IL FEDERALISTA
Mésoniat: "Se Israele si inoltra nella trappola di Hamas..."
“Tel Aviv conquista vittorie tattiche, ma deve fare i conti con una profonda frattura interna, con un crescente isolamento internazionale e con il rifiorire dell’antisemitismo nel mondo”

di Claudio Mésoniat - Il Federalista

Si è soliti far risalire la testardaggine di Benjamin Netanyahu nel protrarre il conflitto con Hamas – aggravandone giorno dopo giorno i costi umani, materiali, diplomatici e di immagine – a interessi di sopravvivenza politica a corto termine, suoi e del suo governo. È vero: la guerra scaccia le elezioni e consente al premier israeliano di rinviare la resa dei conti giudiziaria che incombe su di lui per accuse di corruzione. Ma non basta fermarsi a questo livello di lettura.

Neppure l’invito, dopo due anni di guerra, a immedesimarsi nelle atrocità del 7 ottobre 2023 può più giustificare le operazioni in corso. Quelle stragi, che tanto “palestinismo” occidentale ha subito rimosso, restano la scintilla di un conflitto che i leader più vicini a Netanyahu continuano a trasformare in vendetta indiscriminata, proiettando sull’intero popolo palestinese la brutalità terrorista di Hamas. Che, paradossalmente, di quel popolo è al tempo stesso carnefice e aguzzino.

Osservando lo sviluppo del conflitto, emerge un dato inquietante: l’élite di Hamas, da Ismail Haniyé a Yahya Sinouar fino a Khalil Hayyé, ha saputo associare al cinismo ideologico – che espone la propria gente ai bombardamenti standosene all’estero o nascosta sottoterra, “protetta” dagli ostaggi – una sorprendente capacità strategica. Quasi sfruttando la propria debolezza, Hamas ha spinto Israele a rincorrere una chimera di “vittoria totale”, costringendolo a operazioni sempre più cruente, fino a progettare l’occupazione dell’intera Striscia.

Va sottolineato, però, che non è “Israele” a incarnare questa deriva, bensì il governo Netanyahu. Una larga parte della società israeliana non condivide la follia guerrafondaia dell’esecutivo, e lo stesso Mossad, come l’esercito guidato dal capo di Stato maggiore Eyal Zamir, frena sull’escalation: “Avanzare lentamente e con cautela per ridurre al minimo i rischi per soldati e ostaggi”, ha riportato Haaretz.

Determinanti nel condizionare le scelte del primo ministro e del ministro della Difesa Israel Katz sono i rappresentanti dell’ideologia messianica al governo, Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, fautori della retorica del “Grande Israele” sui territori biblici della Torah, fino a spingersi oltre i confini storici. Uno specchio inquietante dell’islamismo radicale di Hamas, che nella propria dottrina contempla la cancellazione del popolo ebraico dalla faccia della terra. Ne deriva un confronto tra due ideologie politico-religiose totalitarie, che oggi non lascia spazio a reali prospettive negoziali.

Sul piano strategico, Hamas, pur militarmente inferiore e sconfitto sul campo, sta conducendo Israele a una serie di rovesci senza precedenti. Tel Aviv conquista vittorie tattiche, ma deve fare i conti con una profonda frattura interna legata al destino degli ostaggi, con un crescente isolamento internazionale – persino Donald Trump ha espresso scetticismo sul vicolo cieco in cui Netanyahu ha trascinato il Paese – e con il rifiorire dell’antisemitismo nel mondo.

Infine, la miopia politica dell’attuale governo ha prodotto un capolavoro negativo in Medio Oriente: il deterioramento dei rapporti con i Paesi arabi, che sta vanificando il fragile percorso di distensione avviato con gli Accordi di Abramo. Un’opera di demolizione diplomatica suggellata dall’attacco sulla capitale qatariota, che rischia di chiudere ogni spiraglio di dialogo e di condannare Israele a un futuro sempre più isolato.

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