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L'Ippopotamo al Festival
08.08.2018 - 08:020

Il Festival presenta: la Chiesa cattolica come “Stato totalitario”. Olè. Eppure...

Basta questo per dare un brutto voto al film Menocchio in Concorso internazionale? No. Per due motivi.

Così imbeccati da un ippopotamo cinefilo (ne esistono, anche se molto rari), ieri abbiamo disertato Piazza Grande e siamo andati in una sorta di cella refrigerante (deliziosa) posta accanto alla chiesa di Muralto. Lì si proiettava un film iscritto al Concorso internazionale: “Menocchio”.

In attesa della proiezione, consultiamo il librone con tutto il programmone del festival (scritto in francese e inglese, olè, la terza lingua nazionale ringrazia di cuore; già che ci siamo perché non spostare il festival a Ginevra o Losanna? Qualche piazza o qualche ameno parco ce l’avranno pure anche loro…).

Leggiamo la presentazione ufficiale del film, che attacca così (traduciamo): “Italia. Fine del XVI secolo. La Chiesa cattolica romana, sentendosi minacciata nella sua egemonia dalla riforma protestante, lancia la prima guerra ideologica sistematica di uno Stato per il controllo totale delle coscienze”. Olè. Ci van giù duri gli uomini di Carletto Chatrian quando hanno tra le mani lo “Stato” cattolico.

Per venire al film, si tratta del lavoro di un regista italiano, Alberto Fasulo, incentrato su un pittoresco ma tragico personaggio che lo storico Carlo Ginzburg ha portato alla luce negli anni 70 con un saggio intitolato “Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500”.  Il mugnaio si chiamava Menocchio, era anche contadino e viveva nelle montagne del Friuli.

Diversamente però dal ritratto che ce ne offre Fasulo, ovvero quello di un contadino meditabondo che dall’osservazione della natura ricavava una sua visione quasi scientifica del cosmo che lo induceva a posizioni religiose eretiche rispetto all’ortodossia cattolica, gli storici che hanno studiato la documentazione sul processo intentato a Menocchio per eresia hanno messo bene in evidenza che il mugnaio aveva alle spalle parecchie dichiarate letture di scritti a sfondo religioso e teologico; tant’è che gli studiosi discutono di influssi catari piuttosto che valdesi se non addirittura anabattisti.

Ma il regista preferisce mostrarcelo come un fungo cresciuto dal nulla per spirito di indipendenza e di rivolta contro una Chiesa di ricchi ecclesiastici che nei loro possedimenti sfruttano i contadini e ne controllano la vita tramite i confessionali. Basta questo per chiudere con un brutto voto e rimandare Fasulo a documentarsi seriamente? No. Per due motivi.


Il primo è che quel che c’è di vero nel film sulla storia di Menocchio, per ubriacone, simulatore e psicopatico egli fosse in realtà, è più che sufficiente per giustificare la denuncia di una grave deriva del cristianesimo (non solo cattolico!) che per secoli, dall’inizio del 400, ha ceduto istituzionalmente alla tentazione di usare il potere civile (peggio se esercitato direttamente da ecclesiastici) per evangelizzare e per tentare di mantenere la fede con mezzi coercitivi. E questo anche se in realtà la famigerata Inquisizione romana fu se mai un tentativo di correggere in modo garantista una giustizia civile che non andava per il sottile nel reprimere delitti di ribellione religiosa. Ma in qualsiasi caso l’uso della forza e del potere per cercare di imporre “la verità” è una gravissima, e per giunta inutile, violazione del diritto sacrosanto alla libertà di coscienza e di religione. La verità, se è tale, si impone da se stessa, e solo per la sua gratuita attrattiva.


Il secondo motivo è che, comunque, quest’opera di Fasulo esprime una capacità registica fuori del comune. Il film è in gran parte una pièce di teatro, fatta di dialoghi tra Menocchio e i suoi inquisitori, dove la camera si insinua nelle pieghe dei volti e ne scruta ogni minima movenza significativa. Ma ciò che è ammirevole in Fasulo è prima di tutto la sua abilità registica nello scovare tra la gente comune i personaggi capaci di diventare attori fortemente espressivi. Un talent scout alla Pasolini, insomma.

Proprio in forza di questa abilità (“in cauda venenum”) risulta scontata e inutilmente caricaturale la scelta di far impersonare quasi tutti gli ecclesiastici inquisitori da figure sgradevoli, isteriche o, come nel caso del vescovo del posto, francamente ippopotamiche.

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