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18.01.2021 - 09:590

Sergio Morisoli: "Discorso all’America (e all’Occidente)"

All'anti vigilia dell'insediamento di Joe Biden come nuovo presidente, il capogruppo UDC ci scrive: "Se l’America smettesse di sognare, per noi inizierebbero gli incubi"

di Sergio Morisoli*

Mercoledì a Washington ci sarà la fine ufficiale della “complicata” transizione da una presidenza all’altra. Abbiamo iniziato gli anni ’20 del nuovo secolo,  100 anni fa nello stesso decennio successe di tutto; fino a creare le premesse per un secondo conflitto mondiale. Speriamo che la storia non si ripeta. Gli USA hanno iniziato il XXI secolo scoprendosi vulnerabilissimi. Nel 2001 una manciata di terroristi islamici dirottò alcuni aerei civili contro simboli colossali dell’America e dell’Occidente: le Torri Gemelle (il capitalismo del libero mercato) e il Pentagono (la forza dello Stato). Quei nemici, dall’America si sono poi diffusi colpendo il resto dell’Occidente in svariati modi, e stiamone certi non sono ancora sazi. Esattamente a 20 anni di distanza, l’America si scopre ancora vulnerabilissima, non per opera di forze esterne ma di forze impazzite interne. Con la stessa facilità di chi buttò giù le Twin Towers, una cinquantina di esaltati vestiti da barbari sono entrati nel tempio supremo dell’America, della democrazia liberale, profanando poltrone e scrivanie del Senato. Un attacco profondo, scioccante al cuore di ciò che l’America è e ha di più caro e che rappresenta l’esempio per il resto del mondo. Di nemici esterni gli USA ne hanno avuti fin dalla loro fondazione, ora si devono confrontare anche con un nemico interno che non è così facile identificare e debellare, a meno che si creda che buttando in galera il cornuto impellicciato e i suoi colleghi tutto sia a posto. Sarebbe miopia e stoltezza metterla via come un incidente di percorso, come sarebbe irresponsabile metter via la presidenza Trump come scheggia impazzita e sfuggita solo per un momento dal corso normale della storia.

No, l’America è l’avamposto della malaise che l’Occidente sta vivendo; l’America è sempre davanti a tutti nel bene e nel male, e sappiamo che presto o tardi quello che succede di là arriva anche di qua. Siamo, loro come noi, in mezzo a due potenti uragani (tornados); quello della crisi materiale e quello della crisi spirituale. La prima crisi, quella materiale, si identifica con tre macro trend. Primo. Declino economico, il PIL dei Paesi occidentali rappresenta tra il 50 e il 60 % del PIL mondiale, la porzione è uguale a quella di metà ‘800 dopo che aveva toccato il 70% negli anni ’60 del 1900; avanzano Cina, Asia e India. Secondo. Il ceto medio si sta sfaldando, i posti di lavoro da ceto medio sono scomparsi mediamente del 15% ovunque in 10 anni (OECD, e perfino in Svizzera), sono in crescita i cosiddetti MCJobs e i NASAJobs come risultato della polarizzazione della trasformazione economica: posti per poveri e posti per ricchi in crescita e disoccupazione per quelli in mezzo. Nella scala sociale, in su non si va più e la paura di scendere tra i poveri è reale e diffusa. Il 65% di chi nasce quest’anno farà una professione che non esiste ancora e quando saranno in età lavorativa la metà dei lavori di oggi sarà scomparsa o automatizzata. Terzo. Lo svantaggio demografico. Soffriamo cumulativamente di denatalità, invecchiamento e immigrazione. Con un tasso di fecondità per donna di 1.5 rispetto il 2.1 necessario per mantenere in pari il ricambio generazionale della popolazione e una media del primo figlio a 30 anni per le donne, scompariamo; invecchiamento, fra 20 anni oltre la metà della popolazione dei paesi occidentali avrà più di 65 anni; e immigrazione galoppante con oltre 260 mio di persone provenienti da zone disperate già entrate in Occidente e altrettante pronte a farlo.

