"Se una ditta offre un salario a un lavoratore straniero di 2 o 3 fino a 4 volte inferiore a un residente, non è libero mercato. È sfruttamento"
di Sergio Morisoli *
È un primo maggio particolare. In questo momento, il posto di lavoro forse più importante del mondo, quello di Papa, è vacante. È un mestiere strano il suo; indirizza il modo di vivere materiale di centinaia di milioni di fedeli e indirettamente anche centinaia di milioni di non fedeli, affinché oltre al benessere mondano possano raggiungere la salvezza nell’aldilà. Il cristianesimo è una religione impastata con la carnalità umana, non tralascia nulla di ciò che siamo, di cosa facciamo e di come lo facciamo. Per questa ragione il lavoro del Papa è quello di occuparsi del nostro al di qua di oggi, per garantirci il nostro aldilà di domani.
Non è un caso che la Chiesa cattolica (“la multinazionale dei Papi”) da fine ‘800 abbia iniziato a occuparsi sistematicamente e ordinatamente di questioni materiali “moderne” quali economia, sviluppo, ricchezza e lavoro, e lo faccia costantemente anche oggi. Sono numerose le encicliche e i documenti elaborati per affrontare queste questioni e sono raggruppati in quello che viene chiamata “dottrina sociale della Chiesa”. Il tema del lavoro dell’uomo è sempre stato al centro dell’attenzione dei Pontefici degli ultimi 150 anni. Per avvicinarci a noi, pensiamo a Giovanni Paolo II che frequentò i famosi cantieri di Danzica con il sindacato Solidarnosc, a Benedetto XVI che si definì un “umile operaio della vigna del Signore” o a Papa Francesco lavoratore delle “periferie del mondo” come lui le definiva. Il massimo raggiunto dal pensiero, dalla riflessione cristiana concernente il lavoro è molto probabilmente l’enciclica tutta dedicata al lavoro del 1981 Laborem exercens di papa Woytila, voluta da uno che ha vissuto sulla sua pelle i terribili regimi nazista e comunista che hanno idolatrato il lavoro fino alla perversione di usarlo come strumento di tortura, di alienazione dell’umano nonché come strumento liberticida e mortifero; ma anche per denunciare la disumanizzazione frenetica del lavoro dei nostri tempi. Ridiede al lavoro, ai lavoratori, ma anche alle imprese e agli imprenditori il valore e la missione di completare nel tempo e nello spazio l’opera divina.
Purtroppo sempre di più la Dottrina sociale della chiesa viene fatta scivolare, contro ogni sua origine e sviluppo, nella disattenzione generale o nella intenzionalità particolare della sinistra verso una dottrina socialista della chiesa. Dal termine “sociale” travisato e politicizzato si estrapola, da un patrimonio di oltre 100 anni di tradizione su questo tema, solo ciò che fa comodo alla causa del momento. Cosa c’è da aspettarsi dal lavoro del nuovo Papa? Oltre a molte altre cose, che il tema centrale del lavoro torni alla ribalta. In un’epoca dove si fa gara ad erigere muri, a produrre protezionismo, a delocalizzare o rilocalizzare attività, all’aurora di nuovi e vecchi regimi autarchici, alla fin fine non si può certo non dire che tutto questo non sia fatto per rubarsi lavoro, lavoratori e ricchezza.
