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Politica e Potere
17.01.2017 - 14:100
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

La verità, nient'altro che la verità, sul caso di Nicola Corti. Bisogna dissipare tutte le ombre sulle dimissioni del procuratore pubblico e sul suo j'accuse contro i vertici del Ministero Pubblico

L'ANALISI - Per chiudere la faccenda come si deve, occorre calma e soprattutto grande distacco tra i vari attori sulla scena. Chi sarà chiamato a dirci chi aveva ragione dovrà apparire assolutamente neutrale. Non abbiamo bisogno di pregiudizi ma di giudizi, fondati su tutti gli approfondimenti necessari. E sulla base dei fatti

di Andrea Leoni

 

Dunque, vediamo di ricapitolare. Il procuratore pubblico Nicola Corti si dimette dalla carica puntando il dito contro il suo datore di lavoro: il Ministero Pubblico. Questo accade il 22 dicembre con una lettera inviata all'autorità di nomina, l'Ufficio presidenziale del Gran Consiglio, in cui il magistrato dimissionario mette nero su bianco una serie di accuse molto gravi contro i vertici della Procura.

 

Scrive Corti: "Quale magistrato non partecipo a giochi di potere, non proteggo niente e nessuno se non il buon funzionamento della giustizia, non mercanteggio e non assecondo". E ancora: “Preferisco quindi offrire ad altri la possibilità di rivelarsi pienamente operativi, autonomi quanto occorre per mantenersi indipendenti e imparziali, celeri ed efficaci, al servizio e non asserviti, autorevoli e non autoritari”.

 

Le dimissioni e la lettera del procuratore vengono rese pubbliche soltanto il 12 di gennaio, non per un atto di trasparenza istituzionale ma per merito del lavoro giornalistico del Quotidiano, che fa lo scoop. A questo punto succede ciò che è inevitabile e ovvio: scoppia un pandemonio. Anche perché il procuratore John Noseda nulla sapeva né delle dimissioni di Corti né delle sue accuse: lo ha appreso dalla stampa. Così come il direttore del Dipartimento delle Istituzioni Norman Gobbi.

 

Immediatamente i vertici istituzionali del Cantone reagiscono e fanno quadrato intorno al Ministero Pubblico. Gobbi getta acqua sul fuoco e minimizza le accuse di Corti: in ogni caso, afferma, l'indipendenza dei procuratori non è minacciata. Il presidente del Consiglio della Magistratura Werner Walser si affretta ad affermare che “lo stato di salute del Ministero pubblico ticinese è buono”. E se da una parte è logico che il riflesso istintivo delle Istituzioni sia quello di tutelare l'immagine e la credibilità di un ufficio così delicato come quello del Ministero Pubblico, dall'altra appare un po' troppo sbrigativa e frettolosa, in rapporto alle accuse lanciate da Corti, la strada con cui si cerca di chiudere il caso. La sensazione evidente è quella che le parole del procuratore dimissionario non vengano prese in considerazione, perché non ritenute fondate. Non gli credono.

 

E qui in particolare ci riferiamo al Consiglio della Magistratura che dovrebbe avere una posizione "terza" tra Corti e il Ministero Pubblico. Soprassediamo sulla rapidità con cui il presidente Walser, a fronte di accuse tanto gravi, si sia precipitato ad affermare che la Procura goda di ottima salute. Concentriamoci su quanto avvenuto ieri. Dopo un incontro con il Procuratore Generale, viene diffuso un comunicato firmato dallo stesso Walser a nome del Consiglio della magistratura, in cui sostanzialmente l'organo di governo della magistratura si presta al ruolo di portavoce del Ministero. Perché? Nella nota viene esternato (leggi articolo correlato) tutta l'indignazione e il malcontento della Procura, che si sente ingiustamente vittima delle accuse di Corti. Appare un po' stravagante che il Consiglio della Magistratura faccia da microfono a delle legittime posizioni, che però la Procura avrebbe potuto esprimere senza il "cappello" dell'organo di vigilanza. Altresì, al termine della nota, il Consiglio della magistratura afferma che sentirà Nicola Corti, il quale "sarà chiamato a sostanziare le sue accuse nelle sedi opportune, anche a tutela della magistratura e della sua immagine". Giusto, ci mancherebbe altro: ma il Consiglio, organo terzo, ricordiamolo, non avrebbe dovuto comunicare a mezzo stampa (seppure le opinioni della Procura e non le sue...) solo dopo aver sentito entrambe le parti in causa? E l'organo di vigilanza deve di sicuro tutelare l'immagine della magistratura, ma se Corti avesse ragione dovrebbe anche tutelare il procuratore, no? Non sappiamo quale siano le procedure corrette da adottare in questi casi, ma c'è qualcosa che stona in questo modo di comunicare e in questo gioco delle parti. È come se un giudizio fosse già maturato.