La seconda crisi, quella spirituale, si sintetizza pure in tre macro trend. Primo. La scristianizzazione irreversibile, non sono solo le chiese vuote e la religione diventata optional. È l’imporsi incontrastato e penetrante di idoli non cristiani: relativismo (tutto è uguale), nichilismo (nulla vale), cinismo (disprezzo e indifferenza), nomadismo (essere ovunque), colpevolismo (disamore di sé), statalismo (politica salvifica), paganesimo (credere a tutto), transumanesimo (superuomo) e genderismo (autodeterminismo). Secondo. La democrazia in profonda crisi: di legittimità, di rappresentatività, di senso comune, di autorità, di autorevolezza, di regole condivise, di origine del diritto, di efficienza e di efficacia. Terzo. La cultura allo sbando a causa delle “élites” che si autodistruggono attraverso i “fakes”: quella accademica che va in crisi di autorevolezza con modelli falsi; quella economica in crisi di legittimità con crescita falsa; quella mediatica in crisi di credibilità con le notizie false e quella politica in crisi di rappresentatività con promesse false. Questi due uragani materiale il primo e spirituale il secondo, non si possono sconfiggere a breve e medio termine; ci si può al massimo organizzare per minimizzarne i danni. Ed è proprio questo il lavoro che è chiesto sia alla politica che alla società civile; un lavoro di protezione del ceto medio (middle class) prima, e di scavo delle fondamenta per la ripartenza poi. L’America “trumpista” ha portato questa massa tradizionalmente silenziosa ad avere finalmente un palcoscenico (sfruttato male).   Spetta all’America in primis come modello di riferimento, già come lo fu all’epoca delle osservazioni di Tocqueville nel primo ottocento, sobbarcarsi per noi di qua dall’Atlantico l’onere di pioniere in questo cantiere. Ma non è solo negli States che occorre agire. Da noi i segnali che ci pongono sullo stesso trend sono da alcuni anni ormai chiari.

Il sovranismo: è la risposta alla politica anonima e astratta che cancella le identità. Non è banale. I confini geografici non ce li siamo dati noi, ma quelli politici si. Non sono lì per caso, sono la risultante di processi storici, di interessi e di tradizioni che ci permettono di separare ciò che è nostro da ciò che è loro. Finché ci saranno i confini abbiamo la libertà, il diritto e il dovere di difendere e di decidere su cosa sta al di qua. C’è chi lo chiama principio di proprietà in senso lato. Non possiamo voler determinare il nostro destino noi stessi, e non avere le condizioni pratiche e materiali per farlo.

Il populismo: è la risposta alla politica fattasi elevare a salvezza, incapace poi di mantenere poi le promesse fatte. Se abbiamo nel tempo scartato le opzioni monarchiche, aristocratiche, anarchiche e totalitarie per scegliere la democrazia, non possiamo non dirci populisti. Chi non lo è, in buona o mala fede, per fare in modo di avere più voti e avere la maggioranza e ottenere più potere in democrazia? Per molti si chiama principio di rappresentanza e di legittimità. Non possiamo dare il primato politico al popolo e impedire il suo carattere populista.

Il protezionismo: è la risposta alla politica del sempre “prima gli altri”. Se non si ha nulla da proteggere non serve essere protezionisti; i nullatenenti non sono protezionisti. Se invece abbiamo qualcosa a cui teniamo, a cui diamo importanza non lo lasciamo alla mercé degli avvenimenti o incustodito. Se gli altri esercitano il protezionismo come si può rimanere immobili con le porte aperte? Lo invocano come principio di reciprocità. Non possiamo preservare, valorizzare e promuovere qualcosa senza proteggerlo e subire l’esproprio a senso unico senza reagire.

