SECONDO ME
Veronica Marcacci Rossi: "Il rosso che amiamo e le violenze che non lasciano lividi"
"Aiutiamoci. Diciamocelo quando abbiamo paura. Crediamo a quella fitta nella pancia che parla e avvisa. Parliamone. Affidiamoci. Salviamoci"
TIPRESS/FRANCESCA AGOSTA

di Veronica Marcacci Rossi *

Il rosso che amiamo è quello della passione, dell’amore, dell’intensità. Un rosso che un tempo ci nutriva e si chiamava Amore. Poi, lentamente, si è sbiadito nella rabbia, in una passione diventata ossessione, in un’intensità scivolata nella morbosità. Oggi quel rosso è un intruso nelle nostre vite: l’uomo che credevamo essere il nostro futuro, il nostro domani, forse persino il nostro “per sempre”, è diventato un’ombra che divora ciò che resta di noi. E allora ci chiediamo cosa rimanga di quel “noi”.

Rimane una vita distrutta, tormentata, vissuta sempre in punta di piedi per non svegliare l’orso che dorme, per non attivare una furia cieca che non vede più la donna che eravamo, ma solo un bersaglio da punire perché non siamo più “sue”. Il sole diventa tempesta, la vita sopravvivenza. È così che questa diventa una storia come tante: una storia che nessuno vorrebbe raccontare, quella di una donna che ha offerto la sua passione all’orco e da quel giorno non vive più davvero.

Parliamo di parole sottili, leggere come spine, che ogni giorno portano via un pezzo; di tutti quei “non fa niente” che invece facevano tutto, troppo, sempre troppo. Parliamo di quel rossetto che non ci appartiene più, di quel rispetto che nessuno sembra più considerare necessario, di chi ancora oggi, in silenzio, subisce; perché le poche parole che le restano servono a chiedere scusa prima di ricevere l’ennesimo sgarbo.

Parliamo anche delle violenze che non lasciano lividi: quelle che si travestono da cultura, da tradizione, da “dovere”. Delle donne a cui viene detto come vestirsi, di quelle a cui è imposto di coprire il volto non come scelta, ma come ordine. Dei matrimoni combinati, degli obblighi mascherati da fede, delle parole che diventano catene e degli sguardi che sorvegliano, giudicano, limitano.

E parliamo delle spose bambine: di chi vede rubata l’infanzia, cancellato il gioco, imposto un destino troppo grande per mani così piccole. Bambine consegnate come oggetti, private del diritto di crescere, di scegliere, di vivere. Bambine che il mondo chiama “mogli” quando non hanno ancora imparato a essere libere.

C’è poi la violenza psicologica, che ti toglie l’anima prima del corpo, che ti convince di non valere, che ti isola, ti zittisce, ti spegne. Una violenza lenta, invisibile, ma capace di annientare tutto. E in mezzo a tanta oscurità c’è però un grazie da dire: a chi oggi offre tempo, ascolto, presenza, sensibilità; a chi dimostra con i fatti di non essere l’orco, ma un sostegno, un riparo, un faro acceso nella notte. A chi difende, accompagna, protegge; a chi sceglie ogni giorno di esserci.

Un grazie speciale alle mamme: a quelle che portano le figlie ai corsi, che le educano alla forza, alla consapevolezza, alla libertà di dire no. E alle mamme che insegnano ai figli maschi il rispetto per le donne, per le sorelle, per le compagne, per le madri; che ricordano loro che l’amore non possiede, che il rispetto non è un’opzione, che la forza non è dominio ma cura. A loro, che formano gli uomini di domani, va la nostra gratitudine più profonda.

Aiutiamoci. Diciamocelo quando abbiamo paura. Crediamo a quella fitta nella pancia che parla e avvisa. Parliamone. Affidiamoci. Salviamoci.

* sindaco di Brissago

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