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07.02.2014 - 15:160

Crisi dei mercati emergenti: “Le cause vanno ricercate nei singoli paesi, non nella politica monetaria americana”

Loris Centola, Managing Director e Co-Head CIO WM Research di UBS, commenta la crisi dei mercati emergenti e ne individua le cause, non ascrivibili in realtà al “tapering” monetario USA, come sostenuto da più parti

di Loris Centola, Managing Director e Co-Head CIO WM Research di UBS

LUGANO - Taluni individuano come causa del recente mini-terremoto nei mercati emergenti il famigerato "tapering" in America (ossia l'annunciata riduzione della stampa di moneta). Non sono d'accordo. Se così fosse, infatti, com’è possibile spiegare che il Treasury decennale americano (che dovrebbe essere negativamente impattato da tale decisione) ha in realtà guadagnato terreno, portando i rendimenti dal 2,9% al 2,6% nel periodo in questione? Inoltre, il tapering coincide con un miglioramento dei fondamentali americani, come spesso la Federal Reserve ci ha ricordato. In realtà, le cause del calo degli attivi nei mercati emergenti può essere ascritto a fattori legati a singoli paesi. In Cina, le voci di un potenziale fallimento del trust ICBC, le reazioni sulla probabile restrizione del credito e un dato economico che mostra il rallentamento della crescita nel paese hanno creato tensioni importanti. A condire il tutto ci hanno pensato l'inasprimento del deficit della bilancia commerciale in Turchia, la situazione politica in Ucraina e quella economica in Argentina e Venezuela. Questo cocktail di notizie ha portato al crollo di alcune monete (ad esempio il peso argentino -12%, il forint ungherese -3,3%, il rublo russo -5,3% e la lira turca che inizialmente ha ceduto il 10%), seguito dai mercati azionari.

L'inizio di una nuova crisi?
Non credo. Stando così le cose, penso piuttosto che si tratti di casi isolati che continueranno a creare una certa volatilità. La probabilità di un contagio regionale o globale è presente, ma relativamente bassa. Infatti, tra i paesi più colpiti figurano l'Argentina, il Venezuela, la Turchia, l'Ungheria, l'Ucraina e il Sud Africa, il cui prodotto interno lordo nominale rappresenta il 3,4% di quello mondiale. A ciò si aggiunga che, essendo economie relativamente domestiche, il loro impatto a livello commerciale su altri paesi è notevolmente limitato. Inoltre, delle monete dei sei paesi solo quattro fanno parte dell'indice delle valute dei paesi emergenti, con un peso di appena il 9%. 
Altri due fattori che limitano il rischio di contagio devono giocoforza essere considerati. Innanzitutto, a differenza della crisi degli anni '90, queste economie si trovano ora in possesso di ingenti riserve in valuta locale. Inoltre, rispetto a 20 anni fa, le emissioni in dollari americani sono state parzialmente rimpiazzate da quelle in moneta domestica, il che riduce ulteriormente la dipendenza dalla valuta forte.
Detto questo, bisogna però essere cauti: ad essere colpite da questi ribassi negli scorsi giorni sono state anche la Cina, la Russia e l'India, il cui PIL totale rappresenta un buon 18% di quello globale. Alcune di esse hanno già reagito con azioni politiche (la Cina) e monetarie (l'India). Tuttavia, non possiamo escludere un'ulteriore escalation finanziaria che incentiverà vendite generalizzate negli attivi dei ME nel breve termine.
 
Un’opportunità più che una minaccia
Il trend ribassista degli ultimi mesi sta creando delle ottime opportunità di acquisto. Tuttavia, non consiglio di entrare massicciamente su questi attivi visto l'attuale sentimento negativo. La nostra visione rimane invariata. Un portafoglio bilanciato in EUR dovrebbe mantenere una piccola porzione in azioni (circa il 4%) e in obbligazioni (circa il 3%) di mercati emergenti. Per quanto riguarda le monete, continuiamo a favorire valute di paesi solidi e/o con un surplus della bilancia commerciale (zloty polacco, yuan cinese, dollaro singaporiano, won coreano e peso messicano).

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