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12.11.2021 - 15:450
Aggiornamento: 22.11.2021 - 06:05

L'informazione al tempo del certificato Covid e dei vaccini

Riflessioni a margine delle polemiche scoppiate dopo l'ultima puntata di "Democrazia Diretta"

di Andrea Leoni

Chi ha la cortesia e la pazienza di seguirmi, sa dove sto di casa sul Covid. La mia casa è quella della scienza, della politica che si assume la responsabilità di restrizioni dolorose ma necessarie per proteggere il sistema ospedaliero e la popolazione, del certificato Covid, dei vaccini. Dalla parte di medici e infermieri e di tutte le famiglie a cui il virus ha strappato un affetto o un amicizia, spesso in modo straziante. Tutto ciò mi fa provare orrore verso chi osa paragonare i non vaccinati agli ebrei "gasati" nei campi di concentramento (ma davvero non vi vergognate?!), verso chi offende, negando la pandemia, il lutto dei congiunti di oltre mille ticinesi  e di tutti coloro che si sono ammalati e con sofferenza sono sopravvissuti, di chi straparla di dittatura sanitaria in un Paese, l’unico, che consente ai suoi cittadini una consultazione popolare  sulla politica anti-Covid.

Fare informazione su questo tema è difficile. Per tutti. Ci si chiede quasi ogni giorno fin dove si può arrivare prima di tirare il freno a mano per non sbandare nell’incoscienza. Ci si scervella tra la responsabilità di dare un’informazione quanto più accurata dal punto di vista scientifico, veicolata dalle autorità politiche e sanitarie, e l’obbligo professionale di non pendere dalle labbra di governanti e scienziati. A questo si somma il tarlo liberale che impone di dare spazio a quella minoranza multiforme che dubita, contesta, nega. Un fenomeno, quello sbrigativamente detto“negazionista”, che esiste nella società e che di conseguenza i media hanno il dovere di raccontare, facendolo esprimere, purché lo stesso si misuri con le regole del confronto democratico: le domande, il dibattito, le contestazioni.

Gli scivoloni sono dietro l’angolo e le cantonate le han prese tutti in questi quasi due anni di pandemia. Noi per primi. Per questo ci scappa da ridere quando sentiamo l’obiezione “e ma il Governo ha sbagliato questa o quell’altra cosa”. Ancora non si è capito che in questa crisi non vince chi non sbaglia, ma chi sbaglia di meno. Pensiamo a Winston Churchill, passato giustamente alla Storia per aver contribuito a salvare l’Europa dal nazifascismo, ma che era contrario all’operazione Overlord: lo sbarco in Normandia.

Fare informazione in questo contesto è davvero difficile. In queste ore fa discutere l’ultima puntata di “Democrazia diretta” andata in lunedì scorso sulla RSI. L’UDC in un comunicato si lagna della presunta parzialità dei conduttori durante il dibattito. Al di là delle opinioni sui colleghi, lascia increduli che nella lunga nota stampa non vi sia un solo rigo di biasimo per le esternazioni di Werner Nussbaumer su Marco Borradori, che al contrario viene citato a sostegno delle proprie tesi. Esternazioni che il dottore - ora sotto procedimenti amministrativo da parte del DSS - aveva peraltro già fatto a Matrioska. Fossimo stati presenti in studio non avremmo avuto la signorilità con cui Reto Ceschi ha opportunamente censurato, con adeguato sdegno, quelle parole. Tali affermazioni, infatti, sono gravide di un cinismo ideologico che fa rabbrividire. Soprattutto sulla bocca di un medico. Del tutto inaccettabile.

Più scivoloso, per contro, appare il fact checking che la RSI ha pubblicato all’indomani del dibattito sul proprio sito internet. Una prima, se la memoria non ci inganna. A meno che alla radiotelevisione pubblica non abbiano intenzione di proporlo puntualmente, il giorno dopo ogni confronto televisivo, si tratta di un precedente che potrebbe prestarsi a speculazioni e controversie.

L’articolo, che prende in esame unicamente le affermazioni del fronte del “no”, in parte fa il suo lavoro di verifica, smettendo delle balle clamorose, ma in parte no, in quanto ribatte ad argomenti con altri argomenti.   
 
