di Claudio Mésoniat e Beniamino Sani - articolo pubblicato da ilfederalista.ch
Ora lo dice anche il Lancet, rivista arci nota per il suo procedere con i piedi di piombo della scienza: l’inverno demografico è un dato di fatto ormai globale (che fa da pendant –aggiungiamo noi- all’estate climatica perpetua che ci affligge). E il Tagi suona l’allarme: siamo prigionieri di “un circolo vizioso senza fine”.
È vero anche che vi è una radice culturale all’origine dell’incubo della denatalità irrefrenabile: la famiglia senza figli –osserva il giornale zurighese- “è meno stigmatizzata ed è diventata uno stile di vita accettato”. E sta bene così.
Ma si potrebbe voltare la questione in positivo: anche nelle nostre società, un po’ tristi, non mancano famiglie aperte alla natalità e dove, nonostante disagi e problemi, è di casa la letizia, non la tristezza. Del resto, si è mai visto un genitore cui non brillino gli occhi quando parla di un figlio?
In occasione di un incontro degli “Stati Generali della Natalità”, nel 2022, papa Francesco aveva scritto: “Questa è una nuova povertà che mi spaventa. È la povertà generativa di chi fa lo sconto al desiderio di felicità che ha nel cuore, di chi si rassegna ad annacquare le aspirazioni più grandi, di chi si accontenta di poco e smette di sperare in grande”.
Ma è pure vero che sulla cultura, a livello di suoi archetipi profondi, non si incide con le campagne declamatorie a base dei “nostri valori”, di cui tanto populismo politico si riempie la bocca. I cambiamenti culturali, le trasformazioni della mentalità dominante in una società, necessitano di tempi imprevedibili perché frutto di scelte totalmente affidate alla libertà delle persone, delle coppie nel caso specifico di un’apertura alla generazione. E ciò che mette in moto la libertà è solo la possibilità di imbattersi e di avere davanti agli occhi esempi lampanti di famiglie che hanno superato lietamente le soglie di quella “povertà generativa” che spaventa Francesco.
La politica non stia a guardare
E dunque la politica ha buon titolo di starsene con le mani in mano? Impotente di fronte alle conseguenze del crollo demografico? Sbilanciamento delle generazioni, con sempre meno giovani a produrre in luogo di una sempre più numerosa generazione anziana (segando il ramo della socialità su cui stiamo tutti seduti); calo numerico progressivo della popolazione; necessità di valorizzare l’immigrazione (con conseguenti problemi non banali di integrazione sociale e linguistica, di formazione ecc.).
In realtà, altri Paesi in Europa (Francia, Germania e Svezia in particolare) sono stati capaci di introdurre una decisione personale e famigliare, com’è quella procreativa, in orizzonti sociali, giacché i figli non sono solo una fonte di affetti famigliari ma anche una risorsa collettiva.
Noi siamo soliti citare l’esempio della Francia. Repetita iuvant. Lo Stato francese coccola letteralmente le (più o meno) giovani famiglie con una pioggia di provvedimenti volti a favorire la natalità. Eccone alcuni: assegni per ogni nuovo nato, sconti fiscali pluriennali per l’assunzione di babysitter, asili e collaboratrici domestiche, supporti clinici e psicologici alla natalità, stimolo alla creazione di cooperative di assistenza per infanti e giovani, sussidi particolari per il secondo e terzo figlio e per le madri sole. Alcune a noi note, altre inedite. Ce n’è abbastanza per dare impulso alla fantasia dei nostri “eletti” (comunali, cantonali e federali)?
Intanto diamo un’occhiata all’impressionante studio del Lancet (e alle pertinenti osservazioni del Tagesanzeiger, che fornisce pure utili confronti con la situazione del nostro Paese).
Sempre meno nascite da qui al 2100
Il XXI secolo sarà anche il secolo del repentino raffreddamento che gli specialisti chiamano “inverno demografico”? Ovvero quel circolo vizioso e autoalimentato che si innesta quando ogni generazione mette al mondo un numero sempre inferiore di potenziali futuri genitori.
Che il nuovo millennio non si aprirà con la bomba demografica ipotizzata decenni or sono dal Club di Roma, bensì con un graduale calo delle nascite che toccherà quasi tutti i continenti (con alcune eccezioni, a partire dall’Africa subsahariana), portando buona parte del globo nei territori infidi e acquitrinosi della denatalità, è un’ipotesi che negli ultimi anni si è fatta strada tra gli analisti e gli aruspici delle proiezioni statistiche. Il citato studio pubblicato di recente su The Lancet sostanzia tale prospettiva di un mondo al di sotto del “tasso di sostituzione” a fine secolo.
Il lavoro stima infatti che se nel 2021 il 46% dei Paesi aveva un tasso di fertilità inferiore al livello di sostituzione, tale cifra aumenterà fino al 97% entro il 2100. Conclude la pubblicazione (che fornisce le previsioni per tre diversi scenari, uno “di riferimento” e due condizionati dal tipo di politiche messe in campo dai Governi mondiali): “I tassi di fertilità futuri continueranno a diminuire in tutto il mondo, raggiungendo un tasso di fecondità totale globale nel 2050 di 1,83 (1,59-2,08) e di 1,59 (1,25-1,96) nel 2100”.