Trump, nel breve termine, con misure degne del più originale mercantilismo del XVI e XVIII secolo e il più lontano possibile dalle teorie economiche del ‘900,   ha messo un po’ a posto l’economia; ha creato 7 milioni di posti di lavoro dopo che l’industria USA dal 2000 al 2011 ne aveva perso quasi 9 nella sola industria (30%); ha fatto schizzare i titoli in borsa portando l’indice Dow Jones a sfiorare il 30'000 punti aumentandolo del 75% rispetto al suo arrivo alla Casa Bianca; ha tagliato l’aliquota alle imprese dal 35% al 21% e ha incassato dazi doganali sui prodotti cinesi per oltre 250 miliardi di dollari. Il 48% dei cittadini ha perfino ammesso di stare meglio di quattro anni prima e il 20% di stare uguale; si è fatto votare da 74 milioni di americani, ben 11 milioni in più del 2016, nonostante le cavolate fatte e i dubbi sulla sua consistenza psichica. Non gli è bastato per vincere. Perché moltissimi cittadini americani come gli altri occidentali del ceto medio, pur non soffrendo in senso stretto economicamente (non sono ancora poveri) sono comunque a disagio, vivono male il presente. Vedono e capiscono che non riusciranno a sfuggire da soli ai due uragani di cui sopra, uragani che dall’orizzonte americano si avvicinano sempre più in fretta verso il vecchio continente. Gilets jaunes, Brexit, AfD ecc… sono solo le punte di diversi iceberg che galleggiano nella “belle époque” di questo inizio XXI secolo. Le due leve tradizionali che garantivano benessere e prosperità diffusa: la ricchezza economica (PIL) e la spesa statale (welfarestate) entrambe in costante aumento, non ce l’hanno fatta in USA a bloccare sul nascere la “massa che si è messa in cammino” (Ortega y Gasset), e non ce la stanno facendo nemmeno in Europa. L’economia cresce e lo Stato spende di più ma il malcontento invece di scomparire cresce ancora più velocemente, di mese in mese. Verrebbe proprio da dire, non di solo pane vive l’uomo…Il male è certamente più profondo e le ricette materialiste marxiste da una parte e materialiste liberiste dall’altra sono impotenti di fronte a questo virus sociale e umano della “malaise senza un perché” che si sta diffondendo più velocemente del Covid e mieterà forse anche più vittime se non si farà qualcosa per tempo. Ma cosa fare? Intanto collochiamoci nello spezio e tempo: siamo quella generazione di cittadini e di politici, che il destino o la provvidenza hanno voluto chiamare ad attivarsi nella storia proprio all’inizio di questo terzo millennio; veniamo dopo le numerose generazioni di liberalpromotori e veniamo prima della generazione di liberaldistruttori che, sebbene ancora anonima, all’orizzonte fa già intravvedere la sua forma e le sue intenzioni dittatoriali e forse anche tiranniche con la banalità del male che ne caratterizza gli inizi (Hannah Arendt). Ma teniamo conto anche che “Oggi non viviamo un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento di epoca» (Papa Francesco). Poi la concretezza. Dobbiamo salvare il ceto medio, non una classe sociale, non una razza, non una minoranza ma una categoria umana a rischio in tutto l’Occidente.

L’America “trumpista” ha portato questa massa tradizionalmente silenziosa ad avere finalmente un palcoscenico (sfruttato male). Ma non ha saputo andare oltre al suo aizzamento all’antipolitica, al rigetto delle élites.  Il ceto medio non è una cosa da cavalcare ma è qualcuno da valorizzare! Senza conoscere chi è il ceto medio la politica parla e promette a vanvera. Il ceto medio è l’insieme di milioni e milioni di cittadini “dimenticati”: si alzano ogni mattina per lavorare, salariati, piccoli proprietari, artigiani, commercianti, albergatori, agricoltori, imprenditori, casalinghe…; con fatica e orgoglio tengono assieme le loro famiglie; pagano fino all’ultimo centesimo tasse e imposte; non ricevono né favori, né sussidi statali; dimenticati dalla politica e dallo Stato; non chiedono aiuti pubblici e non sono clientelari; non si lamentano e ci provano da soli; non manifestano, non sfilano e non hanno lobby; gli viene chiesto di lavorare, produrre, pagare; crescono e educano i loro figli e quelli di altri; ubbidiscono alle leggi e se sbagliano pagano; subiscono le diseconomie dei mercati dopati in silenzio; subiscono le decisioni politiche avverse in silenzio; hanno paura di cadere e finire tra i poveri, sanno che non saliranno più tra i ricchi.

