CRONACA
Le macerie di una storia
Fatti e riflessioni su un weekend di cronaca già entrato di diritto nella storia della Città di Lugano

di Andrea Leoni

È dura tenere insieme tutto e a bada le emozioni dopo quarantott'ore forsennate di una cronaca che, ancora bagnata e in divenire, è già entrata di diritto nella storia di Lugano. È difficile tenere il solco della razionalità tra i cori delle tifoserie, di chi esulta e di chi protesta, con il sangue della passione che ottenebra il pensiero. Ci proviamo. Ci proviamo ribadendo in premessa ciò che resta una nostra intima convinzione: in una città come Lugano deve trovare spazio un’esperienza politica e culturale alternativa e disobbediente come quella dell’autogestione.

I fatti, innanzitutto, almeno quelli principali, che abbiamo potuto verificare nelle ultime quarant’otto ore. Il piano dello sgombero dell’ex Macello era in freezer ed era stato elaborato, sulla base di vari scenari, nelle settimane precedenti, con continui contatti tra l’autorità politica e le forze di polizia. Una parte degli agenti romandi presenti in Ticino erano espressamente destinati ad occuparsi della questione molinari e questo lo si sapeva già da venerdì. Il piano è stato scongelato e messo in atto dopo l’occupazione dello stabile in disuso dell’ex Vanoni, su precisa indicazione del Municipio che si è consultato telefonicamente e ha deciso di procedere con una maggioranza di 5 a 2 (contrari Cristina Zanini Barzaghi e Roberto Badaracco). Anche la successiva demolizione, caldeggiata dalla polizia, ha avuto l’avallo della maggioranza municipale, ma senza un ulteriore consulto dei colleghi contrari. I riscontri sugli avvenimenti non lasciano dubbi sul fatto che le forze dell’ordine abbiano proceduto a seguito di due chiare decisioni politiche (e ci mancherebbe altro!). Da un punto di vista dell’ordine pubblico l’intervento è stato perfetto per strategia e tattica: risultato raggiunto senza neppure un’escoriazione.

Passiamo ora in rassegna le tappe principali dell’escalation tra le istituzioni comunali e gli autogestiti, riferite all’ultimo periodo. Il 31 di ottobre una collega della Regione riceve una testata durante un raduno a Molino Nuovo (tutti gli appuntamenti di cui narriamo non sono stati autorizzati). Seguono vandalismi per le vie della Città. L’8 marzo i molinari organizzano un presidio alla stazione per protestare contro l’approvazione da parte del popolo della legge anti burqa. Il sit-in si risolve in tafferugli con la polizia, presente in tenuta anti sommossa, con relativo lancio di sassi e bottiglie e un breve blocco del traffico ferroviario. I molinari accuseranno la pubblica sicurezza di essere stati accerchiati e di un uso sproporzionato della forza. Dieci giorni dopo, il 18 marzo, il Municipio disdice la convenzione sottoscritta nel 2002 - con il Cantone e gli autogestiti - che regolava la presenza dei molinari negli spazi dell’ex Macello, a seguito del precedente sgombero del Maglio. Vengono dati venti giorni per sloggiare. Ne passeranno di più, ma la decisione segue l’iter giuridico e cresce in giudicato, anche a causa della rinuncia degli autonomi a presentare opposizione. Nel mezzo ci sono anche le elezioni: la compagine municipale presenta due volti nuovi, ma la maggioranza politica è immutata e conferma la linea del precedente Municipio. Il resto è quanto accaduto nel weekend.

