L'amico e collega Claudio Mésoniat:"Il coraggio con cui ha affrontato la malattia e la serenità con la quale ha accettato il suo destino, nella lotta, hanno testimoniato a tutti la fecondità della sua radice cristiana"
di Claudio Mésoniat - articolo apparso su ilfederalista.ch
Il ricordo di Gianmaria Pusterla, della sua personalità, si fissa per me su una parola: bontà. Poi su un riflesso di questa, la capacità di pacificare l'ambiente attorno a sé, smontando le dialettiche inutili e impettite; non per una piega timorata o insofferente della discussione come tale, per nulla, era anzi vivacissimo e non si sottraeva allo scambio di battute (pescate spesso nel suo dialetto momò). Era però capace di valorizzare gli argomenti di tutti gli interlocutori, compresi gli irruenti, come chi scrive. “In questo era perfettamente identico a suo padre”, mi ha svelato senza esitazione una persona a lui cara e che l'ha visto crescere –insieme al fratello gemello- sin dalla nascita, la sorella maggiore Nicoletta.
Non sto a ripercorrere tutte le tappe della sua carriera professionale, come già hanno fatto le numerose cronache sui media e alcuni ricordi struggenti sui social (da leggere in Facebook il gioioso ritratto del Pusterla-maestro-di-giornalismo abbozzato da Maria Acqua Simi).
Gianmaria era rimasto orfano di padre a 11 anni. Un padre del tutto speciale, “il” maestro del paese -Morbio Inferiore-, stroncato da un arresto cardiaco mentre insegnava ai suoi bambini delle elementari. A 46 anni. Un destino per qualche aspetto simile a quello di Gianma, costretto dalla malattia a lasciare il lavoro presso lo Stato (capo comunicazione del Dip. Istituzioni) solo poche settimane prima della morte.
Ma devo riconoscergli –a lui che direttore di un giornale era già stato anni prima, a “Popolo e Libertà”- di avermi preso per mano, come un bambino, e insegnato in sostanza tutto quel che un giornalista radiotelevisivo messo di botto a dirigere un giornale di carta non sapeva fare: dalle correzioni notturne di bozze ai titoli costretti dentro quel preciso numero di caratteri, per non dire degli editoriali che evitassero le fastidiose girate nella pagina dei funebri o delle mattutine riunioni di redazione che rimanessero in tempi ragionevoli (qui senza successo, purtroppo per i nostri carissimi e pazientissimi colleghi del “Giornale del Popolo”). E stavo per dimenticare i discreti ma calorosi consigli a non scrivere troppo “in difficile”.
Ma soprattutto gli devo di avermi corretto, e solo con l'esempio della sua dolcezza di carattere, nel modo sbrigativo di trattare chi commetteva (presunti) errori nel nostro complicato e affascinante lavoro. Lui, d'altra parte, mi diceva con bontà di ammirare la forza che mi permetteva di affrontare le difficoltà gestionali di un giornale povero di mezzi e spesso sull'orlo della bancarotta. Una forza che lui –e giustamente- attribuiva alla fede.
Non posso infatti tacere delle tante circostanze in cui le nostre chiacchierate entrano nella “zona fede”. L'attaccamento di Gianmaria alla tradizione cristiana era forte, anche se non si esprimeva nella cosiddetta “pratica”. Ma lo interrogava profondamente, al di là della versione riduttivamente moralistica del cristianesimo che purtroppo ne ha dominato per decenni la presentazione e la proposta.
Il coraggio con cui Gianma ha affrontato la malattia e la serenità con la quale ha accettato il suo destino, nella lotta, hanno testimoniato a tutti, a cominciare dalla sua cari, la fecondità di questa radice. Ricordandomi la figura, che ho potuto conoscere personalmente, di sua madre, rimasta vedova prima dei quarant'anni con quattro figli ancora piccoli. Una figura che, con quella del padre, ha certamente contribuito in modo decisivo a piantare quella radice nella bella vita del mio carissimo amico Gianmaria.