Il ceto medio è da intendere come gruppo di persone, radicato in un posto, che intrecciano rapporti primari e spontanei tra loro.  Cioè, persone che scelgono di vivere in un luogo assieme, che decidono liberamente con chi relazionarsi, con chi fare affari, con chi gioire, con chi soffrire, che hanno un senso comune ecc.…

È l'insieme dei cittadini che con le loro relazioni, il loro lavoro e i loro desideri tengono assieme una comunità e la fanno esistere, vivere e prosperare. Il ceto medio non è né la disponibilità di soldi né di reddito imponibile a definirlo; ma a determinarlo è quel modo di vivere, pensare, agire e di sentirsi vivi in una comunità che non si può abbandonare e che non si vuole lasciare. Il ceto medio vive l’attaccamento alla propria terra, alle proprie tradizioni e ai propri valori, ai propri lavori con passione, appartiene orgogliosamente alla Patria e ne condivide le regole che fanno vivere in pace; in modo diverso da come lo fa il ricco che se ne può anche andare, e da come lo fa il povero che purtroppo dipende dallo Stato. Dobbiamo riconoscere questo livello come il motore primario che crea benessere individuale, bene comune e prosperità per il Paese. È una categoria che deve essere non solo riscoperta, protetta, rivalutata ma conosciuta. Una categoria umana non ha solo segni caratteristici che la uniscono di là e di qua dall’Atlantico, ha anche paure che sono simili: progresso tecnologico, delocalizzazione di attività, competenze professionali obsolete, senso di inutilità e esclusione, perenne insicurezza materiale, perenne ansia per sé e i propri cari, fare figli da mantenere, certezze e legami lavorativi e extra lavorativi che cadono, incapacità di migliorare la condizione sociale propria e dei propri figli, sproporzione tra reddito e costo della vita, indebitamento per mantenere il normale standard, riduzione dei risparmi, finire tra i poveri, i disoccupati e gli assistiti, finire a carico della collettività, effetto sostituzione tra lavoratori indigeni e stranieri, immigrazione di massa, instabilità familiare e abbandono, malattie psicosomatiche, depressioni.

Questa enorme categoria di cittadini, che nell’Occidente rappresenta circa il 65% dei cittadini e degli elettori, ha un potere immenso sia nel bene ma anche nel male, se gli approfittatori e gli speculatori politici la sanno sfruttare è una forza dirompente. Per questo, invece, se la politica con la P maiuscola non vuol farsi scalzare dai ciarlatani e dai peggio intenzionati, deve seriamente occuparsi di pensare, agire e legiferare in fretta per salvare il ceto medio. In primis i Repubblicani americani che devono tracciare una nuova via dopo la leadership finita male di Trump. Ma anche noi. Non è facile. Non ci vogliono leggi ad hoc, ci vogliono leggi buone in tutti i settori che non penalizzino queste persone. Ci vuole il ripristino delle condizioni quadro, non necessariamente economiche, che hanno permesso di far crescere e portare al benessere il ceto medio di tutto il mondo. Ma prima necessitiamo di condizioni pre-politiche, cioè che vengono prima della politica e della produzione legislativa democratica. Ci vuole uno spostamento di prospettiva. C’è in ballo la visione del mondo (Weltanschahung), gli ideali che ne derivano e il desiderio di realizzarli.

Se non sappiamo più chi siamo non possiamo sapere chi vogliamo essere nel futuro. Ma soprattutto, chi sa molto bene chi è potrebbe imporre a noi chi dobbiamo e dovremo essere. Riscoprire le nostre vere radici, studiarle, coltivarle e promuoverle è una necessità per rimanere protagonisti. Fare memoria e confrontarci costruttivamente sul passato ci mette al riparo di autolesionismo e colpevolizzazioni postume.

Se una cosa vale l’altra, il giusto e lo sbagliato sono indifferenti, il bene e il male dipendono da che angolazione si osservano. A un certo punto se una verità ultima non interessa più, allora si smette anche di cercarla “oltre” l’apparenza. Urge ripartire con lo spirito e lo stupore del pioniere, dello scienziato, del filosofo, dell’artista, del religioso, della madre: desiderare, cercare e scoprire ininterrottamente con la ragione: il meglio e il vero.