Considerazioni personali, ora. Ci eravamo sinceramente illusi che la disdetta della convenzione da parte del Municipio, potesse smuovere una situazione ormai bloccata e incancrenita. A volte occorrono gesti di rottura per innescare processi virtuosi. Tale convinzione si era rafforzata dopo aver partecipato a una bellissima assemblea pubblica che gli autogestiti avevano organizzato alla Foce. In quel pomeriggio, in particolare dai rappresentanti della vecchia guardia, la parola dialogo era echeggiata con forza e chiarezza nell’agorà. C’erano gli slogan, le rivendicazioni identitarie, ma anche l’autocritica. C’era la politica, soprattutto, con la discussione di temi fuori dall’agenda dei partiti, ma assolutamente centrali nel mondo contemporaneo: la povertà, il disagio e l’esclusione sociale, la solitudine, la dicotomia sempre più sfacciata fra chi ha tutto e chi ha niente, la necessità di spazi culturali dove poter fruire a pochi franchi, l’assenza di dormitori e lavanderie per i senza tetto o di un pasto caldo per gli irregolari della società. C’era la politica ma non c’erano i politici, preoccupati di farsi fotografare all’ascolto a pochi giorni dalle elezioni.

Ci avevamo sperato davvero e non capiremo mai come gli autogestiti dal 18 marzo alla notte di sabato 29 maggio, abbiano gettato nel cesso l’occasione formidabile di una svolta. Si era partiti con un Municipio che dava venti giorni per sgomberare affermando “o vengono loro a chiederci di parlare, oppure procederemo ”, e si era arrivati a due Municipali, Filippo Lombardi e Karin Valenzano Rossi, che lunedì scorso si sono presentati al cancello dall’ex Macello a chiedere udienza, attendendo per un paio d’ore un segnale positivo. Avevano già vinto e non se sono accorti. Si può rimproverare tutto all’Esecutivo di Lugano, ma non di non aver cercato di aprire una discussione negli ultimi due mesi e mezzo. Lo hanno fatto in modo aspro, duro, conciliante, gentile, con persone diverse, in italiano, in greco e in latino. Nessuna risposta. Un atto di miopia politica e d’imperdonabile arroganza, da parte degli autogestiti. 

Seconda considerazione. Organizzare una manifestazione, in pieno centro e in questo momento, è stata una grave imprudenza, per usare un eufemismo. Questa settimana il Gran Consiglio avrebbe dovuto decidere su una mozione che proponeva la nomina di un mediatore  che avrebbe dovuto riunire le parti (Cantone, Lugano e autogestiti) con lo scopo d’individuare uno spazio alternativo all’ex Macello e sottoscrive una nuova convenzione. Una maggioranza sarebbe stata possibile, pur con una destra che aveva già cominciato a sfilarsi, dopo aver sottoscritto il rapporto, proprio contestualmente all’annuncio della manifestazione. Si sono offerti tutti i pretesti possibili per far saltare il banco. E poi si sa: un’adunata, pur con tutte le attenzioni e l’ispirazione pacifica possibili, può sempre sfuggire di mano, senza volontarietà e anche all’ultimo. Bastano dieci teste calde. Ed è quello che è accaduto sabato, con una manifestazione gestita perfettamente fino all’occupazione dell’ex Vanoni.

Terza considerazione. In questi anni l’autogestione luganese non è riuscita a svilupparsi, come in altre realtà svizzere, intessendo relazioni culturali e sociali con il tessuto cittadino. Al contrario ha reciso fili e tagliato ponti, ragionando per esclusione e cedendo all’autoreferenzialità. Un mondo aperto nello spirito che si è chiuso a riccio nell’azione, prosciugando l’area dei simpatizzanti (i non praticanti) e allontanando i moderati fino ad arroccarli sul fronte dell’ostilità. È indiscutibile che esiste una parte importante della popolazione di Lugano, non pregiudizialmente contraria all’autogestione, che ne ha davvero piene le scuffie dei molinari.

