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Quanto ci manchi Giorgio Gaber. Lettera al Signor G.
Avevi questa enorme, perversa, pericolosa capacità di insinuare il dubbio. Di provocarci. Di dirci che avevamo torto. E ci costringevi a pensare, magari di nascosto, senza dirlo a nessuno.

Caro Signor G,

qui va come al solito. O come ha recentemente cantato Claudio Bisio: “Oggi le cose non sono cambiate, caro Giorgio sono peggiorate, tu non lo sai quante altre cagate”.

Non c’è un uomo nuovo e neppure una nuova coscienza. Siamo andati avanti altri dieci anni “a far finta di essere sani”. Ad avere un’idea che “finché resta un'idea è soltanto un'astrazione/ se potessi mangiare un'idea/ avrei fatto la mia rivoluzione”. Nessuna rivoluzione, almeno di quel tipo, al momento, e nessuno che ha “buttato lì qualcosa” e poi se ne andato via. Sono rimasti…tutti.

Ma senza di te, senza le tue analisi lucide e spietate, il tuo rigore nello stroncare vizi interessati, dogmi indiscutibili e mode passeggere, senza la tua tenerezza e la tua indulgenza con le quali coccolavi la passione, gli ideali e i sogni, purché autentici e in buonafede, di molti di noi, ecco, senza di te non è la stessa cosa. 

Hai voglia a dire che le tue canzoni, i tuoi monologhi, le tue riflessioni, sono lì pronte ad essere consultate e consumate in qualunque momento. E sai, tantissimi giovani ti hanno scoperto dopo la tua morte, e tanti altri ti hanno riscoperto. I tuoi spettacoli sono tornati in scena e le tue canzoni sono diventate cover. Ti ha cantato perfino Laura Pausini, un po' come era stato per tuo papà aver toccato Orietta Berti.  Tutti noi che abbiamo avuto il piacere di incontrare la tua opera, negli anni ti abbiamo riascoltato con attenzione e godimento. E molte cose le abbiamo capite dopo. 

Come se il tuo pensiero, come quello dei più grandi, avesse avuto bisogno del respiro del tempo per compiersi ed essere compreso. Cioè per ammettere che tu su molte cose avevi ragioni e noi no. Per questo il tuo oceanico repertorio riesce ancora a coniugarsi perfettamente con questo nostro confuso presente, a illuminare gli angoli più nascosti dell’essere umano e quelli più spigolosi e meno conformisti delle complesse relazioni sociali. 

Il tuo pensiero è un pensiero moderno. Moderno che è più che attuale. Non si consumerà per molti anni ancora e continuerà ad esserci utile. Perché è stato partorito senza i filtri dell’ideologia e senza il contagio dei molti venti di ogni contemporaneità, o del momento, come avresti detto tu. E non è un caso che Pier Paolo Pasolini sia stato l’intellettuale a cui più ti hanno accostato e da cui tu ti sei fatto più contaminare. La mente corre a quell’intervista del 1974 sulla spiaggia ventosa di Sabaudia in cui Pasolini denunciò il potere della civiltà dei consumi, l’omologazione di massa che distrugge le realtà particolari. Un potere capace di affermarsi nella testa delle persone, e nelle viscere della società, molto più del fascismo, che in questo aveva fallito miseramente. Trentanove anni dopo quella che allora a molti sembrò solo una provocazione, oggi è constatazione, ovvietà, cronaca. 

Però ci manchi. Ci avrebbe fatto comodo sapere quel che avresti pensato di questa crisi, per dirne una. O, strettamente collegato, ciò che avresti detto sulle gravi mutazioni che sta vivendo “quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia”. Ma non per aggiungere un’opinione al catalogo, ma perché tu, accanto alla lettura e alle stroncature del presente, ci avresti detto ciò che sarebbe successo dopo. Come avremmo potuto uscirne e come avremmo potuto soccombere. A questo servono gli intellettuali. 

D’altra parte ci avevi già messo in guardia alla fine degli anni '90 che “il mercato è un ordigno innescato” ed “è un competizione fra le più disumane/senza pietà per il massacro dei perdenti”. Senza però dimenticare di ricordarci che era anche colpa nostra se “lo squalo gigante era sempre più onnipotente”. “Il mercato è un neonato opulento/ ossequiato dal mondo/ è un bamboccio gonfiato/ che ingrassa anche senza nutrirsi/ non ha alcun bisogno né di cibo né di sogno/ siamo noi tutti la sua grande incubatrice”.

Forse ci avresti indicato ancora una volta “la strada” come punto da cui ripartire. “Perché il giudizio universale/  non passa per le case/ le case dove noi ci nascondiamo/ bisogna ritornare nella strada/ nella strada per conoscere chi siamo”.  E poi perché “anche nelle case più spaziose/ non c’è spazio per verifiche e confronti”.

Ci manca la tua faccia. I tuoi capelli folti, il tuo sguardo intelligente, il tuo viso lungo e gommoso. Il tuo nasone. Una faccia che è diventata una faccia sparendo dai colori e dall’esposizione di massa televisiva. 