Ma il mondo è cambiato molto. Il lavoro scappa, il lavoro viene inseguito, il lavoro muta in continuazione, il lavoro viene distrutto e ricostruito e con esso mutano la società, i lavoratori, i mercati, le ditte. Si emigra, si diventa vieppiù nomadi, si viene esclusi o si è presto scarti per il lavoro, il lavoro è spesso un tablet fuori dal mondo. Il lavoro va e viene, i lavoratori senza vita sociale pendolano per ore tra casa e lavoro, il lavoro è precariato, il lavoro da bene di massa diventa quasi bene di lusso, il lavoro non ha più tempo: oggi c’è, domani forse e dopo domani sparisce. Gli adulti sono rassegnati, nostalgici; i giovani smarriti, incattiviti verso il lavoro; i politici promettono quello che sanno già di non poter mantenere. Ecco senza cadere nel disfattismo o nella disperazione, credo che se c’è un’emergenza in questo primo maggio debba essere quella del lavoro; un’emergenza che va presa sul serio da noi che per decenni siamo stati abituati alla crescita economica, a poter decidere che lavoro svolgere, a cambiarlo quando eravamo stufi, a poter rifiutare paghe inadeguate, a conoscere la certezza che sarebbe stato sempre meglio.
Purtroppo sembra di capire che le manifestazioni, i cortei e le grida di questa festa saranno invece dirette, come al solito, contro qualcosa o contro qualcuno. Modi e contenuti del secolo scorso, del secolo dell’abbondanza, della priorità della ridistribuzione; modi e contenuti superati, inefficaci ed inefficienti oggi quando dobbiamo trovare un punto comune su come creare lavoro, stipendi dignitosi, utili aziendali, investimenti, ricchezza e gettito fiscale aggiuntivo. Le discese in piazza che conosciamo a caccia di colpevoli, contro tutte le ingiustizie di questa terra, non ci muovono di un millimetro verso la soluzione di un problema centrale per noi occidentali: la disequazione tra l’esportazione di nostri posti di lavoro e lavoratori e l’importazione di masse di bisognosi e disperati che non troveranno lavoro da noi. Si ritorna ad udire perfino alle nostre latitudini discorsi di contrapposizioni dure, di lotta di classe, di rottura, di divisioni tra buoni e cattivi, di sfruttati e sfruttatori, discorsi allarmanti, estremisti. Sta risbocciando di nuovo qua e là, la più chic e intellettualmente «nobile»: lotta di classe camuffata astutamente nei cavalli di troia dell’ambientalismo o del genderismo.
Ma lotta tra quali classi e classi? Vi è che le classi non ci sono più, sono confuse e si compenetrano. Ammesso e non concesso che la «borghesia» sia una classe ancora viva, questa è totalmente in crisi, e forse da questa crisi deriva anche la crisi più generale. Non perché siano più poveri o perché guadagnino meno, o perché i mercati finanziari li ha spazzolati. No, penso piuttosto per via che il ruolo sociale e economico della borghesia si sia smarrito. Il borghese non sente più il suo ruolo come una necessaria partecipazione al bene comune: generare posti di lavoro, ricchezza da distribuire, solidarietà locale, mecenatismo, innovazione imprenditoriale, rischio innovativo, caritativa. Si accontenta da anni di pagare le imposte (molte, troppe), ritenendo erroneamente che tutti questi scopi sociali, una volta a lui conformi e cari, li faccia lo Stato con la sua burocrazia ridistributrice.