Prendiamo la Svezia. Paragonare i dati epidemiologici del Paese scandinavo con le nazioni confinanti e non con altri Paesi del Mondo, è una scelta legittima a sostengo di una tesi, ma non è un fatto e, di conseguenza, non può smentire alcunché. Non siamo al 2+2 che fa 4. Noi non avremmo mai voluto che la Svizzera scegliesse la via svedese, ma non c’è dubbio che quanto proposto da Stoccolma sia un modello alternativo di gestione della pandemia e, in quanto tale, è legittimo che alcuni lo citino ad esempio o addirittura lo anelino.

Ribattere che per l’ingresso in Spagna è necessario il green pass, non è una sconfessione del fatto che in terra iberica non vi sia un applicazione generalizzata del certificato. Così come non lo sarebbe l’obiezione che il tasso di vaccinazione è superiore al nostro. Sono tesi contrapposte ad altre tesi. È dibattito. Non sono delle certezze.

Premesso che per noi i conduttori televisivi non devono essere vigili urbani che si limitano a passare la parola, senza contestare o smentire palesi panzane, ci chiediamo, davvero con piglio illuminista, se questo metodo del "fact checking del giorno dopo” potrebbe essere applicato ad esempio per un dibattito sul clima, sulle finanze pubbliche o sulle casse malati. Ne dubitiamo ma siamo pronti a lasciarci sorprendere.

Si diceva del certificato Covid. Su questa misura ci sono esperienze diverse. C’è la linea dura italiana, e ora quella austriaca, e la linea soft del nostro Paese. In Gran Bretagna vige addirittura il liberi tutti. E ammettiamolo: noi che sostanzialmente difendiamo le politiche adottate in Svizzera, sotto sotto, ad ogni aumento dei contagi oltremanica, ci auguriamo di vedere la retromarcia britannica, come appena avvenuto in Danimarca, per poter dire: avete visto che avevamo ragione?!

Questo umanissimo meccanismo del pensiero introduce però accenti da tifoseria. Per quanto ci riguarda riteniamo che il certificato Covid, così come applicato in Svizzera, sia un compromesso ragionevole, sul quale vale la pena insistere in questa fase di totale incertezza. Le alternative ci paiono peggiori: troppo rischiosa la via inglese o svedese, inapplicabile quella dell’obbligo. Ma questa è un’opinione, non un certezza. E in coscienza se oggi dovessimo dire se questo è uno strumento politico o epidemiologico, non avremmo una risposta certa. Anche perché resta incerta l’incidenza dei vaccini sulle catene di contagio, aspetto non trascurabile nella valutazione dello strumento.

Ed è questo il motivo per il quale continuiamo a guardare con sguardo dubitativo alla nostra esperienza e a quelle degli altri Paesi,. Non siamo più in una fase emergenziale ma di convivenza con il virus e questo impone una valutazione laica di ogni opzione.

Il tema della terza dose si è aperto anche nel nostro Paese. I macro dati ci indicano con chiarezza l’efficacia e la sicurezza dei vaccini: di fronte a miliardi di dosi somministrate in tutto il pianeta, ogni paura dovrebbe ormai essere fugata. Così come, a livello di macro evidenze, non si può negare che a novembre dell’anno scorso ci stavamo per arrendere indifesi al secondo lockdown, ad ospedali stracolmi e una striscia di lutti impressionante, mentre oggi, grazie al vaccino, galleggiamo e respiriamo, seppur navigando a vista. E di questo fatto dovremmo essere tutti felici.

Ma è altrettanto evidente che molti vaccinati si stanno reinfettando, fortunatamente con conseguenze in larga parte limitate grazie al vaccino. Su questo tema occorrerebbe maggiore trasparenza sui dati e un discorso franco sulla terza iniezione. A noi pare di capire che sarà inevitabile che presto o tardi venga proposto di estenderla a tutti o quasi - e siamo pronti a farla senza remore - ma purtroppo non è ancora ben chiara l’efficacia e la durata dell’attuale protezione a doppia dose e se questo “booster” potrà considerarsi definitivo, oppure soltanto un altro scalino della crisi.

Un altro discorso franco, infine, andrebbe finalmente fatto anche sul ruolo dei giovani e dei bambini nella pandemia. Nel nostro Paese c’è ancora grande confusione su questo tema e senza un atto di chiarezza diventerà difficile, qualora se ne presentasse il bisogno, spingere in quella direzione, dove larga parte del mondo occidentale sembra indirizzarsi. Pensiamoci per tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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