Se chi può scegliere non partecipa, se chi vince non sa cosa fare, se salta la fiducia tra elettori ed eletti; c’è un grave problema di rappresentanza e di legittimità del potere. Solo attraverso forme nuove di collaborazione paritaria tra società civile e politica si potrà riappacificare il rapporto Cittadino – Stato; e solo proteggendo il ceto medio dalle derive elitarie, riaccendere la fiducia nelle persone e nelle Istituzioni.

Se sempre più spazi di vita sono delegati alla politica, alle leggi e quindi allo Stato, la conseguenza è che lo Stato con i suoi apparati occupa le nostre vite. È indispensabile che cittadini e società civile si attivino e si riprendano indietro la libertà e la responsabilità, i diritti e i doveri attraverso i principi di sussidiarietà e di libera iniziativa.

Se al libero mercato e alle sue regole non viene riconosciuto il merito di farci vivere tutti meglio, di permetterci scambi altrimenti impensabili, se il profitto e la concorrenza sono ritenuti dei mali da abbattere, se tutto è ridotto o definito a banditismo… Allora l’educazione deve riprendere in fretta ad insegnare: la bontà dello scambio, dell’impegno, del merito, del perché stiamo meglio degli altri, e come fare per tramandare benessere e prosperità di generazione in generazione.

Dal lato più operativo gli strumenti li consociamo ma vanno aggiornati, e tolti dalle mani dei mal intenzionati: primato dell’individuo sul collettivo, proprietà privata, libero mercato, democrazia liberale, ordine e legalità, civiltà cristiana, sovranità nazionale. Che si traducono poi in atti concreti validi ovunque, una sorta di manifesto del ceto medio, con le dovute sfumature nazionali e continentali.

Proteggerlo dai dannosi cambiamenti economici e sociali esterni; e dalle derive interne ad essi associati. Diritti democratici più facili. Difenderlo dalle decisioni stataliste malsane del Governo, del partitismo e del centralismo dirigista; valorizzando le iniziative dal basso. Applicare la sussidiarietà. Offrirgli una eccellente educazione per i figli; riformando la scuola dell’obbligo e rafforzando la formazione professionale. Insegnare a competere. Assicurargli un lavoro dignitoso; lasciargli più soldi in tasca: meno imposte, tasse e balzelli; lottando contro l’esclusione abbattendo l’assistenzialismo. Più inclusione e meno ridistribuzione. Togliere i bastoni dalle ruote a chi mantiene e crea lavoro; a chi vuol fare e rischiare; mantenere il potere d’acquisto e governare il mercato del lavoro. Sfoltire, ridurre e aggiornare le leggi.

Abbiamo dei legami profondi con l’America, decine di migliaia di giovani ticinesi lasciarono il Paese in cerca di fortuna, e moltissimi di noi hanno ancora prozii e biscugini in California. Si potrebbe dire che se non hai un parente laggiù non sei un vero ticinese. Ma, forse senza saperlo, ci sono legami umani ancora più profondi tra la nostra piccola gente e la loro piccola gente. Un popolo molto simile di qua e di là dall’Atlantico.  Il Ticino della globalizzazione non è vaccinato contro la crisi e le sue derive estremiste. Negli anni della grande depressione americana fu coniato il concetto “dell’uomo dimenticato”. La definizione “The forgotten man”, era però più antica, era già apparsa nel 1883, grazie a  William Graham Sumner, professore alla YALE University; fu poi strumentalizzata a fini propagandistici per giustificare l’interventismo di Roosevelt negli anni ’30 (new deal), e viene finalmente reinterpretata e corretta nel 2007 dall’autrice Amity Shlaes  in “The forgotten man. A New History of the Great Depression”. Utile per chi fa analogie tra gli anni ’20 di allora e quelli di oggi.  Allora, si riferiva a quei cittadini che non avevano mai avuto molto e che in più stavano perdendo anche quel poco: il lavoro, la salute e gli affetti. Oggi quella tipologia di cittadino dimenticato è riapparita negli USA e inizia a non essere più così sconosciuto nemmeno da noi.