 

Anche perché è in atto un'altra vertenza tra la Procura e Corti, su cui il Consiglio non si è ancora espresso. Il procuratore è stato infatti segnalato all'organo di vigilanza da John Noseda, per alcune perplessità sulla gestione e su presunti ritardi nella gestione delle inchieste a lui affidate. In questo contesto un più chiaro distacco tra le parti in causa gioverebbe a dissipare sospetti e speculazioni. Così come una maggiore prudenza nell'esporsi.

 

Parliamoci chiaro: qui c'è chi pensa che Corti abbia scritto ciò che ha scritto per rapporti personali compromessi sul lavoro e come atto di contrattacco rispetto alla procedura in corso davanti al Consiglio della magistratura. Dalla Procura e da ambienti politici che si interessando di giustizia emergono giudizi non lusinghieri sul lavoro svolto dal procuratore a Palazzo di Giustizia. Dall'altra parte c'è invece chi sostiene che le accuse lanciate dall'ormai ex magistrato non siano del tutto infondate e che bisognerebbe andare fino in fondo nell'approfondimento del caso. Anche se è difficile: perché cane non mangia cane, si sussurra.

 

La via della chiarezza è sempre una via Maestra. E chiudere precipitosamente una vicenda del genere sarebbe un errore, perché resterebbe comunque sul Ministero Pubblico l'ombra del complotto. Sarebbe ingiusto per la Procura, se le accuse di Corti si dimostrassero false. E ingiusto per il procuratore, se al contrario quel che afferma corrispondesse a verità.

 

Fiorenzo Dadò, membro dell'Ufficio presidenziale del Gran Consiglio, ha proposto il passo più razionale, a questo punto della storia: sentire in audizione sia Corti che Noseda. Mai come in questa situazione, e chi meglio di un magistrato può saperlo, l'onere della prova spetta al "grande accusatore". Tocca a Corti sostanziare con dei fatti concreti la gravità delle sue accuse. Vogliamo sperare che prima di inviare una lettera tanto esplosiva all'autorità di nomina, si sia premurato di raccogliere degli argomenti molto solidi a sostegno della sua tesi. È vero che dimostrare una sistema di potere e una conduzione non conforme allo spirito democratico che deve animare ogni istituzione, come Corti lascia intendere, non è come dirlo, meglio, come scriverlo. In generale, infatti, l'esercizio avvelenato del Potere non passa quasi mai, o non per forza, da violazioni o da scorrettezze palesi e sanzionabili. Ma certo, in questo caso, non ci si potrà certo appellare "all'io so ma non ho le prove" di pasoliniana memoria. Serve carne sul fuoco. E parecchia.

 

In ogni caso, per chiudere la faccenda come si deve, occorre calma e soprattutto grande distacco tra i vari attori sulla scena. Chi sarà chiamato a dirci chi aveva ragione dovrà apparire assolutamente neutrale. Non abbiamo bisogno di pregiudizi ma di giudizi, fondati su tutti gli approfondimenti necessari. E sulla base dei fatti.  

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