A cura della redazione de ilfederalista.ch
La battuta è ormai diventata un classico del conferenziere europeo standard chiamato a spiegare perché il Vecchio Continente nel campo delle tecnologie avanzate abbia perso il treno: “Chi di voi ha in tasca uno smartphone che non sia asiatico o americano alzi la mano”. Uditorio inevitabilmente immoto.
Fa impressione costatare, per esempio, che nelle prime 50 aziende tecnologiche digitali del mondo ve ne siano solo 4 europee, oppure -più impressionante ancora- che negli ultimi 50 anni negli USA siano state create sei aziende con capitalizzazione sopra i 1000 miliardi, tutte appartenenti al mondo digitale e dell’IA (Apple, Microsoft, Nvidia, Amazon, Alphabet, Meta). In Europa, neppure una.
Se la reginetta d’Europa, Ursula Von der Leyen, ha inaugurato il suo secondo mandato a capo della Commissione UE ponendolo sotto l’egida del Rapporto Draghi sulla competitività, non l’ha certo fatto per ragioni di prestigio ma perché il ritardo nel campo dell’innovazione digitale/tecnologica è uno dei sintomi di invecchiamento, e non solo demografico, di un Continente che non sa commercializzare una ricerca peraltro ancora fiorente nei suoi Paesi.
Gli altri sintomi? I costi energetici molto più alti per le aziende europee rispetto alle concorrenti statunitensi, frutto di una politica di decarbonizzazione che toccherebbe a tutti rispettare e che tutti proclamano di voler attuare ma che –a quanto pare- solo i Paesi europei interpretano con serietà e diligenza. E ancora: la dipendenza dalle importazioni di materie prime critiche e l’incapacità dei Governi di coordinare le spese di difesa/sicurezza necessarie per fronteggiare la crescente instabilità geopolitica.
Ed ecco il grido d’allarme di Mario Draghi: in un mondo nel quale nessuno può più cullare sogni di autarchia l’Europa è sempre meno competitiva perché sempre meno produttiva. Non si tratta di una sterile gara tra Continenti o Nazioni su chi abbia il PIL più performante. La perdita di produttività si traduce in perdita di PIL pro capite e di potere d’acquisto dei salari, vale a dire di benessere di persone e famiglie.
È giusta l’analisi di Draghi, è giustificato questo grido d’allarme? Lo chiediamo a Mauro Baranzini, già ordinario di Economia politica all’USI e docente in prestigiosi atenei europei.
“Il discorso di Draghi corre, il suo grido d'allarme è giustificato”, concede Baranzini. “L'Europa è un po' allo sbando, mentre la Cina è pilotata da un regime che certo noi non vorremmo e gli Stati Uniti da parte loro, con la loro aggressività anche militare, ci lasciano indietro”, riconosce l’economista, immedesimandosi, sia pur da svizzero, alla comune sorte europea.
Ma dichiara subito la sua stanchezza di fronte a “questo noioso Prodotto Interno Lordo”. Dopo 60 anni di onorato servizio, aggiunge Baranzini, “bisognerebbe trovare qualcosa di nuovo”. Per esempio? “La crescita di Draghi misura i cambiamenti quantitativi ma non quelli qualitativi. Molti servizi, soprattutto, ma anche beni, qui sono qualitativamente migliori, immensamente migliori. Cose che nel PIL non vengono misurate. Io preferisco crescere poco, ma crescere qualitativamente, con l’occhio anche all’ambiente, piuttosto che crescere molto e cementificare a dismisura. Oppure ancora, il PIL non include il tempo libero: i coreani hanno 20 ore in meno la settimana di tempo per riposare ricrearsi rispetto agli italiani o agli svizzeri (agli europei in generale). Insomma, il discorso di Draghi sul PIL fila ma delle finalità della produzione non tiene conto. La sanità, ad esempio, che nei nostri Paesi eccelle ed è davvero accessibile a tutti”.
E come la mettiamo con l’Europa –Svizzera compresa- incapace di mettere a frutto le sue ricerche e i suoi brevetti, un’Europa al traino di USA e Cina nel campo digitale e dell’intelligenza artificiale, e che con i cellulari (app incluse) importa modelli culturali deleteri? “Penso che l’Europa”, sospira speranzoso Baranzini, “abbia ancora la capacità di fare cose eccezionali, ma le devo dar ragione al 50%. Quanto alla cultura, ne abbiamo piene le nostre città, senza dimenticare che molti dei nostri giovani studiano gratuitamente, mentre negli Stati Uniti o in altri Paesi i genitori devono sborsare una quantità enorme di soldi”.
Capitali e centralizzazione dell’UE
Una paccata di soldi li dovrà sborsare anche l’Europa, qualora intendesse adottare le ricette di Mario Draghi. Le soluzioni della sua Agenda non entrano nel campo dell’unità politica europea ma si limitano a una serie di suggerimenti di tipo economico. Fondamentalmente uno: il finanziamento comune. Con quali costi?
