tavola, l’affare non si fa. E questo, almeno dall’esterno, è proprio ciò che sembra essere successo: forse per pressioni politiche, forse per il clima, ma di certo non erano più i termini concordati all’inizio. Io non dico che tutto ciò che ha fatto sia negativo in assoluto, ma quest’anno, tra UBS, la gestione della comunicazione e alcune scelte di immagine, non ha brillato.
Si riferisce a…?
Un esempio banale, ma simbolico: la nostra presidente della Confederazione che, mentre passa la bara del Papa, è col telefono in mano a fare la foto. Io, da svizzero, mi sono vergognato. Se rappresenti il popolo, certi comportamenti dovresti evitarli: sono segnali di come probabilmente si pensa e si percepisce il ruolo.
C’è anche chi sostiene – per esempio l’UDC, criticando Greta Gysin, che ha segnalato una presunta corruzione per i doni portati a Trump - che questa vicenda con gli Stati Uniti possa “sdoganare” un riavvicinamento all’Europa. E che l’Europa pretenderà dalla Svizzera lo stesso tipo di vassallaggio…
La situazione con l’Europa è diversa. Già oggi versiamo miliardi ai fondi di coesione, quindi non è che partiamo da zero. E soprattutto, la bilancia commerciale con l’Unione europea non è paragonabile a quella con gli Stati Uniti: sono due contesti diversi. Certo, se la piccola Svizzera dà l’impressione di essere troppo conciliante, è chiaro che chiunque si sieda al tavolo negoziale con noi andrà a guardare cosa abbiamo concesso agli altri e dirà: “adesso lo vogliamo anche noi”. Ma bisogna sempre considerare il peso relativo delle parti in gioco. Mi spiego: gli Stati Uniti sono una potenza mondiale su tre livelli: come nazione, come economia, come moneta. Non dimentichiamo che il dollaro resta la valuta di riferimento internazionale. Se, nell’ambito del credito in dollari, gli americani decidono di farci le pernacchie, noi restiamo fermi in panchina. Questo è un potere che l’Europa, per esempio, non ha. Dunque, sì, è vero che certi atteggiamenti possono fare scuola, ma paragonare uno a uno Stati Uniti ed Europa è fuorviante.
Veniamo all’iniziativa “bussola”, che chiede di sottoporre sempre a votazione popolare qualsiasi accordo con l’Europa. E qui si riapre il dibattito: per gli accordi quadro o accordo di sottomissione o “bilaterali III” che dir si voglia, secondo lei ci vuole la doppia maggioranza Popolo–Cantoni oppure no?
Per me la risposta è chiara: sì, ci vuole la doppia maggioranza. In una democrazia, nel dubbio si privilegia il sistema che rende più solida la decisione. Qualsiasi altra soluzione indebolisce la legittimità dell’esito. La fragilità con cui una parte del PLR ha approvato la sola maggioranza popolare è sotto gli occhi di tutti: c’erano delegati che sono andati via prima del voto, altri che sono “andati al bagno” per non dover decidere e non dispiacere al consigliere federale Cassis che sosteneva quella linea. È un segno di debolezza politica, non di forza. Dal profilo giuridico, io non sono costituzionalista, ma diversi esperti ricordano che, se gli accordi producono effetti diretti sui Cantoni, è fondamentale e necessario che ci sia anche la maggioranza degli Stati, dunque dei Cantoni. La doppia maggioranza non è un capriccio, è una conseguenza del nostro federalismo. Ma anche “a prescindere” da queste valutazioni tecniche, ribadisco: nel dubbio, in democrazia, si sceglie la via che rafforza la decisione e il consenso, non quella che lo indebolisce. Voler forzare la mano sulla sola maggioranza del popolo mi sembra un segnale di insicurezza del Consiglio federale.
E se si andasse al voto con referendum facoltativo, dunque, una volta raccolte le firme, con la sola maggioranza del popolo?
Se si andrà in votazione con un accordo quadro sottoposto solo alla maggioranza popolare, io spero sinceramente che venga respinto non solo nel merito, ma anche per il metodo: perché non si è voluto riconoscere il valore del federalismo, né il diritto dei piccoli Cantoni – che pure subiscono gli effetti degli accordi – di far sentire la propria voce.
Settimana prossima è in agenda la consueta sessione fiume pre-natalizia del Gran Consiglio sul preventivo del Cantone, con un deficit di 700 milioni che si profila all'orizzonte nei prossimi anni. Lei insiste spesso sul fatto che lo Stato si è caricato di troppi compiti. Che cosa intende concretamente?
Tutto quello che sono i compiti e le attività che svolge lo Stato è cresciuto nel tempo in modo quasi automatico: si aggiungono costantemente nuovi compiti, nuovi obblighi, nuove competenze. Oltre al costo, questo comporta un problema strutturale: per ogni nuovo compito servono risorse, persone, mezzi. Alla fine rischiamo di non avere più abbastanza risorse per fare tutto ciò che è stato attribuito allo Stato. Per questo, prima o poi, bisogna avere il coraggio di ripensare l’insieme: eliminare compiti divenuti obsoleti o che oggi sono già svolti – magari meglio – da soggetti terzi. Insomma, chiedersi davvero che cosa vogliamo esattamente dallo Stato. È un discorso profondo, che l’attuale Consiglio di Stato, secondo me, non ha la forza e nemmeno la determinazione per affrontare. Visto da fuori, da un punto di vista economico e finanziario, verrebbe quasi da dire: bisognerebbe dare il Cantone in mano a una sorta di commissario, come si fa nei concordati fallimentari.