Su questo punto prendo a prestito le parole del collega John Robbiani, apparse sul Corriere del Ticino qualche tempo fa: “Lo CSOA negli ultimi anni se l’è presa con tutti. Se l’è presa con i poliziotti (terroristi), con i media (snitch, zerbini del potere da prendere a testate), con i municipali (fascisti), con il centro (radical-chic coatti) e perfino con i socialisti (cani da guardia del potere borghese). Così facendo il CSOA è riuscito ad alienarsi le simpatie di molti di coloro che invece – per formazione personale – dovrebbero secondo logica essere vicini all’autogestione e simpatizzare per essa. Persone che in questo momento si ritrovano a chiedersi se vale davvero la pena impegnarsi per salvare l’autogestione. Questa autogestione. Salvare un luogo in cui, alla fine, i benvenuti sembrano essere solo coloro che non appartengono alle categorie di cui sopra. Che a ben guardare sono davvero pochi”.

Osservando ieri la protesta svoltasi in piazza della Riforma durante la conferenza stampa del Municipio, mi è parso di vedere la rappresentazione plastica di questo ragionamento. In una domenica pomeriggio di sole, con lo sgombero eseguito, i calcinacci ancora caldi e la diretta televisiva che ha avvisato tutti dell’evento, solo un centinaio di persone si sono presentate fuori da Palazzo Civico. L’indignazione non ha scosso i luganesi, non si è innescato un moto di solidarietà tale da attirare in piazza i cittadini non ortodossi. I prossimi giorni ci diranno se è stato un caso oppure un indizio.

Quarta considerazione. La domanda più assillante delle ultime ore: ne valeva la pena? Pur comprendendo e riconoscendo il valore simbolico dell’ex Macello, davvero “quel qui siamo e qui restiamo”, la difesa oltranzista e dogmatica di quel luogo fisico, era più importante dell’apertura di un negoziato volto ad individuare uno spazio alternativo, magari più adeguato e funzionale, e che soprattutto avrebbe potuto mettere in sicurezza l’esperienza dell’autogestione? Davvero, oggi, la prosecuzione di uno scontro vale più del rischio di cancellare una straordinaria esperienza ventennale, senza neppure mettersi a sedere? Senza neppure provarci? Senza neanche mettere alla prova la buonafede dei municipali che, ancora ieri, hanno pubblicamente rilanciato la proposta? 

E poi il Cantone. La Bella Addormentata di tutta la vicenda. Sugli avvenimenti del weekend declina ogni responsabilità, confermando una volta di più l’atteggiamento pilatesco tenuto negli anni, nonostante fosse uno dei firmatari della convenzione. Mai un intervento, mai una mano tesa, mai un’assunzione di responsabilità. Solo una letterina, fuori tempo massimo, che ha creato più caos che altro. Lugano è stata abbandonata a se stessa, questa è la verità, dopo che vent’anni prima aveva tolto le castagne dal fuoco proprio al Cantone, offrendo il Molino dopo lo sgombero del Maglio. “Anche se voi vi credete assolti/ siete lo stesso coinvolti”.

Quinta e ultima considerazione. La demolizione. Chiunque abbia un briciolo di coscienza civile e di amore per la libertà, non può che restare profondamente turbato davanti alle immagini delle ruspe in azione notturna e alle macerie del giorno dopo. A me hanno commosso. Perché quelle pietre non sono solo pietre, ma pezzi di una storia. Sono baci, litigi, abbracci, lacrime, sudore, poesie, musica, vomito. Sono risate, parolacce, insulti, ideali, stronzate, birra, minestre, piscio, amore. Sono la vita e il vissuto di migliaia di persone che per vent’anni hanno attraversato quel luogo. Non c’è dignità nella dinamica grossolana e prepotente di un braccio meccanico che polverizza i sentimenti. Non c’è legalità nell’azione di un Municipio che procede in sanatoria. Quelle macerie sfregiano e offendono l’anima e il cuore liberale di Lugano, comunque la si pensi. Talvolta uno Stato è costretto a mostrare i muscoli per far rispettare le regole o per difendersi. Ma le ruspe no, non così, quelle appartengono al linguaggio fascistoide della propaganda che non dovrebbe mai tradursi in fatti in una democrazia.

 

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