Anche nelle foto più recenti sei sempre ritratto in bianco e nero. Vale a dire nella formula fotografica, abusata, con cui abbiamo imparato a conoscere gli intellettuali del 900. Ma nei tuoi scatti non c’è mai l’espressione dolente o l’occhio che sfugge a rincorrere pensieri e orizzonti neppure immaginabili per voi comuni mortali. Al contrario c’è sempre una vena di autoironia. Come un consiglio a non prendersi troppo sul serio e a non metterla giù dura. Proprio da te arrivava quel suggerimento a osservare la vita e le sue cose con leggerezza. Tu che le vicende dell’esistenza, dell’essere umano, dei rapporti degli uomini con gli uomini, le avevi indagate e sviscerate così nel profondo. E forse proprio per questo avevi capito che osservarle con la rigidità di un giudizio senza indulgenza, significava non aver capire nulla. 

Mi ricordo che quando ti ho incontrato per la prima volta mi sono veramente sentito preso per il culo. Ma che voleva questo Gaber che spernacchiava le nostre verità ideologiche, i nostri vestiti e le nostre parole d’ordine da giovani rivoluzionari degli anni 2000? Ti si ascoltava perché infondo avevi scritto che “la libertà è partecipazione”, ed eri stato punto di riferimento, in qualche modo e in molti casi tuo malgrado, per la cultura e la retorica sessantottina di cui eravamo imbevuti per diretta trasmissione dei nostri genitori. 

Ce ne dicevi di tutti i colori dopo averle dette ai nostri parenti più vecchi.  “E voi che pretendete che tutto vi sia dovuto/ con la scusa infantile che "nessuno mi ha mai capito"/ siete così velleitari come artisti improvvisati/ con quella finta libertà dei giovani viziati”. O peggio: “E anche se è diverso il vostro grado di coscienza/ quando è moda è moda non c'è nessuna differenza/ fra quella del play-boy più sorpassato e più reazionario/ a quella sublimata di fare una comune o un consultorio”.   E ancora: “E anche nell'amore non riesco a conquistare la vostra leggerezza
/ non riesco neanche a improvvisare/ a fare un po' l'omosessuale
 tanto per cambiare”. 

Noi giovani ci dicevamo, ripetendo quello che ci dicevano i più vecchi che ci avevano passato i tuoi dischi, “Gaber un grande, per carità, ma poi negli anni si è bollito ed è diventato un qualunquista. Ha persino la moglie in Forza Italia e ha detto che la vota”. Una bestemmia attorno a cui far ruotare la nostra vuota consolazione da coglioni. Talmente inconsistente, che tu, nella stessa canzone, ci avevi già risposto: “Di quelli che diranno che sono qualunquista non me ne frega niente/ non sono più compagno né femministaiolo militante/ mi fanno schifo le vostre animazioni, le ricerche popolari e le altre cazzate/ e finalmente non sopporto le vostre donne liberate con cui voi discutete democraticamente/ sono diverso perché quando è merda è merda/ non ha importanza la specificazione”. 

E allora tornavamo ad ascoltare Francesco Guccini, Manu Chao e i Modena City Remblers che ci davano la nostra “Bella ciao” quotidiana, saziando nella certezza di avere ragione l’appetito ribelle. Perché tu avevi questa enorme, perversa, pericolosa capacità di insinuare il dubbio. Di provocarci. Di dirci che avevamo torto. E ci costringevi a pensare, magari di nascosto, senza dirlo a nessuno. Che quando sei in piazza, le distinzioni tra buoni e cattivi, sono chiare e non vanno messe in discussione.

Come nella lotta non vanno messi in discussione gli slogan e i capisaldi ideologici. Però tu chiedevi ai tuoi coetanei, e a noi per interposta generazione, se potevi parlare di Maria, mentre loro discutevano di rivoluzione, libertà, Vietnam e Cambogia. E Maria non era la marijuana, che ci sarebbe sembrato figo, ma era la realtà. Ed era ed è difficile parlare di Maria, un tema così poco appassionante “in un mondo così pieno di tensione”, perché “tante cose ci sembrano più importanti”. E pur essendo interessati alla politica e alla sociologia, e a qualsiasi ideologia, il problema poi, oggi come allora, è sempre lo stesso: non riusciamo più a parlare di Maria.

Ma, come dicevo prima, avevi un grande rispetto per quegli ideali e quelle passioni autentiche che dissacravi, talvolta con violenza. Ne denunciavi impietosamente la pomposità, i peccati, le contraddizioni e la sconfitta. Ma ne difendevi i valori e gli slanci. I sogni che portavano in grembo. “Qualcuno era comunista” è la sintesi perfetta del tuo approccio. Un manifesto sulla sinistra e sull’essere di sinistra che ogni persona di quella parte dovrebbe ascoltare almeno una volta nella vita e poi riascoltare di tanto in tanto. La canzone su quelli che credevano di poter essere vivi e felici solo se lo erano anche gli altri ma che avevano aperto le ali senza essere capaci di volare. Ma pur senza rimpianti, aggiungevi certificando il fallimento, oggi i gabbiani non hanno più neanche l’intenzione del volo. Il sogno si è rattrappito e la miseria umana è raddoppiata. 