Il borghese pensa quindi ai suoi stretti interessi, si isola e con lui la «classe» borghese si atomizza finemente al punto da scomparire. Vuol starsene in pace e senza radici, fino ad essere politicamente e socialmente ininfluente, ma nello stesso tempo diventa preda di chi i soldi li vuole «andare a prendere dove ci sono». Delegando allo Stato una lunga serie di spazi di libertà e di azione, oltre ai soldi tramite le imposte pagate, il borghese medio è convinto di poter stare lontano dalla politica, o di vederla solo con la coda dell'occhio. Si dimentica che se lui non si occupa di politica locale sarà presto o tardi la politica ad occuparsi anche in modo improprio di lui, della sua attività economica e del suo patrimonio. La borghesia, intesa come «classe» di chi si ingegna per conto proprio sia economicamente che socialmente senza nulla chiedere allo Stato, è in estinzione. Si è fatta sostituire dallo Stato e dai suoi uffici proprio paradossalmente in ciò che la caratterizzava di più: fare da pioniere politico nel modo e nei metodi di produrre ricchezza (economia) e far partecipare spontaneamente anche gli altri e i meno fortunati al proprio successo (solidarietà). Ha dimenticato che la sua azione «nobile» di creare lavoro e prosperità congiunta alla solidarietà diretta era la base per la sussidiarietà, cioè fare intervenire lo Stato il più tardi possibile. Scompare, non perché è diventata cattiva borghesia o altri aggettivi figli dell'invidia di chi sfila, ma perché fatalmente ha creduto che bastasse dare molti soldi allo Stato, tramite le imposte, per mantenersi in vita come categoria sociale dirigente e rispettata. I
l welfare ha distrutto la borghesia ma non è più in grado nè di salvare i bisognosi ( in aumento) né di mantenere le promesse ideologiche e egualitarie (non ci sono più i soldi). Sull'altro fronte, ammesso e non concesso che ci sia ancora una classe operaia, ma sarebbe meglio dire di impiegatizi, che succede? Succede che “in fondo si battono per diventare borghesi pure loro”, come scrisse già Charles Peguy (era socialista!) un secolo fa ne « Il denaro». Quando il lavoro, la rimunerazione e la vita sono sconnessi sorgono i problemi. Se il lavoro è pubblicizzato come male indispensabile anziché un bene, e occorre battersi, per farne di meno; se la rimunerazione non è mai abbastanza e non c'entra con il lavoro ma con il poter spendere più soldi; se la vita inizia solo la sera dopo il lavoro e nei week end mentre la settimana è una schiavitù, allora più che di classe operaia bisognerebbe parlare di cittadini smarriti che diventano per forza frustrati e indignati perché non coordinano più il senso della loro esistenza.
Stiamo in guardia. Non facciamoci prendere dalla logica ideologica, fallimentare ma rinascente, della lotta tra capitale e lavoro e quella tra padroni e operai che paralizza e impedisce di sfruttare le opportunità del mercato, e danneggia la vita di tutti. Il Ticino non è così isolato e protetto da queste tentazioni, anche le «lotte» sono ormai globalizzate. Il mercato del lavoro ticinese è ben più complesso di ciò che le statistiche (statiche) della SECO possono indicare, e ben più emotivo rispetto agli studi di vari istituti. La ragione è semplice, si tratta di un mercato in cui la merce di scambio sono gli uomini e le donne, e siccome gli uomini e le donne non sono merci inorganiche che si spostano e si comprano, ma agiscono sì razionalmente ma anche emotivamente non se ne uscirà mai dal litigio se deve prevalere l’analisi della realtà così come fotografata dagli studiosi oppure deve prevalere la percezione diffusa di questa realtà. Siccome il lavoro non è solo salario, funzione, cahier de charges, ma è pure realizzazione di sé stessi, orgoglio, sfida personale e collettiva, e premessa per sviluppare altro nella vita; sbaglia chi lo vuole ridurre al semplice incontro di Domanda e Offerta e misurarlo con franchi, metri, litri e chili, il lavoro va oltre.
Provo a dimostrarvi quante cose non scientifiche si possono osservare e dire sul mercato del lavoro ticinese, ma che pur non essendo scientifiche e forse nemmeno misurabili contano, contano eccome. Faccio apposta qui di seguito ad elencare argomenti per corrodere il costume e l’abitudine a ragionare nella categoria che conta solo ciò che si può misurare e che quindi non esiste e non merita indagine quello che non può figurare nelle statistiche. Per la prima volta dagli anni ’60, dopo una lunga crescita ticinese, la generazione di chi entra, se entra, nel mercato del lavoro non sa quanto potrà starci; chi sta studiando non capisce bene perché deve impegnarsi non vedendo orizzonti con un minimo di punti fissi. Metter su famiglia e fare figli poi è un atto eroico…La percezione del tempo e del futuro lavorativo, da parte dei giovani è stravolta. Noi sapevamo che bastava impegnarsi e che avremmo trovato un posto, che avremmo avuto un salario in costante aumento negli anni, e che se il lavoro non ci piaceva più avremmo potuto facilmente cambiarlo; capivamo senza studi e statistiche che l’economia cresceva e offriva molte opportunità, il merito corrispondeva all’impegno e viceversa.