Un mondo dunque, nel suo complesso, sulla via della decrescita. Sempre Lancet: “Le tendenze dal 2000 mostrano una notevole eterogeneità nella ripidità dei cali, e solo un piccolo numero di Paesi ha sperimentato un leggero rimbalzo della fertilità dopo il tasso più basso osservato, ma nessuno è mai tornato a raggiungere il livello di sostituzione”.
Nemmeno le politiche pro natalità, pur migliorando sensibilmente le cose, hanno finora avuto successo nel riportare i dati nei territori positivi, né è prevedibile che lo facciano in futuro: “In futuro i tassi di fertilità continueranno a diminuire in tutto il mondo e rimarranno bassi anche in caso di attuazione efficace di politiche pro-natali”. Ciò detto, il testo non si esime dall’offrire un’avvertenza importante: gli scenari passati si sono spesso dimostrati fallaci; dunque, anche quelli odierni potrebbero essere smentiti dalla realtà, poiché in demografia gli andamenti hanno spesso mostrato delle sterzate repentine ancora fondamentalmente non spiegate o comprese pienamente.
Dinamiche e cause del “raffreddamento” globale
Il Tagesanzeiger, riportando negli scorsi giorni i dati di questa analisi, ricordava come anche la Svizzera, che negli scorsi decenni aveva comunque avuto un livello delle nascite – seppure già da tempo deficitario e alimentato soprattutto dai genitori con origine migratoria – superiore alla media europea. Le cose sono cambiate con una certa rapidità: “Il tasso di fecondità è sceso dal 2,4 nel 1960 a 1,5 figli per donna (a dir il vero nel 2022 era addirittura sotto l’1,4, ndr.). Questo dato colloca oggi la Svizzera al 39° posto a livello mondiale, uno dei Paesi con il tasso più basso”.
Il fenomeno, globale come abbiamo detto, ha anche ragioni oggettive: una delle più significative è il crollo negli ultimi decenni della fertilità maschile. Sempre il Tagi: “La qualità del seme è peggiorata in tutto il mondo negli ultimi decenni. Secondo un ampio metastudio, dal 1973 la concentrazione media di spermatozoi negli uomini è diminuita a un ritmo sempre più rapido. Nel periodo di studio più recente era addirittura al di sotto della soglia critica di 40 milioni di spermatozoi per millilitro di liquido seminale, sotto la quale le possibilità di gravidanza diminuiscono sensibilmente”.
Perché questo crollo si sia prodotto è ancora materia di analisi. Altrettanto misterioso e in attesa di spiegazioni persuasive e definitive è l’autentico collasso delle nuove nascite prodottosi nel periodo post-covid. Se i primi mesi del periodo post-pandemico avevano addirittura fatto sperare in un nuovo baby-boom, gli anni successivi, segnati dall’inflazione e dalle guerre, ci hanno rivelato una realtà ben più arida e gelida, registrando diminuzioni nelle nuove nascite di anno in anno marcatamente più rapide. Tanto che c’è chi ipotizza che il virus stesso abbia avuto un influsso diretto.
Il Tagesanzeiger –come abbiamo detto sopra- identifica quello che è forse l’elemento decisivo: “Si sta verificando – scrive il quotidiano zurighese – un cambiamento culturale: L’assenza di figli è meno stigmatizzata ed è diventata uno stile di vita accettato. Sempre più persone puntano consapevolmente a una vita senza figli o decidono di averne più tardi a causa della loro situazione scolastica e professionale, anche se ciò si rivela più difficile con l'avanzare dell'età”.
Un cambiamento con tante implicazioni
I numerosi coautori della previsione ospitata da The Lancet offrono anche uno sguardo sugli effetti dell’andamento da loro congetturato: “Questi cambiamenti avranno conseguenze economiche e sociali di vasta portata. a causa dell'invecchiamento della popolazione e della diminuzione della forza lavoro nei Paesi a più alto reddito, combinati con una proporzione crescente delle nuove nascite che si registrerà nelle regioni più povere del mondo”.
Se la riduzione delle nascite avrà come risultato una minore pressione sulle risorse planetarie, non si può sottovalutare quanto l'invecchiamento della società stia tramutandosi in un onere sempre crescente per le finanze statali e i sistemi sanitari e pensionistici.
Anche l’altro, inevitabile, lato della medaglia non è confortante: “Il prevedibile calo del numero di adulti in età lavorativa porrà enormi sfide economiche e metterà a rischio la prosperità” (sempre il Tagi). Una conseguenza negativa di ciò si sperimenterà anche nelle poche aree, come l’Africa, che continueranno a lungo a registrare una crescita demografica: si vedranno sottratti una parte considerevole delle migliori menti dai Paesi ricchi che possono permetterselo (ne sappiamo qualcosa noi svizzeri che da tempo rubiamo parte della miglior forza lavoro ai nostri cugini europei).
Secondo l’articolo del Lancet questa dinamica rischia di protrarre la divisione tra un mondo ricco e povero di nascite e un mondo indigente ma “demograficamente produttivo”, prolungando al contempo fenomeni di instabilità in alcune regioni del cosiddetto Sud Globale, come la difficoltà di offrire una vita dignitosa a milioni di persone.