Addirittura?
Senta, quando un’azienda non sta più in piedi, si nomina un commissario straordinario: analizza, seziona, fa una diagnosi e poi propone una soluzione – che viene accettata o respinta. Ecco, il Ticino è in una situazione che, pur con tutte le differenze, ricorda un po’ quella condizione: non si tratta di fallire, ovviamente, ma di riconoscere che non esistono più i mezzi per far fronte a tutti i compiti e a tutti gli impegni assunti. Uno che non ha più i quattrini deve affrontare la realtà in modo chiaro, non a suon di emendamenti al Preventivo. Serve un’operazione a 360 gradi, con la mano sul cuore e sul portafoglio da parte di tutti, anche dei più abbienti, beninteso. Il grande dibattito oggi è “non tocchiamo le imposte”. Io invece dico: prima di parlare di ulteriori prelievi fiscali, si dica chiaramente per che cosa si chiede ai contribuenti di mettere mano al portafoglio. Se si tratta solo di sostenere nuova spese senza alcun correttivo, per me è sbagliato. Serve una riflessione complessiva: riduzione dei compiti da una parte, e dall’altra, se necessario, anche correzioni sul fronte delle entrate.
Una posizione “ecumenica”, la sua…
Ci sta, ma qui vedo una difficoltà sia a sinistra che a destra: a sinistra, poca disponibilità a discutere la riduzione dei compiti; a destra, poca voglia di riconoscere che forse, in qualche forma, una correzione sul fronte delle entrate andrà considerata. Se non c’è questa disponibilità, alla fine bisogna fare come in ogni democrazia: contarsi e decidere a maggioranza.
Lei è un fautore del sistema elettorale maggioritario. Perché?
Perché, nel momento in cui la situazione è veramente grave, non si può sempre vivere di compromessi e di “inciuci”. O si riesce a costruire un consenso vero, forte, su un progetto chiaro – e non la solita storia del tavolo di studio o del gruppo di lavoro che non decide mai – oppure ci si conta. Io sono sempre stato fautore del maggioritario: preferisco un sistema in cui chi vince governa e si assume la responsabilità di rimettere in ordine le cose, piuttosto che questa logica dove “do un pezzo a te e un pezzo all’altro” per far tutti contenti. Prendiamo l’esempio dell’Argentina: a un certo punto la gente non credeva più in nulla, ha detto “basta” e ha portato al potere uno come Milei, con un mandato chiaro, forte – condivisibile o meno – per cambiare rotta.
Per fare una cosa del genere ci vuole però un governo con una vera leadership, non il “governo del Mulino Bianco”, come lo chiama Piero Marchesi.
Certo, un governo dove ognuno pensa solo al proprio Dipartimento e al proprio tornaconto politico non è in grado di affrontare una crisi strutturale. Detto questo, non è che la colpa sia solo dei politici. Chi sta fuori – e mi ci metto anch’io – è sempre pronto a criticare ma raramente si mette in gioco. Anche il mondo economico, in questo senso, dovrebbe giocare un ruolo più attivo: mettersi a disposizione, confrontarsi in modo concreto e dare il proprio contributo.
Nell’ultimo anno l’economia, penso a Camera di commercio e Associazione industrie ticinesi, ha però dato chiari segnali di impegno sul fronte politico: ha sostenuto l’iniziativa contro l’aumento dell’apparato pubblico; è intervenuta in modo più deciso nei dibattiti pubblici, nei discorsi presidenziali, con interventi dei propri leader…
È vero. Ma credo che la sfida principale sia quella di far capire all’opinione pubblica che l’economia è un motore della società. Che fare utili non è un peccato, ma significa generare capacità finanziaria, versare imposte, contribuire al benessere collettivo. Se mortifichiamo troppo l’economia, rischiamo di trovarci con un livello di compiti pubblici, di prestazioni sociali e di benessere che semplicemente non sarà più finanziabile. E quello sarebbe un errore che pagherebbero tutti, in particolare le fasce più fragili.
Come legge quello che pare una sorta di abbraccio tra il mondo economico e l’Udc? Chi si è avvicinato a chi?
Se proprio bisogna dirla tutta, secondo me è più l’Udc che si è avvicinata all’economia, fiutando che lì c’era un certo fermento. L’economia, in realtà, oggi è molto trasversale.
