POLITICA E POTERE
Il primo maggio di Morisoli: "Il lavoro non sia una semplice merce di scambio al prezzo più basso"
Il granconsigliere UDC: "Il cittadino dimenticato, in forma ticinese, merita protezione politica ma anche una speranza che consiste nel rilancio dell’economia che punti di nuovo sulla crescita"

di Sergio Morisoli*

Il mercato del lavoro ticinese è ben più complesso di ciò che le statistiche (statiche) della SECO possono indicare, e ben più emotivo rispetto agli studi che l’IRE, Supsi e USI possono produrre. La ragione è semplice, si tratta di un mercato in cui la merce di scambio sono gli uomini e le donne, e siccome gli uomini e le donne non sono merci inorganiche che si spostano e si comprano, ma agiscono sì razionalmente, ma anche emotivamente, non se ne  uscirà mai dal litigio se deve prevalere l’analisi della realtà così come fotografata dagli studiosi oppure deve prevalere la percezione diffusa di questa realtà.

Un mercato, qualsiasi mercato, necessità di alcune condizioni assolute e non sindacabili per funzionare: la fiducia tra gli attori, il rispetto dei valori reciprochi, una concorrenza leale, regole del gioco imparziali e chiare, il controllo e le sanzioni in caso di non rispetto delle regole, condizioni di accesso eque e non discriminatorie, il rispetto delle condizioni locali.  Il mercato del lavoro ticinese è saccheggiato perché queste condizioni non sussistono più  totalmente o parzialmente, specie se si fa finta che non ci sia un confine di Stato in mezzo.

Cosa farebbe la Lombardia (e l’Italia) se ogni mattina ci fossero 120 milioni di lavoratori ticinesi pronti ad occupare i suoi 6 milioni di posti di lavoro? Cosa farebbe questa Regione se i suoi lavoratori fossero costretti, per mantenere il posto, ad accettare salari del 30% fino al 50% inferiori rispetto a quelli da loro percepiti fino alla sera prima? Non sono numeri inventati, sono numeri arrotondati per dimostrare ciò che avviene in Ticino, ma visto da sud. Gli effetti sono in certi settori dirompenti, nel terziario e nei settori in cui la nostra disoccupazione galoppa e la preparazione dei nostri giovani è adatta crea frustrazione, rabbia, sfiducia, povertà e perfino nuova emigrazione.

I frontalieri, come tutti, hanno il diritto di migliorare la loro condizione umana, ma simmetricamente una regione, un Paese e una Repubblica come il Ticino ha il dovere di tutelare il benessere, la prosperità e il lavoro sul suo territorio. Il problema lasciato a sé stesso con il laissez faire dei bilaterali miscelato con lo statalismo del salario minimo, ci porta alla rovina.

Non esiste una legge di mercato in grado di trovare da sola il punto di incontro tra domanda e offerta, quando le condizioni di partenza per permettere alla concorrenza di giocare sono assolutamente sproporzionate. Alcuni affermano che i liberisti (come me) dovrebbero essere felici quando saltano le barriere. Invece è scorretto pensarlo, perché il mercato, il giusto prezzo, il giusto interesse, il giusto salario, la piena soddisfazione tra chi offre e chi domanda sono possibili solo se la concorrenza cioè la competizione può svolgersi nel rispetto delle forze in campo e delle regole imparziali. Anche nella boxe i pesi massimi non combattono contro i pesi piuma.

Per finire non si capisce invece come i socialisti e gli statalisti da sempre contrari alle libertà di mercato e favorevoli ad ogni genere di intervento dello Stato in economia, stranamente su questo campo loro sono ultraliberisti: dentro tutti che poi le cose si aggiustano statalizzando i salari. Salari minimi che diventano i minimi per i frontalieri ma i massimi per i residenti! Un qualche sospetto viene. Forse la distruzione del mercato indigeno del lavoro è la premessa e va favorita affinché la costruzione di un sistema pianificato e centralista del lavoro possa prendere avvio? O forse torna di moda il tanto peggio, tanto meglio?

Certamente non ne usciremo se non metteremo al centro il valore del lavoro per chi lo esercita e lo cerca e non il lavoro come semplice merce di scambio possibilmente al prezzo più basso.

Nel frattempo, non facciamo più figli, la popolazione invecchia, i giovani si spengono e gli adulti si rassegano, metter su famiglia è un atto eroico mentre delocalizziamo lavoro e importiamo lavoratori, lo stato sociale è in banca rotta e tiriamo a campare. Da politici poi, invece di favorire la creazione di una torta più grande per tutti, ci strappiamo le fette sempre più piccole di ciò che rimane, convinti di farla franca. Qualcosa che non quadra ci sarà pure se il potere di acquisto di un padre e una madre di famiglia che lavorano entrambi con un salario medio è inferiore a quello di un solo salario di 30 anni fa. Se 1 giovane su 10 tra i 25 e i 35 anni va via dal Ticino.

Non sono solo i salari che non crescono abbastanza a non quadrare, ma la quota di imposte, tasse, balzelli che non bastano mai per coprire una spesa statale fuori rotta; e le assicurazioni obbligatorie, costi cartellari, prezzi statalizzati che su 100 franchi tutti assieme se ne portano via 70, lasciandoci la libertà di spenderne come vogliamo solo 30.  

Meditiamo, nella festa laica del primo maggio. Il cittadino dimenticato, in forma ticinese, merita protezione politica ma anche una speranza che consiste nel rilancio dell’economia, cioè una politica economica seria che punti di nuovo sulla crescita e non sul declino “felice-verde-inclusivo” controllato basato sulla barbara spartizione di quel che resta. Per questo ci vuole un nuovo patto di Paese: l’economia da sola non basta e lo Stato da solo non può farcela e fa pasticci. Dobbiamo fare qualche cosa. Di mezzo c’è una vastissima categoria di cittadini, famiglie, lavoratori salariati, piccoli proprietari, artigiani, commercianti vari, albergatori, imprenditori di cui lo Stato non si occupa direttamente (per fortuna!): non hanno diritto ai sussidi o agli aiuti pubblici, non si lamentano, non manifestano (oggi non sono in piazza… e nemmeno domani), non hanno lobby; per questo ci si dimentica facilmente di loro; salvo chiedergli di lavorare, produrre, pagare, crescere i figli e ubbidire alle leggi, subire le diseconomie dei mercati dopati in silenzio e andare a votare “il partito giusto” ogni quattro anni. Sono loro a tenere assieme e mandare avanti grazie alle loro vite la comunità. Il 1. maggio dovrebbe essere la loro festa, non solo di quella categoria limitata, predefinita e selezionata, oltre che monopolizzata dai sindacati e dalla sinistra: quella dei lavoratori anonimi (proletari di tutto il mondo unitevi!) che corrisponde alla loro ideologia. Del resto, ammesso e non concesso che ci sia ancora una classe operaia da difendere, che succede? Succede che “in fondo si battono per diventare borghesi pure loro”, come diceva già Charles Peguy (era socialista!) un secolo fa ne « Il denaro».

*granconsigliere UDC

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