Draghi: “Per digitalizzare e decarbonizzare l'economia, aumentando al contempo la sua capacità di difesa, la quota di investimenti in Europa dovrà aumentare di circa 5 punti percentuali del PIL”. In altre parole, più del doppio rispetto agli investimenti del Piano Marshall.
Per Baranzini “è impensabile che lo Stato sostituisca sistematicamente l’imprenditoria privata. D’altra parte, se tocca a un'agenzia europea centralizzata a Bruxelles trovare 500 o 1000 miliardi l’anno per insediare certe produzioni, l’operazione non andrà facilmente in porto, perché gli investimenti avvengono in base ad altre spinte, non a quella della disponibilità dei patrimoni o delle liquidità”. Anche l’impresa dell'euro e dell’Unione europea extra large –osserviamo- sembravano traguardi impossibili, eppure…
“Temo infatti che come a suo tempo Romano Prodi ha portato i confini dell’Europa fino alle porte della Russia, ora Draghi, da buon (ex) banchiere centrale, sogni un’Europa che marci unita come marciano i cinesi e preconizzi un’Europa centralizzata”. Perché lo teme, professore? “Perché un'Europa più centralizzata sarà sempre meno compatibile con un sistema federalista”.
Costi energetici e difesa
Il secondo ambito strategico della crisi europea che Draghi individua è quello della transizione energetica. Bruxelles vi si è lanciata come paladina della decarbonizzazione ma -Draghi non lo nasconde- con una buona dose di ingenuità, contando sulla stabilità delle fonti di approvvigionamento e sul rispetto degli impegni da parte di tutti i player. Così non è stato, e se la Russia ha sconvolto gli impegni assunti per ragioni geopolitiche, da parte sua la Cina continua a sostenere la propria economia incrementando l’uso di fonti fossili e determinando i prezzi di materie prime strategiche di cui detiene il monopolio.
Risultato: le aziende USA hanno energia elettrica a prezzi dimezzati rispetto a quelli europei e la Cina aumenta le emissioni carboniche senza batter ciglio. La decarbonizzazione –rileva Draghi- anziché fattore di sviluppo diventa ostacolo allo sviluppo economico europeo.
“Difficile dargli torto”, nota sconsolato Baranzini, “la Cina fino a un paio d’anni fa inaugurava una nuova centrale a carbone ogni settimana, e immagino che le cose non siano molto cambiate. E per di più inquina alla grande per produrre i pannelli solari che noi importiamo, per risparmiare e… per proteggere il clima”. Ma c’è poco da scherzare, aggiunge il professore, “forse solo quando il livello del mare si innalzerà di un metro si spaventeranno e correranno ai ripari”.
Sul terzo settore problematico, quello del rafforzamento della sicurezza e della difesa (Draghi denuncia l’incapacità europea di operare con produzioni e acquisti comuni da parte dei suoi Stati, consentendo economie di scala), il consenso di Baranzini è piuttosto netto: “Sono d'accordo. Se l'Europa fosse più unita, se ci fosse un esercito dell'Unione Europea, forse i russi starebbero un po’ più quatti. Su questo sono assolutamente d'accordo con lui”.
Con un’aggiunta… domestica: “Se sono d’accordo con Draghi, non lo sono con la nostra consigliera federale vallesana che va a comperare i caccia negli Stati Uniti quando c'erano alternative altrettanto valide e meno costose all'interno del nostro continente, per esempio in Francia. Qui probabilmente sono arrivate telefonate da Washington…”.
A questa stregua, ragioniamo, lei dovrebbe però approvare l’idea della signora Amherd di avvicinare il nostro esercito alla NATO? “Certo, senza aderirvi naturalmente, ma fintanto che si tratti di interoperabilità e di partecipazione a esercitazioni direi senz’altro di sì, nell’ottica di avere un blocco monolitico europeo più forte”.
L’Agenda Draghi e noi
Siamo ormai tornati in patria. Chiediamoci allora quanto l’Agenda Draghi possa interessare e toccare da vicino il nostro Paese. “Penso che tutto il progetto ci possa toccare e ci debba interessare”, non dubita neppure per un istante Baranzini. Ma attenzione, in modo critico.
“La Svizzera va maledettamente bene, ha una bilancia commerciale in attivo di 3 miliardi il mese. Ha una bilancia delle partite correnti, che include i beni e i servizi, enormemente in attivo (il 7% circa del prodotto interno lordo). Fa entrare 350mila frontalieri tutti i giorni e ha un tenore di vita molto alto. È ovvio però che se l'Europa dovesse riprendere fiato e crescere in modo più sostenuto la domanda di esportazioni svizzere potrebbe crescere e aumentare ulteriormente la situazione già positiva che abbiamo”.
Tutto rose per noi, dunque, se l’agenda si realizza? “Eh no, ci sarebbero anche le spine: un’Europa più compatta e centralizzata, come dicevo prima, renderebbe più difficile il cammino verso un Accordo Quadro o una qualsiasi altra forma di partenariato con un Paese federale come il nostro”.
Tifare contro l’Agenda Draghi? “Non direi, se guardiamo un po' più lontano, almeno su due campi, quello delle energie e quello della difesa, c'è da augurarsi che si facciano dei passi avanti”.