Alla sinistra e alla sua gente volevi bene e proprio per questo ti faceva incazzare e non le risparmiavi nulla. “Al bar Casablanca/ seduti all'aperto/ la nikon gli occhiali/ e sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali/ blue jeans scoloriti/ la barba sporcata da un po' di gelato/ Parliamo, parliamo di rivoluzione, di proletariato”. O nei Reduci: “E allora ci siamo sentiti insicuri e stravolti/ come reduci laceri e stanchi, come inutili eroi/ con le bende perdute per strada e le fasce sui volti/ già a vent'anni siam qui a raccontare ai nipoti che noi/ noi buttavamo tutto in aria/ e c'era un senso di vittoria/ come se tenesse conto del coraggio/ la storia”. O nella consumata Destra-Sinistra:  “Il pensiero liberale è di destra, ora è buono anche per la sinistra”. E anche tutto il vecchio moralismo, scrivevi, è di sinistra.

Eri un artista provocatorio e coraggioso e non facevi sconti al buonismo. Due anni dopo l’assassinio di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse cantasti nella tua più celebre invettiva: “Io se fossi Dio/ quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio/ c'avrei ancora il coraggio di continuare a dire/ che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia Cristiana/ è il responsabile maggiore di vent'anni di cancrena italiana. Io se fossi Dio, un Dio incosciente enormemente saggio/ avrei anche il coraggio di andare dritto in galera/ ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora/ quella faccia che era!”. 

E a proposito di finto buonismo, come non ricordare il “Potere dei più buoni”, altra violenta invettiva contro l’associazionismo di comodo, e i luoghi comuni sulla società multirazziale e sull’ambientalismo: “Penso ad un popolo multirazziale/  ad uno stato molto solidale/ che stanzi fondi in abbondanza/  perché il mio motto è l'accoglienza/  penso al disagio degli albanesi  dei marocchini, dei senegalesi/  bisogna dare appartamenti ai clandestini e anche ai parenti/  e per gli zingari degli albergoni coi frigobar e le televisioni”.   

Tanto è bello sentirsi buoni “usando i soldi degli italiani”.  

Parole come pietre scagliate con ferocia. Ma mai spacciate come verità assolute. Solo come una scossa per stimolare nuove domande e spalancare le porte a un nuovo ragionamento, a una nuova discussione. Magari per poi accorgersi che l’assunto era sbagliato.   

Ecco un’altra cosa per cui ci manchi. Per il tuo continuo tenere sveglio e allenato il nostro spirito critico. Unico vero antidoto ad ogni populismo. Sai, non c’è quasi più e anzi si sono prodotti paradossi tragici. Il mondo dell’informazione ne è un emblema. Se da una parte ci sono quelli che si sono completamente alienati e si bevono senza riflessi tutto ciò che raccontano giornali, televisioni e siti web. Dall’altra c’è un nuovo poderoso esercito, forse più credulone del primo, che pende dalle labbra della contro-informazione. Una contro-informazione per cui tutto è un complotto, le fonti a sostegno della cospirazione sono tutti degli ex (politici, militari, scienziati eccetera, eccetera, eccetera), e dove non esistono verifiche, confronti, contraddittorio, domande, dubbi. Spirito critico, appunto.  Rimandiamo i due eserciti, e tutti noi prostitute di “quei bordelli di pensiero che chiamano giornali”, all’ascolto di C’è un’aria: “Chi ama troppo l'informazione/ oltre a non sapere niente è anche più coglione”.

Ma hai parlato anche d’amore. Il Dilemma e Quando sarò capace di amare, sono due scrigni colmi di indizi per tentare di orientarsi nel labirinto della passione, delle fragilità, della relazione tra un uomo e una donna e del loro ruolo sulla scacchiera sociale: si chiami padre, madre o famiglia. Ma ci manca anche la lente che sapevi posare su quei momenti intimi e segreti che viviamo individualmente.  Come un’improvvisa “Illogica allegria” o “Il desiderio” che “è la cosa più importante”:  “il sentimento che ti salva dalla noia”. 

Ma più di tutto, caro Signor G, ci manca il tuo continuo incoraggiamento a cambiare il mondo. Accanto alla constatazione di una civiltà “come un deserto di antiche rovine”, al bisogno di affidarsi a nuove generazioni perché la tua aveva perso, ci hai sempre messo la speranza perché “non è mai finita. E tutto quel che accade fa parte della vita”. E ci hai sempre incoraggiato a cambiare il mondo senza scorciatoie, senza affidarsi a vecchi arnesi ideologici, senza seguire una via conosciuta. “Non insegnate ai bambini/ non divulgate illusioni sociali/ non gli riempite il futuro di vecchi ideali/ ma se proprio volete/ insegnate soltanto/ la magia della vita/ Giro giro tondo/ cambia il mondo”

Andrea Leoni

PS: se ti capita salutaci il Riccardo, il Cerutti Gino e quelli del Trani a Gogo. E fate un brindisi per noi, a barbera e champagne

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