E’ quell’America profonda che ha deciso di muoversi e farsi sentire, E’ una folla in crescita di cittadini impauriti e impotenti che hanno capito che il loro destino dipende sempre meno da loro stessi, ma molto dalle decisioni dei monopoli, siano essi governi sovranazionali o colossi internazionali dell’economia.

“Abbiamo abbastanza fiducia nei nostri valori per difenderli ad ogni costo? Abbiamo abbastanza rispetto per i nostri cittadini per difendere i nostri confini? Abbiamo il desiderio e il coraggio di preservare la nostra civilizzazione contro chi vuole sovvertirla e distruggerla? E che dire della strisciante burocrazia statalista che, di qua e di là dell’Atlantico, prosciuga la vitalità e la ricchezza del popolo?”

Queste domande non le ha poste pubblicamente qualche filosofo conservatore o reazionario, ma il presidente degli Stati Uniti Donald Trump in occasione del discorso ufficiale tenuto il 6 luglio 2017  a Varsavia. Non le ha poste né a caso né in un luogo qualunque. I Presidenti degli USA non fanno mai e poi mai nulla per caso.  Trump non è riuscito a dare risposte a queste domande che investono tutto l’Occidente. Forse non ci ha nemmeno tentato a rispondere o forse l’ha fatto ma sbagliando totalmente contenuti, metodo e pubblico. È andato fuori tema, ma altri potenti le stanno ancora leggendo cercando di capirle, e non hanno ancora risposte non avendo il “bigino” pronto da copiare. Fatto sta, che la risposta a queste domande compete a noi tutti. Mr. Joe Biden il 20 gennaio 2021, sa come si trova il suo Paese e il suo Continente, sa che deve cercare di dirigere e ricucire; è probabile che non sappia invece da che parte cominciare per rispondere a quelle domande. Di certo sa però che una grossa fetta dei 74 milioni di americani che hanno votato Trump, sono ancora più impauriti, impazienti, aggressivi di otto anni fa, di quattro anni fa e forse anche del giorno dell’Epifania appena passata. Sa anche che eredita un’America, con o senza Trump, in profonda trasformazione dalla fine della presidenza Clinton e che la sua metamorfosi la porterà fra una dozzina di anni ad essere molto diversa da come noi l’abbiamo vista fino ad oggi. Per la prima volta nella sua storia i vecchi supereranno di numero i giovani, i millenials e la x generation saranno nettamente più numerosi dei baby boomers, i nativi bianchi saranno sotto al 50%, circa 20 % del ceto medio sarà sceso tra i poveri e il 4% salito nei ricchi. Lui sa anche che i programmi dei Repubblicani per il dopo Clinton non sono mai stati capaci di attuarli, seppur contenessero proposte utili. Addirittura più utili oggi che a fine anni ’90 si chiamavano: Contract with America e Restoring the dream. Magari ne farà un remix.

Il ritorno ai valori costituzionali dei Padri fondatori per lui che mercoledì metterà la mano sulla Bibbia in mondo visione, e il rispolvero della fede, della speranza e della carità non solo religiose ma genuinamente laiche per loro e per noi; potrebbe essere il comun denominatore per valorizzare il ceto medio e rendere di nuovo grande la Civiltà occidentale ripartendo dall’America. Fede nel mantenere la certezza che l’uomo vuole il bene e ha un destino comunque buono grazie a quelle leggi non scritte, ma impresse nella sua coscienza morale. Speranza nel credere che la persona possa farcela autorevolmente dal basso, unendosi con altri, senza sistemi autoritari perfetti, pilotati e imposti dall’alto. Carità nel riconoscere il limite, la fallibilità e l’imperfezione umana, quali punti di forza e di libertà anziché di debolezza (anti perfettismo). In ogni caso stiamone certi, se l’America smettesse di sognare, per noi inizierebbero gli incubi.Buon lavoro Presidente!

*Capogruppo UDC in Gran Consiglio

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