I miei figli, come molti altri giovani, oggettivamente non hanno questo orizzonte e sostituirlo con qualcosa di altrettanto attrattivo non è uno scherzo. Come non spegnere il desiderio dei giovani e non subire il disfattismo degli adulti? Questo è uno dei problemi che produce un mercato del lavoro saccheggiato. Un mercato, qualsiasi mercato, necessità di alcune condizioni assolute e non sindacabili per funzionare: la fiducia tra gli attori, il rispetto dei valori reciprochi, una concorrenza leale, regole del gioco imparziali e chiare, il controllo e le sanzioni in caso di non rispetto delle regole, condizioni di accesso eque e non discriminatorie, il rispetto delle condizioni locali. Il mercato del lavoro ticinese è saccheggiato perché queste condizioni non sussistono più totalmente o parzialmente.
Tra i disoccupati, e gli inattivi, ci sono certamente dei lazzaroni, il sistema sociale generoso gli permette di esserlo, hanno capito perfettamente che il non lavorare dal punto di vista materiale e utilitaristico, in un orizzonte vuoto, non è molto diverso dal lavorare. E che il tirare avanti di giorno in giorno è cultura e non più deviazione. Questa categoria lasciamola stare. Gli altri potrebbero lavorare ma non hanno (più) o non le hanno mai avute le giuste caratteristiche (skills). Gli altri ancora hanno tutto il necessario ma sono sostituiti da chi costa meno. Sono 3 categorie grezze, ma ci devono obbligare a trattare il fenomeno occupazione in declino in modo diverso anziché come una massa uniforme di cercatori di impiego. Se poi li suddividiamo per settore economico si scoprono magari vie di soluzione interessanti. La disoccupazione non è un fenomeno di massa, ma un fenomeno personale e individuale dove solo la singola persona messa in condizione di lavorare conta, non le statistiche e le sue variazioni mensili e stagionali.
Tra i datori di lavoro c’è chi, ed è la maggioranza, è serio, fa fatica, investe e acquista in Ticino, rinuncia agli utili per reinvestirli in azienda, fa sacrifici per non licenziare e fa di tutto per assumere domiciliati ticinesi. Poi ci sono i loro concorrenti locali che fanno esattamente il contrario. E poi ci sono quelli, senza radici e legami locali, che hanno capito che sfruttare la frontiera come differenziale per approvvigionarsi in sotto forniture e lavoratori italiani è di gran lunga la mossa competitiva più interessante. Più interessante e meno costosa che investire in innovazione, in formazione, in marketing, in ottimizzazione. Poi ci sono quelli che essere in Ticino o altrove fa lo stesso, devono rispondere con i numeri a CFO (contabili) anonimi piazzati a migliaia di km da qui, e che magari non sanno la differenza tra Svizzera e Svezia.
Sono, queste, le categorie di lavoratori, di disoccupati e di datori di lavoro tutte presenti sul nostro micro territorio quindi sono fatti concreti e reali. I fatti o si affrontano o si negano, oggi invece sembra che se la realtà non corrisponde al modello ideologico del momento allora non è il modello a dover essere rivisto, ma è la realtà che deve essere manipolata. Se aggiungiamo che i posti pubblici e para pubblici federali, cantonali e comunali sono crollati a picco negli ultimi decenni, e con essi l’era in cui i partiti facevano gli uffici di collocamento, il quadro della sproporzione tra aspettative e non risposte è completo. E poi ci sono quelli che pur avendo un lavoro non si sentono molto meglio di chi l’ha perso o non lo trova. Se una ditta offre un salario a un lavoratore straniero di 2 o 3 fino a 4 volte inferiore a quanto sarebbe necessario dare a chi è domiciliato e vive in Ticino per permettergli di vivere senza chiedere l’integrazione di disoccupazione o di assistenza; allora sta lucrando sulla pelle dei lavoratori sia indigeni che stranieri, oppure è talmente fallimentare e fuori mercato che nemmeno in Cina ce la farebbe. Non è libero mercato: è sfruttamento.