Già, una volta era più semplice: una parte dell’economia stava col PPD, una parte col PLR…
Oggi non è più così: non esiste un partito che possa rivendicare il monopolio della rappresentanza economica. Ci sono imprenditori e manager in tutti i partiti: nel Centro, nel PLR, nell’Udc, nella Lega, e anche a sinistra. Penso, per esempio, a figure come Marco Bernasconi: è stato socialista, oggi magari molti socialisti non lo riconoscerebbero più come tale, ma resta una persona che ha ben presente la funzionalità dell’economia in un sistema come il nostro. Alla fine, contano le persone più dei partiti. Anche l’elezione ai Consigli degli Stati lo dimostra: abbiamo un rappresentante del Centro e uno dell’Udc, non perché “il mondo economico è andato tutto lì”, ma perché altri candidati semplicemente non erano in grado di competere in quella contesa elettorale.
L’ex presidente di AITI, Oliviero Pesenti ha accusato il DFE e il consigliere di Stato Vitta di non avere una vera politica economica. È d’accordo? E su che cosa secondo lei il Ticino dovrebbe puntare per mantenere competitività?
Direi che Pesenti ha ragione… e torto allo stesso tempo. Il Dipartimento fa quello che può con i mezzi che ha a disposizione, in un quadro in cui – lo abbiamo detto – i margini sono sempre più stretti e lo Stato è caricato di compiti ovunque. Oggi ci sono molte iniziative puntuali per l’economia e l’innovazione. Manca però una visione d’insieme di lungo periodo. Abbiamo diverse iniziative puntuali, anche interessanti – nell’innovazione, nel sostegno a singoli progetti, in vari settori. Ma manca la visione a 10–15 anni: dove vogliamo andare e come intendiamo raggiungere gli obiettivi. Non dico che dobbiamo riesumare il Libro bianco del professor Pelanda, o le famose Centoun misure di Marina Masoni, o Amministrazione 2000: di esercizi del genere ne abbiamo visti troppi, spesso fatti con idee valide, ma poi tutto è rimasto arenato nei cassetti.
Ma oggi nemmeno quei progetti strategici si fanno più…
Guardi, io penso che alla fine servirebbe un patto fra tutti, chiamiamolo pure ‘di Paese’, qualcosa di condiviso, ma perché ciò accada ci vuole qualcuno che faccia da iniziatore, che lanci questa idea e che, per carisma, visione e capacità di proposta, riesca a raggruppare attorno a sé più gente possibile.
Ha un nome per questa figura?
No, oggi non ho un nome sul tavolo. In passato c’è stato senza dubbio qualcuno che avrebbe potuto incarnare questo ruolo, per carisma e visione. Ma oggi non vedo una figura chiara a cui attribuire questo compito.
La piazza finanziaria ticinese sembra in declino. È davvero un “viale del tramonto”?
Non è solo un problema ticinese: la finanza, in generale, è diventata un’altra cosa rispetto alla banca tradizionale di una volta. È sempre più una merce, sempre più “di carta”, uno strumento che serve a far girare prodotti e veicoli complessi. Detto questo, io non sono così pessimista. È vero: il tempo d’oro della piazza tradizionale è passato e il segreto bancario non tornerà. Manca quel fermento che si respirava un tempo, e non abbiamo la percezione di un grande “recupero”. Sembra davvero un po’ un viale del tramonto, se la guardiamo solo con gli occhi degli anni Novanta. Ma se alziamo un po’ lo sguardo, vedo emergere realtà molto interessanti in Ticino: imprese nell’ambito dell’innovazione, e soprattutto i commodity traders, i commercianti di materie prime. Questi operatori impiegano più di mille persone in Ticino, generano un gettito fiscale importante e sono una realtà molto dinamica. È vero che sono mondi relativamente chiusi, parlano spesso inglese, stanno fra di loro; però sono radicati qui, non sono presenze effimere. Alcune di queste aziende hanno superato anche lo stress-test delle sanzioni legate alla guerra in Ucraina. Poi ci sono realtà legate all’intelligenza artificiale, a nuove tecnologie, a modelli di business innovativi. Non parlo delle criptovalute in senso stretto – in quell’ambito resto abbastanza agnostico – ma di tutto un ecosistema economico che non coincide più solo con la banca classica e che, secondo me, è promettente.
A proposito di criptovalute, nelle scorse settimane il banchiere Antonio Foglia ha attaccato duramente Tether e i suoi patron luganesi di adozione. Lei cosa pensa?
Foglia ha sollevato un problema reale: ci sono operatori che fanno, di fatto, attività bancaria senza essere soggetti alle stesse regole delle banche. È comprensibile che, dal punto di vista di un banchiere tradizionale, questo sia inaccettabile. Il punto è che questi attori “inventano” strumenti come i Tether a fronte di determinati attivi, poi li collateralizzano con asset che non sono sempre trasparenti. E quando devono, alla fine, monetizzare – cioè trasformare quei gettoni digitali in soldi “veri” – entrano nel sistema finanziario regolato.
Certo, non fanno ipoteche, non erogano crediti commerciali come una banca tradizionale, svolgendo comunque una funzione di intermediazione finanziaria…
Ma il nodo è la trasparenza: per le banche ci sono regole molto rigide, per gli operatori cripto, molto meno. Ed è proprio questa asimmetria – stessa funzione economica, regole diverse – che rende la discussione così accesa e, direi, ancora tutta da chiarire sul piano normativo.