Ammettiamolo. Nessun muro e nessuna ramina contro i lavoratori stranieri possono proteggerci da questa malvagità. Ci vuole ben altro! Ammettiamo finalmente che su quel che resta del mercato del lavoro si sta svolgendo una partita di calcio assurda. In una partita di calcio se ci fossero 11 giocatori da una parte e 220 giocatori dall’altra non diremmo che il match si svolge secondo le leggi della concorrenza e che vinca il migliore. La proporzione che per 1 posto di lavoro in Ticino ci sia 1 ticinese e 20 lombardi disposti a lavorare fino a 1/3 del salario è realtà e la stessa dell’esempio della partita. Il Ticino della globalizzazione non è vaccinato contro la crisi e le sue derive estremiste, come non è immune alle politiche sbagliate di Berna. Negli anni della grande depressione americana fu coniato il concetto dell’uomo dimenticato. Si riferiva a quei cittadini che non avevano mai avuto molto e che in più stavano perdendo anche quel poco: il lavoro, la salute e gli affetti. Oggi lo stesso concetto di cittadino dimenticato lo utilizzerei per quelle persone che in Ticino si alzano ogni mattina per lavorare, che a fatica ma con orgoglio tengono in piedi la loro famiglia, che pagano fino all’ultimo centesimo le imposte, quegli imprenditori che creano lavoro per sé e per gli altri, tutti quelli che dallo Stato non beccano neanche un centesimo di sussidio.
Sono moltissimi e dimenticati. Il cittadino dimenticato, in forma aggiornata, merita protezione politica ma anche una speranza che consiste nel rilancio dell’economia, cioè una politica economica seria che punti di nuovo sulla crescita e non sul declino controllato, e la barbara spartizione di quel che resta. Per questo ci vuole un nuovo patto di Paese: l’economia da sola non basta e lo Stato da solo non può farcela e fa pasticci. Dobbiamo fare qualche cosa. Di mezzo c’è una vastissima categoria di cittadini, famiglie, lavoratori salariati, piccoli proprietari, artigiani, commercianti vari, albergatori, imprenditori di cui lo Stato non si occupa, non hanno diritto ai sussidi o agli aiuti pubblici, non si lamentano, non manifestano e non hanno lobby; per questo ci si dimentica facilmente di loro; salvo chiedergli di lavorare, produrre, pagare, crescere i figli e ubbidire alle leggi, subire le diseconomie dei mercati dopati. Sono loro a tenere assieme e mandare avanti grazie alle loro vite la comunità.
Il 1. maggio dovrebbe essere la loro festa, non solo di chi l’ha monopolizzata riducendola a una categoria limitativa definita e selezionata dai sindacati e dai partiti di sinistra. Se l’homo sapiens si sta spegnendo, via via sostituito dall’intelligenza artificiale, se l’homo faber sarà sostituito da robot androidi, se l’essere umano tende all’immortalità grazie ai pezzi di ricambio di ogni genere; forse la domanda più lecita e urgente, non è quella marxista di cento anni fa, ma diventa quella che quasi 3'000 anni fa il re Davide si poneva nel salmo 143: “Signore, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi ?”. Ecco che, per tornare al punto di partenza, di lavoro per il nuovo Papa e per chi lo vorrà seguire non ne mancherà.
Buon primo maggio.
*capogruppo UDC